La bohème

boheme

Giacomo Puccini, La bohème

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 14 ottobre 2016

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La bohème, opera contemporanea

Come Murger, che aveva vissuto in gioventù una vita di stenti e l’aveva rievocata poeticamente nelle sue Scènes de la vie de bohème uscite come feuilleton tra il 1847 e il 1849 sul giornale “Le Corsaire-Satan”, anche Puccini pensa alla sua giovinezza vissuta in povertà e stenti quando sceglie il soggetto assieme ai librettisti Luigi Illica e Giuseppe Giacosa per la sua nuova opera nel 1895.

Opera tutt’altro che romantica, La bohème è quasi di denuncia sociale (i giovani non hanno i soldi per mangiare, Mimì muore perché non può permettersi un dottore, Musetta è costretta a “frequentare” vecchi ricchi per vivere). Prima opera lirica ambientata in una metropoli, con le sue alienazioni e la sua crudezza di vivere, La bohème è un ritratto urbano da cui l’immagine di Parigi non potrà mai più prescindere. Ed è quindi opera moderna, anticipando il Novecento. La vicenda è di oggi: giovani senza avvenire che vivono alla giornata, senza grandi speranze se non quella dell’eredità dello zio milionario.

Il libretto indica l’epoca del 1830 circa e i riferimenti del testo lo confermano: l’effigie sulle monete del monarca Luigi Filippo (re di Francia dal 1830 al 1848), il cenno a François Guizot (figura politica attiva tra il 1830 e il 1848) o al Bal Mabille (aperto nel 1831), ma quasi tutti gli allestimenti scenici hanno ambientato La bohème alla fine dell’Ottocento, all’epoca di Puccini (e già questo la dice lunga sulla “fedeltà” al libretto di certe regie “tradizionali”). Ultimamente però alcune regie “moderne” hanno messo in luce aspetti meno scontati dell’opera come quella di  Damiano Michieletto a Salisburgo nel 2012.

Ora al Regio di Torino è la volta del regista catalano Alex Ollé, uno dei direttori artistici de “La Fura dels Baus”. Il collettivo catalano si era già occupato di opera lirica con acrobazie umane e quella video grafica per cui è giustamente famoso. Ma il capolavoro pucciniano ha una dimensione naturalistica e intimista che sfida progetti grandiosi. Eppure, dopo la recente Madama Butterfly di Caracalla Ollé si è voluto cimentare anche con quest’altro titolo pucciniano in questo allestimento che vuole ricordare il centoventesimo anniversario della prima dell’opera qui a Torino il 1 febbraio 1896.

Non volendo ambientare la vicenda nel vecchio centro di Parigi, ora gentrificato e in mano a orde di turisti, Ollé la sposta nella banlieue parigina, periferia di una metropoli irta di squallidi palazzoni popolari con le inferriate ai piani inferiori, i climatizzatori appesi fuori delle finestre, le camere anguste in cui i personaggi si muovono come topi in gabbia. Per il resto non turba più di tanto l’ambientazione moderna anche se ad ogni verso ci sono contraddizioni tra quello che viene cantato e quello che si vede: la luce che va via è un black-out del quartiere, ma ritorna prima che Rodolfo canti «Cercar che giova? | al buio non si trova»; le monete d’argento sono banconote; «Che penna infame» si lamenta ancora Rodolfo chiudendo il laptop; Ma in fondo quella di Ollé è una regia tradizionale, seppure aggiornata: l’ampia soffitta è qui un angusto appartamentino, il caffè Momus è un ristorante alla moda che arriva in scena sulle rotelle. Manca qui il guizzo geniale della messa in scena di Michieletto, una lettura quella sì più stimolante.

Gianandrea Noseda dà un’interpretazione non scontata della partitura, mettendone in evidenza gli aspetti più innovativi, come quell’inizio che ricorda il Petruška di Stravinskij, che però arriverà quindici anni dopo, o l’alba del terzo quadro, che non sarebbe dispiaciuta a Debussy. Il problema di un’opera come Bohème è di essere anche troppo nota, per cui viene a mancare quella freschezza di ascolto che sarebbe necessaria per assaporarne la novità. Noseda fa di tutto per farcela assaporare questa novità, mettendo l’accento sugli aspetti più moderni della partitura con una leggerezza ed una trasparenza straordinarie.

Peccato che l’equilibrio sonoro sia spesso a favore dell’orchestra, con i cantanti un po’ in secondo piano. Vero è che non ci sono grosse voci in scena: il Rodolfo di Giorgio Berrugi non ha grande potenza vocale, ma il timbro è splendido e il fraseggio preciso; Irina Lungu, Mimì, sa trovare i giusti accenti per commuovere; la Musetta di Kelebogile Besong è maliziosamente vivace prima, toccante alla fine. Efficaci, ma non memorabili gli altri interpreti.

Ma che importa? Quando nell’ultimo quadro Mimì arriva con un berretto che nasconde il cranio quasi calvo per la malattia e si accascia sulla frusta poltrona della cameretta siamo pronti a tirare fuori i fazzoletti e quelle figurine fragili, quasi schiacciate dai palazzoni dalle mille finestre chiuse su cui cala l’oscurità, ci procurano un’emozione che la musica alimenta fino alle lacrime. Il miracolo di Puccini si è ripetuto ancora una volta.

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