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Emmanuel Chabrier, L’étoile
★★★★☆
Londra, Royal Opera House, 24 febbraio 2016
Esprit francese e humour inglese
La fine orchestrazione de L’étoile aveva valso al compositore la solita accusa di wagnerismo, un’infamia per i critici francesi del 1877, anno del debutto sulle scene di questo lavoro di Emmanuel Chabrier ai Bouffes-Parisiens – un anno dopo la rappresentazione del Ring. Era la prima opera delle tre che arriverà a scrivere: seguiranno Gwendoline (1886) e Le Roi malgré lui (1887). Tre anni prima i viennesi si erano divertiti con Die Fledermaus dove lo champagne la faceva da padrone, qui il beveraggio alcolico è invece una chartreuse in cui annegano le loro disperazioni il re e l’astrologo.
L’esilarante libretto di Eugène Leterrier e Albert Vanloo – che scriveranno anche Le Voyage dans la lune per Offenbach e Giroflé-Girofla per Lecocq – ha punti di contatto con quello del Mikado di Gilbert & Sullivan, che pochi anni dopo avrebbe trionfato oltre Manica, e sembra anticipare di qualche decennio lo spirito dadaista e il surrealismo: L’étoile è un lavoro che avrebbe potuto firmare Satie e che sarà amato sia da Debussy sia da Poulenc. Quest’ultimo nel 1961 gli dedicherà una biografia.
Chabrier fa un uso genialmente creativo dell’orchestra di cui dispone (archi, due flauti, un oboe, due clarinetti, un fagotto, due corni, due trombe, trombone, timpani e percussione), simile a quella dell’Orphée aux enfers di Offenbach o delle Savoy Operas di Sullivan. Leggenda vuole che il compositore francese abbia composto la sua opera direttamente sulla partitura orchestrale, senza passare quindi dalla versione per pianoforte. Fatto sta che la sua orchestrazione ha la mirabile leggerezza di un Mendelssohn e la sapienza armonica di un Wagner. Di quest’ultimo può essere vista come un’affettuosa parodia dell’invocazione di Tannhäuser «O du mein holder Abendstern» (Tannhäuser) l’aria di Lazuli «O petite étoile!» nel primo atto.
Per festeggiare il proprio compleanno, il re Ouf I intende allestire una pubblica esecuzione, per impalamento ça va sans dire, e si aggira tra la folla alla ricerca di un capro espiatorio. Al corrente delle conseguenze nessuno tra il popolo osa lamentarsi del monarca e del suo governo. Ouf crede di aver finalmente trovato la vittima nel giovane Lazuli, che gli ha risposto con malagrazia, ma cambia prontamente idea quando l’astrologo di corte gli rivela che il condannato prescelto è in realtà il suo gemello astrale (ecco il significato del titolo!) e che le loro vite sono quindi indissolubilmente legate. La reazione sgarbata di Lazuli nei confronti del re nasceva da una delusione amorosa e per rasserenarlo, Ouf stesso propizia la fuga del ‘gemello’ con l’oggetto dei suoi desideri, Laoula, ignorando che costei è la sua promessa fidanzata sotto mentite spoglie. Nel finale, dopo grottesche peripezie che includono la presunta morte di Lazuli, Ouf si vede costretto a capitolare, cedendo Laoula a Lazuli e designandolo come proprio successore.
Esprit francese e humour inglese si mescolano nella messa in scena alla Royal Opera House di Londra. Le miniature persiane e l’inevitabile grafica dei Monty Python, la pittura ottocentesca e l’illustrazione giapponese, le prime fotografie erotiche in bianco nero e i collage pop: c’è di tutto nella fantasiosa scenografia di Julia Hansen, per non parlare dei suoi costumi che spaziano tra epoche e continenti lontani. Mongolfiere, portantine e motoscafi sono i mezzi di trasporto che vediamo arrivare in scena: nulla manca nella regia di Mariame Clément che però non sempre ha il passo spedito che quest’opera richiederebbe. Per di più l’azione è rallentata da mister Smith e monsieur Dupont: il problema di allestire un lavoro che ha dialoghi parlati in una lingua aliena al pubblico londinese viene infatti risolto qui non tanto dai sopratitoli, che non riescono comunque a rendere i giochi di parole del libretto originale, quanto dalla presenza di due gentiluomini, uno inglese e l’altro francese, che “spiegano” e commentano la vicenda, si intromettono nell’azione o si lasciano andare a battibecchi col direttore d’orchestra. Non che non siano divertenti, ma così lo spirito da opéra-bouffe volge verso un qualcosa ancora più incoerente di quello che è. Probabilmente non si poteva fare diversamente se d’altronde il teatro di Gilbert & Sullivan continua a essere quasi sconosciuto al di qua della Manica poiché ancora non si è trovato il modo di abbassare la barriera linguistica.
Mark Elder si rivela esecutore appassionato, anche se a modo suo: le finezze orchestrali sono curate al massimo, così come i passaggi lirici, ma manca un po’ di verve e di malizia nella sua conduzione che si rivela anche troppo cesellata. In scena c’è un cast misto: francesi sono Christophe Mortagne (spassoso re da operetta), François Piolino (l’ambasciatore Hérisson de Porc-Épic, Riccio de Porcospini in italico idioma) e Hélène Guilmette (deliziosa principessa Laoula), alla quale sono dedicate le pagine più sensibili della partitura; tra gli anglofoni c’è Kate Lindsey, Lazuli en travesti e il vero protagonista dell’opera. Il mezzosoprano americano non solo supera degnamente l’ostacolo della lingua, ma offre una performance eccellente con la sua voce che si piega a tutte le richieste vocali del ruolo. Ottimi anche gli altri interpreti e il coro stralunato alla cui parte femminile è richiesto di esibirsi in un ameno can-can.
Gli inglesi scoprono dunque un capolavoro che non conoscevano, ma che altrove nel mondo ha già avuto numerose e importanti produzioni e che qui da noi sarebbe un titolo utile ad arricchire le scontate programmazioni delle nostre stitiche fondazioni liriche. Speranza vana? Conoscendo gli orizzonti culturali dei nostri sovrintendenti temo di sì.
La locandina dello spettacolo
⸪