Ian Burton

Animal Farm

Aleksandr Raskatov, Animal Farm

Amsterdam, Muziektheater, 3 marzo 2023

★★★★★

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

«Tutti gli animali sono simili. Alcuni di più»

In Cina è stato recentemente costruito un grattacielo di 26 piani che ospita il più grande allevamento intensivo al mondo di suini. A temperatura e atmosfera controllata, costantemente monitorati da telecamere e alimentati automaticamente, il loro ciclo va dall’ingravidamento delle scrofe alla nascita dei cuccioli, dall’ingrasso all’insaccamento…

Chissà cosa succederebbe lì in quella “fattoria” di un milione di capi se avvenisse la rivolta immaginata da George Orwell nel suo Animal Farm! Il testo uscito nel 1945 è una spietata satira della Rivoluzione Russa terminata nelle purghe staliniane: ecco infatti il vecchio maiale sognatore Old Major come Carl Marx; il secondo maiale Snowball è Trockij; l’altro maiale Napoleon è Stalin; il maialino Squealer è Berija, il capo della polizia segreta; l’instancabile cavallo Boxer è Stakhanov; l’altro maiale Minimus, il poeta, è Gor’kij. E poi ancora: la giumenta Mollie, che pensa solo ai nastri colorati, è l’aristocrazia; il corvo Blacky che promette il paradiso parlando della Montagna dello zucchero filato è ovviamente la chiesa russa e non manca neppure Orwell medesimo, l’intellettuale scettico, nella parte dell’asino Benjamin.

Nell’adattamento di Aleksandr Raskatov la storia diventa ancor più metafora di tutte le rivoluzioni umane e della loro involuzione, anche se il libretto, scritto assieme a Ian Burton, resta comunque fedele alla vicenda originale. Curiosamente, un altro elemento rende ancora più attuale l’operazione: George Orwell aveva scritto un’introduzione a Animal Farm, riportata sul programma di sala, in cui alla fine sottolineava l’amarezza del finale, per l’edizione ucraina!

Atto I. Scena 1. Il sogno di Old Major. L’incuria del contadino Jones nella sua fattoria porta a una ribellione degli animali. Essi traggono ispirazione dal sogno dell’anziano maiale, Old Major, di una vita migliore e libera dall’oppressione degli umani. Scena 2. Improvvisa rivoluzione. Gli umani vengono allora cacciati dalla fattoria e gli animali liberati ribattezzano il luogo Fattoria degli animali. Scena 3. I Sette Comandamenti. Sono guidati da sette comandamenti, concepiti per garantire che gli animali vivano alla pari e rifiutino le abitudini degli umani: I Chi cammina con due gambe è il nemico; II Chi cammina con quattro gambe è amico; III nessun animale userà i vestiti; IV nessun animale dormirà in un letto; V nessun animale berrà alcolici; VI nessun animale ucciderà un altro animale; VII nessun animale farà commerci. Scena 4. La contro-invasione. Un tentativo degli umani di riprendere la situazione è respinto con molte perdite. Scena 5. La diserzione di Mollie. Il sogno di Snowball. Fuga.Tuttavia, quando i compiti vengono divisi, diventa presto chiaro che i maiali si sono auto-nominati leader tra i quali le tensioni presto si fanno evidenti. In particolare, il piano di Palla di Neve di costruire un mulino a vento scatena un conflitto tra lui e l’altro maiale, Napoleone, che convince i maiali a schierarsi con lui e a cacciare Palla di Neve dalla fattoria, dopodiché Napoleone fa costruire il mulino a vento come se fosse sempre stata una sua idea. Il regime dei maiali guidati da Napoleone diventa sempre più oppressivo, continuando a modificare i Sette Comandamenti per mascherare i loro abusi del sistema. Scena 6. Mulino a vento. Tempesta. Rovine. Quando il mulino a vento viene colpito da un fulmine, i maiali affermano che Palla di Neve ne è responsabile e deve essere punito.
Atto II. Scena 7. Tre esecuzioni. Anche i “traditori” devono subire un processo: molti animali confessano crimini bizzarri e vengono giustiziati. Scena 8. La ricostruzione del mulino a vento. Seconda invasione. Risveglio. Dopo la ricostruzione del mulino a vento, Napoleone si lascia venerare come un grande leader. La vita nella Fattoria degli Animali è ora dura e spaventosa come prima della ribellione, ma i maiali fanno del loro meglio per comunicare agli altri animali che la loro situazione è migliorata. Un attacco da parte di Pilkington, un contadino vicino, viene fermato con successo, ma molte vite vengono perse. Scena 9. Il collasso di Boxer. Una festa si trasforma in dissolutezze tra i maiali e quando il vecchio ed esausto cavallo da tiro Boxer crolla, i maiali promettono di portarlo dal veterinario, ma gli altri animali sanno che mentono e lo stanno portando al macello, ma si sentono impotenti ad agire. Epilogo. I Sette Comandamenti sono diventati inutili e l’uguaglianza è un sogno lontano nella Fattoria degli Animali.

Russo di origini ebraiche, Aleksandr Raskatov è nato il 9 marzo 1953, il giorno dei funerali di Stalin. Nel ’94 si è trasferito in Germania e in seguito in Francia, ma gran parte della sua vita fino a quel momento era stata influenzata dallo stalinismo: il nonno aveva vissuto in un Gulag e il padre aveva dovuto lasciare la professione di medico in quanto ebreo. La precedente opera di Raskatov, Cuore di cane, anche quella una grottesca satira della società sovietica per la penna di Mikhail Bulgakov, ha avuto la prima qui all’Opera Nazionale Olandese nel 2010 ed è stata quella l’occasione per la commissione di un nuovo lavoro da parte del regista Damiano Michieletto. Dopo Il pozzo e il pendolo (1991) da Edgar Allan Poe, Animal Farm è dunque la sua terza opera in un catalogo piuttosto ricco che comprende musica da camera, vocale e sinfonica.

Nella stesura del libretto con Ian Burton, il compositore ha messo in bocca agli animali molte citazioni letterali che Orwell non poteva conoscere in quel tempo: «Finché respirerò lotterò per il nostro futuro» di Trockij; «Perché hai bisogno della mia morte?», le ultime parole di Bukharin a Stalin; lo spietato «Grida oppure no. Tanto non conta nulla» di Berija; il cinico «Se c’è una persona, c’è un problema. Se non c’è nessuna persona, non c’è nessun problema» di Stalin. Il testo è pieno di arguzie e la lingua inglese gioca a fare i versi degli animali. Meno oratoriale dell’originale, il libretto di Burton e Raskatov affida alla vivacità dei dialoghi i pensieri di Orwell, formando uno strumento perfettamente modellato sulla musica del compositore russo che è energica e stravagante: ci si ritrovano i ritmi sghembi di Prokof’ev o quelli ostinati di Šostakovič ma anche certo minimalismo americano, è presente il folclore russo e il jazz, il belcanto e il musical, tutto ricreato con un’orchestrazione sapientissima che incorpora con felice necessità tecniche dell’avanguardia nell’uso degli strumenti – glissandi, colpi sulla cassa o inediti usi degli archetti e della percussione.

Oltre agli archi, ai legni (due flauti, due oboi, tre clarinetti, due fagotti) e agli ottoni (quattro corni, tre trombe, quattro tromboni e basso tuba) l’orchestra di Animal Farm prevede timpani, sei percussionisti, due arpe, celesta, pianoforte, due sassofoni, chitarra elettrica e basso, cimbalom. Purtuttavia mantiene sempre una certa trasparenza: raramente gli strumenti suonano tutti assieme e la loro varietà serve a passare da uno stile all’altro con sorprendente fluidità fino ad arrivare a momenti di impagabile straniamento quale il numero di Pigetta, la giovane attrice irretita da Squealer, abbigliata come l’“atomica”, Rita Hayworth: «You are so beautiful, Pigetta! Your tail is so curly! Your snout so pink! Your udder is so sexy!» (Sei così bella, Pigetta! La tua coda è così arricciata! Il tuo muso è così rosa! Le tue mammelle sono così sexy!) e poi da lui ammazzata, «It is not a bouquet! It’s a wreath! May it rot on your grave!» (Non è un bouquet! E’ una corona di fiori! Che possa marcire sulla tua tomba!) e sono ancora parole dette da Berija. Sempre molto originale e pieno di risonanze particolari il trattamento degli archi, che sono il vero centro sonoro della sua composizione.

Le tecniche vocali poi sono di una ricchezza inusuale e con una gamma che va dal registro basso e solenne di Old Maijor, da pope ortodosso, ai suoni perforanti di Squealer, alle colorature stratosferiche di Mollie. Il risultato è un’opera musicalmente godibilissima che sorprende per la varietà dei colori e degli stili. Il tutto riceve un impulso fondamentale dalla messa in scena di Michieletto, che si adatta perfettamente al tono della vicenda: l’ambientazione atemporale è quella di un asettico mattatoio dalle pareti di marmo bianco e dalle fredde luci al neon – Paolo Fantin dice di essersi ispirato a quello di Roma – con gabbie di ferro che racchiudono il “nostro cibo”. Michieletto qui forse si ricorda del suo allestimento de Il dissoluto punito, il Don Giovanni Tenorio di Ramón Carnicer i Batlle ambientato in una macelleria, presentato a La Coruña nel 2006. Qui i personaggi vestono maschere di animali che poi a poco a poco abbandonano per diventare sempre più simili agli uomini, con tutti i loro vizi. Anche i comandamenti scritti a vernice rossa sui muri vengono a mano a mano  modificati con vernice nera. Le gabbie spariscono e lasciano posto nel finale a divani di velluto e a lampadari di cristallo quando la trasformazione degli animali negli umani tanto odiati è definitivamente completa.

L’evoluzione della psicologia dei personaggi è particolarmente curata nella regia di Michieletto e ci scopriamo partecipare per questo o quello: molto sofferta è la parabola di Boxer, il cavallo da tiro che dopo essere stato sfruttato prima dal padrone e poi dalla rivoluzione alla fine è buono soltanto come carne da macello. Particolarmente pungente è il personaggio di Squealer, manutengolo del tiranno, e sordido erotomane e candidamente disarmante quella di Mollie, la giumenta che si liscia in continuazione i capelli, pardon la criniera, adorna di nastri colorati. Perfetti sono i costumi di Klaus Bruns e sempre efficaci le luci di Alessandro Carletti.

Oltre alla superba performance dell’Orchestra da camera olandese diretta con competenza ed entusiasmo dal giovane Bassem Akiki e del coro del teatro affiancato dal coro di voci bianche, tutti i solisti formano un insieme omogeneo e di grande efficacia. Ecco, doverosamente, tutti i loro nomi: lo strepitoso soprano coloratura Holly Flack (la giumenta Mollie); il tenore e all’occorrenza sopranista Karl Laquit (la maialina Pigetta e l’asino Benjamin); il soprano Elena Vassilieva (il corvo Blacky); l’intenso mezzosoprano Maya Gour (la capra Muriel); il soprano Francis van Broekhuizen (Ms Jones); il contralto Helena Rasker (la giumenta Clover); il controtenore Artem Krutko (il maiale Minimus); il bravissimo tenore James Kryshack (il maialino Squealer); il tenore Michael Gniffe (il maiale Snowball); il tenore Marcel Beekman (il trucido Mr Jones); Germán Olvera (il cavallo Boxer); il baritono Misha Kiria (il maiale Napoleon); il basso Gennadij Bezzubenkov (il maiale Old Major); il basso-baritono Frederik Bergman (il viscido Mr Pikington); i bassi-baritono Alexander de Jong e Joris van Baar (uomini di Jones); il basso Mark Kurmanbayev e il baritono Michiel Nonhebel (uomini di Pilkington).

Successo pieno e tutto il pubblico in piedi per i saluti finali con punte di entusiasmo per l’autore. Questo succede in Olanda: un’opera contemporanea che fa il tutto esaurito, per sei recite. Lo spettacolo si potrà vedere in Italia l’anno prossimo a Palermo in quanto prodotto assieme al Teatro Massimo, alla Wiener Staatsoper e all’Opera Nazionale Finlandese.

Pubblicità

Julius Caesar

foto © Fabrizio Sansoni – Opera di Roma

Giorgio Battistelli, Julius Caesar

Rome, Teatro dell’Opera, 25 novembre 2021

★★★★☆

 Qui la versione italiana

À l’assaut du Capitole

Les citoyens de Rome, rendus fous par le meurtre de César, envahissent le Sénat et mettent tout sens dessus dessous. Des images que nous avons vues à la télévision, en provenance d’outre-Atlantique, il n’y a même pas un an… et que nous retrouvons aujourd’hui dans la mise en scène par Robert Carsen du Jules César de Giorgio Battistelli, lequel ouvre la nouvelle saison de l’Opéra de Rome. La saison romaine 1955-56 s’était également ouverte avec un Jules César, mais signé Händel cette fois-là, et qui se déroulait en Égypte. Celui-ci, en revanche, se déroule entièrement dans la ville éternelle – comme Agrippina, Rienzi, Tosca

la suite sur premiereloge-opera.com

Julius Caesar

foto © Fabrizio Sansoni – Opera di Roma

Giorgio Battistelli, Julius Caesar

Roma, Teatro dell’Opera, 25 novembre 2021

★★★★☆

bandiera francese.jpg Ici la version française

Assalto a Capitol Hill

I cittadini di Roma infuriati dall’omicidio di Cesare invadono gli scranni del Senato e buttano all’aria fogli e documenti. Immagini che abbiamo visto alla televisione neanche un anno fa provenienti da oltre oceano e che ora ritroviamo nella messa in scena di Robert Carsen per il Julius Caesar di Giorgo Battistelli che inaugura la nuova stagione dell’Opera di Roma. Anche la stagione romana 1955-56 si era aperta con un Giulio Cesare, ma quello era di Händel ed era in Egitto. Questo invece è interamente ambientato nella città eterna – come Agrippina, Rienzi, Tosca

Chapeau all’ex sovrintendente Fuortes che ha commissionato il lavoro quattro anni fa al compositore romano e al desiderio di Daniele Gatti di voler inaugurare l’anno lirico con una novità mondiale di musica contemporanea affidandola a un compositore che nel frattempo è stato insignito col Leone d’oro alla carriera dalla Biennale Musica di Venezia, una carriera che ha visto ben 33 lavori per il teatro, tra cui Experimentum Mundi (1981), Jules Verne (1987), Prova d’orchestra (1995), Orazi e Curiazi (1996), Richard III (2005), Divorzio all’italiana (2013), l’opera ecologista Co2 (2015) e Il medico dei pazzi (2016).

Secondo pannello di un trittico scespiriano iniziato appunto con Richard III e che dovrebbe completarsi col Pericles, anche nel caso del Julius Caesar il librettista è Ian Burton, che ha ridotto il lungo testo a un terzo,  preservando i passaggi più famosi ma eliminando personaggi quali Cicerone e Porzia. L’unico personaggio femminile rimasto in questo mondo di potere tutto al maschile è Calpurnia, i cui presagi luttuosi vengono ridicolizzati proprio perché di donna: «Break up the Senate till Caesar’s wife shall meet with better dreams!» (Aggiorniamo il Senato fino a che la moglie di Cesare non farà dei sogni migliori) sbeffeggia Decio al rifiuto di Cesare di uscire di casa. Nel libretto ai versi di Shakespeare sono aggiunti testi latini per la festa dei Lupercali e per le scene di combattimento.

Atto primo. Per le strade di Roma il popolo festeggia Giulio Cesare tornato vittorioso dalla guerra civile. I tribuni Marullo e Flavio tentano di contenere la folla. Quando Cesare fa il suo ingresso in Senato, un indovino lo avverte di stare attento alle Idi di marzo. I senatori Cassio e Bruto condividono l’inquietudine per le crescenti ambizioni di Cesare. Un altro senatore, Casca, li avverte che a Cesare è stata ripetutamente offerta una corona da Marco Antonio, nell’esultanza generale del popolo. Cassio cerca di convincere Bruto della necessità di assassinare Cesare. Bruto è combattuto rispetto all’idea di uccidere Cesare. Cassio conduce un gruppo di senatori a casa di Bruto per assicurarsi che si unisca alla congiura. Calpurnia, moglie di Cesare, ha avuto degli incubi circa l’incolumità del marito, e cerca di convincerlo a non recarsi in Senato. Decio spiega a Cesare che la moglie ha frainteso il significato dei sogni, che in realtà annunciano il futuro trionfo di Cesare. Anche gli altri senatori lo adulano, convincendolo finalmente a uscire. Cesare fa il suo ingresso in Senato convinto di ricevere l’incoronazione, invece viene attaccato e pugnalato a morte. Mentre i senatori proclamano la libertà di Roma, Antonio scopre l’assassinio, e avverte che si avrà una nuova guerra civile.
Atto secondo. Contro il consiglio di Cassio, Bruto ha acconsentito alla presenza di Antonio durante il discorso al popolo di Roma. Bruto dissipa la rabbia dei presenti convincendoli della tirannia di Cesare. Rimasto solo a parlare ai romani, Antonio ricorda il reiterato rifiuto di Cesare allorché gli fu offerta la corona e mette in dubbio le motivazioni dei cospiratori. Alla lettura delle volontà di Cesare, che prevedono denaro per ogni cittadino romano, la folla si infiamma. È l’inizio della guerra civile. Cassio e Bruto mettono da parte le divergenze e si preparano a combattere le forze di Antonio e Ottaviano, pronipote di Cesare. Mentre cerca di dormire prima della battaglia, Bruto vede il fantasma di Cesare. Cassio e Bruto concordano sul suicidio in caso di sconfitta, preferi-bile all’umiliazione pubblica che imporrebbero i nemici. Nella battaglia seguente, Cassio vede i propri soldati disertare in gran numero. Conscio del fallimento, si prepara al suicidio. Il soldato a cui chiede di impugnare la spada contro di lui è — imprevedi-bilmente — il fantasma di Cesare. Bruto scopre il corpo di Cassio e capisce di aver perso la guerra. Si prepara al suicidio e, senza saperlo, viene aiutato dallo stesso soldato: il fantasma di Cesare. Il popolo ha vinto la guerra. Antonio, insieme ad Ottaviano, scopre il corpo di Bruto. La vendetta di Cesare è compiuta quando Ottaviano diviene imperatore, il primo di molti a venire.

La musica del Julius Caesar è «fisica, materica, densa, cupa», questi sono gli attributi scelti dall’autore, fatta di lacerazioni, con citazioni dal Don Carlos nel tema del corno inglese, una riflessione dell’uomo solo davanti al potere, o del Götterdämmerung, quando il cadavere di Cesare avvolto nel tricolore viene portato via sulle spalle. Imponenti sono le percussioni che occupano ben sei dei palchi laterali. L’orchestra dialoga col canto piuttosto che accompagnare una scrittura vocale che si sviluppa come un recitativo accompagnato il quale si addensa in un enfatico Sprechgesang che non diventa quasi mai melodia vera e propria. Il limite del lavoro sta nel fatto che i diversi personaggi si distinguono quasi solo per il registro – le sedici parti maschili prevedono due voci di basso, tra cui quella di Cesare, sette baritoni e sette tenori – e non per lo stile vocale o espressivo, se non si prende in considerazione il tono un po’ isterico di Cassio (tenore) o quello più suadente di Antonio (baritono). Ciò detto, onore al merito ai numerosi interpreti quasi tutti anglosassoni tra cui spiccano il Cesare trumpiano dell’autorevole Clive Bailey, il sofferto Bruto di Elliot Madore, il Cassio di Julian Hubbard, l’Antonio di Dominic Sedgwick mentre Christopher Lemmings si fa notare nelle due parti di Marullo e di Cinna. Ruxandra Donose, unica interprete femminile, dà voce alla inascoltata Calpurnia.

Daniele Gatti, che si è impegnato nell’iniziativa, dirige l’opera come se non avesse mai fatto altro, eppure le difficoltà sono tante: dalla notazione particolare alla tenuta delle fasce sonore dai lunghi accordi, dagli scatti improvvisi ai ritmi iper-scomposti in parcellizzati frazionamenti matematici, tutto viene realizzato con fluidità. Il direttore musicale uscente non poteva lasciare un ricordo migliore. Sugli scudi anche il coro istruito da Roberto Gabbiani che ha dato ottima prova come “personaggio”, il popolo ondivago e malleabile a piacere.

Robert Carsen, che aveva messo in scena il Giulio Cesare in Egitto di Händel alla Scala due anni fa e che per la terza volta collabora con Battistelli, si adatta a questa drammaturgia che è più psicologica che narrativa. L’ambientazione è nella Roma di adesso, sgli scranni dell’emiciclo sono quelli del Senato della Repubblica Italiana e nella scenografia di Radu Boruzescu quando questo ruota diventa un’impalcatura di ferro a sfondo della battaglia e dei suicidi seriali dei congiurati. Non ci sono particolari colpi d’ala nella sua regia, ma al solito un solido mestiere elevato all’eccellenza e rimane nella memoria l’ultima immagine dei cadaveri riversi sui banchi del Senato. Memento agli infiniti omicidi politici che seguiranno e che continuano ai nostri giorni.

Alla terza replica il pubblico era discretamente numeroso e ha risposto con calore alla proposta di un’inaugurazione di stagione con un’opera contemporanea, cosa che pare anomala, ma che dovrebbe invece essere la regola: così avveniva nell’Ottocento quando le novità dei contemporanei di allora (Bellini, Rossini, Verdi…) erano in testa nei cartelloni dei teatri.

Richard III

fotografie © Michele Crosera

Giorgio Battistelli, Richard III

★★★★☆

Venezia, Teatro la Fenice, 29 giugno 2018

Debutto in patria, dopo tredici anni, per l’opera di Battistelli

I due anni (1483-85) del regno di Richard III narrati da Shakespeare sono stati alla base di famose trasposizioni cinematografiche – come quella del 1955 con Lawrence Olivier o quella 40 anni dopo con Ian McKellen nel film che il regista Richard Loncraine ha ambientato in un’Inghilterra anni ’20 cupa e fascistizzata – ma il Bardo non ha mai smesso di essere fonte di ispirazione neppure per i compositori contemporanei, dal Lear di Aribert Reimann (1978) a The Tempest di Thomas Adès (2004) fino al recente Hamlet di Brett Dean (2017). Un Riccardo III (balletto del 1995) è anche quello di Marco Tutino.

Rappresentato la prima volta alla Vlaamse Opera nel 2005, Richard III di Giorgio Battistelli (la sua diciassettesima opera) è ora in scena alla Fenice di Venezia con lo stesso allestimento di Robert Carsen. Il libretto di Ian Burton non solo mantiene la lingua originale di The Life and Death of King Richard III, la quarta delle tragedie di Shakespeare sulla storia inglese, ma cita testualmente interi passaggi dei momenti chiave del dramma, come «Now is the winter of our discontent» (1) o «A horse, a horse, my kingdom for a horse!» (2). Due terzi del testo sono stati comunque sacrificati (dopo l’Amleto, il Riccardo III è il dramma più lungo), così come molti dei 40 personaggi. Ampliate rispetto all’originale sono invece le scene delle tre incoronazioni di Edward IV, Richard III e Henry VII.

Atto primo. Dopo anni di guerra civile tra le famiglie reali degli York e dei Lancaster, viene riconosciuto sovrano Edward IV. Suo fratello Richard, duca di Gloucester, sta ordendo una congiura per appropriarsi della corona. Non essendo il diretto erede al trono, Richard deve sbarazzarsi di chiunque possa ostacolare il cammino. Prima vittima è suo fratello George, duca di Clarence che, dopo ogni sorta di malevoli macchinazioni da parte di Richard, viene accusato di tradimento e rinchiuso nella torre di Londra. Richard decide intanto che ha bisogno di una moglie e aspira alla mano di Lady Anne, vedova di Edward, l’erede al trono di Henry VI, ucciso da Richard. Con sua grande sorpresa, riesce a conquistare la donna e per festeggiare provvede subito ad assassinare Clarence. Quando Edward viene a sapere della morte di suo fratello Clarence, si sente responsabile al punto da ammalarsi e morire. Richard diventa Lord Protettore. Adducendo a pretesto questioni legate alla sicurezza, propone ai due giovani eredi di Edward, Il principe Edward e Richard, di alloggiare nella Torre di Londra. Dovranno restare lì fino all’incoronazione del maggiore dei due, il principe Edward. Richard fa di tutto per seminare dubbi sulla legittimità delle discendenze dei due giovani principi. Elisabeth, la vedova di Edward IV non si fida di lui, e a ragione, perché Richard fa accusare di tradimento e giustiziare i di lei fratelli, Rivers e Grey, protettori dei due giovani principi. Durante una seduta del Consiglio Richard accusa di stregoneria e tradimento Lord Hastings, uno dei migliori e più fedeli amici di Edward. Hastings viene imprigionato e poi decapitato. A poco a poco il duca di Buckingham assurge a primo consigliere di Richard e Insieme i due mettono appunto gli ultimi dettagli del complotto. Preoccupati, i cittadini di Londra e il loro sindaco finiscono per implorare Richard di accettare la corona. Simulando grande devozione egli finge di acconsentire con riluttanza alla loro richiesta e viene incoronato re Richard III.
Atto II. Richard ha promesso al duca di Buckingham una contea a titolo di ricompensa per il suo aiuto, non mantiene però la promessa perché Buckingham rifiuta di uccidere i due giovani principi ancora rinchiusi nella torre di Londra. Senza indugiare oltre, Richard reperisce, su indicazione di James Tyrrel, altre persone disposte a commettere questi assassinii. La regina Elisabeth, la regina Anne moglie di Richard e la madre di Richard la duchessa di York, temono per la vita dei principi. Buckingham, che ormai non si sente più sicuro, fugge in Francia dove si unisce a Henry Tudor conte di Richmond, ultimo erede al trono sopravvissuto del casato dei Lancaster, il quale ha messo in piedi un esercito per sconfiggere Richard. Richmond e le sue truppe arrivano in Inghilterra, i due eserciti si scontreranno a Bosworth Field. La notte prima della battaglia gli spiriti delle sue vittime appaiono in sogno a Richard, lo maledicono per i crimini commessi e benedicono invece Richmond. Richard viene sconfitto e Richmond sale al trono con il nome di Henry VII.

Tredici anni per il debutto in patria non sono pochi, ma si conosce la cautela con cui le italiche fondazioni liriche affrontano l’opera contemporanea. Per di più l’allestimento di Richard III, con le sue due ore e mezza di musica, sedici personaggi, tre cori e un’imponente orchestra, era impresa tale da far tremare i polsi ai sovrintendenti nostrani. Tra i primi progetti di Noseda al Regio di Torino, chissà come sarebbe finita se non ci avesse pensato la Fenice a rompere gl’indugi ed allestire l’opera, indicata dalla rivista Opera News come tra le 20 più interessanti di questo secolo e che dopo il debutto ad Anversa è stata messa in scena a Düsseldorf, Strasburgo e Ginevra.

Il multiforme stile compositivo di Battistelli, “polifonia di stili” è stato definito, permea anche questo lavoro che conferma la sua propensione verso il teatro musicale: «Con entusiasmo affermo che l’opera è viva e vegeta. Oggi è anzi il genere più complesso tra tutte le arti della rappresentazione, cinema compreso» ha dichiarato il compositore.

L’orchestra è formata da ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti e controfagotto, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni e basso tuba, archi, arpa, celesta, campionatore e nutrite percussioni sparse nella buca orchestrale e nei palchi di barcaccia e comprendenti vari oggetti “rumoristici” che ad esempio accompagnano con un sibilo le uscite di Richard. Frequenti sono i rintocchi di campane ogni volta che in scena c’è un cadavere.

Tito Ceccherini, sapiente interprete del repertorio moderno, domina con sicurezza l’orchestra, cangiante sia dal punto di vista armonico che ritmico e tale da creare un certo smarrimento nell’ascoltatore. L’allusiva partitura, che ha echi nel primo Novecento, in Stravinskij e nella Scuola di Vienna, sottolinea le efferatezze in scena con suoni lancinanti, gesti violenti, drammatici. Dal prologo, “The Boar Hunt” (La caccia al cinghiale), costruito come un grande crescendo pieno di suoni di natura, alle scene che seguono – nove nel primo atto e sette nel secondo – Ceccherini costruisce un’atmosfera sinistra, punteggiata da momenti di suspense in questa corsa sfrenata e crudele verso il potere. Grande è il ruolo delle masse corali: una in scena, una dietro le quinte e una terza di voci bianche, tutte e tre impegnate nel finale a cappella.

Le voci sono quelle di otto bassi-baritoni, tre tenori, due soprani e un mezzosoprano, un controtenore e una voce bianca. È presente quindi la gamma vocale più estesa, ma con un predominio delle voci basse per dare il giusto colore scuro. In mancanza di melodie, il canto segue le parole di un testo di enorme forza drammaturgica sfruttando quasi tutti i possibili tipi di emissione, dal canto spiegato al declamato, dallo Sprechgesang alla Sprechstimme. Interpreti di grande impegno danno vita ai personaggi di questa tragedia della solitudine del potere. Gidon Saks non fa rimpiangere il creatore del ruolo, Scott Hendricks. Con la sua imponente statura e autorevolezza vocale il baritono sudafricano, ma di nascita israeliana, domina la scena. Il suo Richard è un mostro che per seguire la sua logica di potere stermina tutta la famiglia, ma qui viene accentuato il suo carattere cinico e istrionico. Ruolo di grande impegno e quasi sempre presente in scena, si merita le acclamazioni finali per l’impegno e la personalità con cui tratteggia lo psicologicamente contorto personaggio. Ottima prova forniscono tra gli altri Urban Malmberg (Buckingham) e Paolo Antognetti (Richmond), ma tutti i ruoli maschili sono delineati con forza. Del terzetto di donne si fa notare per la drammaticità del temperamento Sara Fulgoni, che ha già tenuto a battesimo al debutto la sua duchessa di York che implacabile enumera al figlio i suoi crimini (nove, se il conto è corretto), mentre bellezza del timbro e intensità interpretativa connotano la regina Elisabeth di Christina Daletska.

Il personaggio titolare nella regia di Carsen non esibisce una evidente deformità fisica, ma la utilizza a piacere come una marca di individualità e giustificazione per la sua mancanza di sentimenti. Quando i nobili si alleano con lui ognuno mimerà la sua supposta deformazione. Come nel teatro elisabettiano l’impianto scenografico di Radu Boruzescu è unico: un circo dalle gradinate leggermente sbilenche con una pista di sabbia rossa. Una corona scintillante di gemme passa da un capo all’altro in questo gioco crudele in cui tutti i maschi hanno lo stesso abito e cappello nero. Il viso truccato di bianco rende ancora meno individualizzati i vari personaggi, tutti quanti burattini comandati da uno psicopatico che è diventato leader senza un progetto di governo ma solo per soddisfare i suoi interessi e la sete di potere – archetipo dei moderni dittatori “democraticamente eletti” e quindi tragicamente attuale. Alla sua seconda collaborazione con Battistelli, dopo il precedente CO2 presentato alla Scala, Carsen muove con precisione i personaggi di questa cinica parabola con momenti degni di una drammaturgia della crudeltà. Gesti ottenuti con mezzi sobri ma altamente teatrali: la sabbia rossa sollevata che allude al sangue versato dai soldati delle due opposte fazioni nella stilizzata battaglia finale, l’utilizzo di ombrelli neri (come ne Les Boréades), i badili usati come armi, le carriole per trasportare morituri e morti.

Il pubblico del teatro La Fenice ha risposto con convinti applausi alla proposta, a dimostrazione che sì, l’opera è viva e vegeta. Basta avere il coraggio e l’intelligenza di proporla.

(1) «Ora l’inverno del nostro scontento», atto I, scena prima.
(2) «Un cavallo! Un cavallo! Il mio regno per un cavallo!, atto V, scena quarta.

 

 

 

CO2

co2-960x420

Giorgio Battistelli, CO2

★★★☆☆

Milano, Teatro alla Scala, 24 maggio 2015

«Se questo non è il mio pianeta, di chi è? | Se questa non è la mia responsabilità, di chi è? | Se sono io la causa, non sono allora anche la cura?»

Tutti i teatri d’opera dovrebbe presentare ogni anno almeno un’opera nuova. Bene ha fatto quindi il più prestigioso ente lirico italiano a commissionare al compositore Giorgio Battistelli un nuovo lavoro. La commissione risale al 2011, ma è solo quattro anni e due registi dopo che si realizza il progetto, che viene presentato al Teatro alla Scala in concomitanza con l’EXPO 2015: là si parla di sostenibilità alimentare del pianeta, qui di ecologia in generale o meglio, come dice l’autore, di «una storia d’amore tra l’uomo e la natura». In questo lasso di tempo anche il titolo dell’opera è cambiato: da An inconvenient Truth (quello del libro di Al Gore da cui è tratto) a CO2, la formula di quell’anidride carbonica che continuiamo a immettere in dosi sempre più allarmanti nell’atmosfera.

Il compositore laziale, classe 1953, è stato fin dal primo momento attratto dalle musiche per le scene, fossero esse un’“opera di musica immaginistica” come il suo Experimentum Mundi del 1980 (liberamente ispirato all’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert), i monodrammi, il Jules Verne del 1987, i vari “music theatre” degli anni ’90, il Divorzio all’italiana (“azione musicale in 23 tavole per il crepuscolo della famiglia”) del 2008 rappresentato a Nancy oppure il Riccardo III (2004, anche questa su libretto di Ian Burton e con la regia di Robert Carsen) definito da Opera News Magazine tra le migliori opere moderne.

Lo stesso librettista Ian Burton presenta così l’opera: «Il libretto di CO2 tenta di affrontare l’ampia e complessa questione del cambiamento climatico, un soggetto con implicazioni autenticamente globali. L’opera comincia con una conferenza sul cambiamento climatico svolta da un climatologo immaginario, ma dal nome emblematico di David Adamson, che rappresenta l’intero genere umano. La conferenza viene ripetutamente interrotta da eventi a sfondo cosmico o climatico […] Dell’opera, che è divisa in un prologo, nove scene e un epilogo, fanno parte episodi che si svolgono in un aeroporto internazionale, alla conferenza per il Protocollo di Kyoto, in un supermercato, su una spiaggia della Thailandia dopo lo tsunami, nel giardino dell’Eden e nello spazio cosmico al momento della nascita e della fine apocalittica dell’universo. […] CO2 è il tentativo di creare un’opera del nostro tempo per il nostro tempo e si occupa di quella che probabilmente rappresenta la questione più importante che oggigiorno l’umanità si trova a dover affrontare».

Sullo specifico musicale dell’opera di Battistelli così scrive Cesare Fertonani: «La realizzazione musicale tanto solistica quanto corale del testo è modellata, anzitutto nella parte del protagonista, con raffinata accuratezza secondo un’ampia gamma di sfumature di tecniche espressive dal canto vero e proprio [l’aria della prima scena “We come from the stars!” o l’aria di Gaia della scena 8] al semplice parlato attraverso lo sprechgesang e molteplici modalità di declamazione intonata. […] A questa attenzione nella resa della struttura sintattica e semantica del testo corrisponde d’altro canto il trattamento inventivo dell’orchestra, nella quale spiccano le percussioni, in evidenza specialmente nella musica della creazione (il prologo) e in quella degli uragani (scena 4)».

Se la tecnica musicale descritta dal Fertonani parrebbe ricordare quella sperimentata per la prima volta nella Lulu, la mancanza di una struttura narrativa, fortemente presente invece nell’opera di Alban Berg, qui tende a rendere, per lo meno a un primo ascolto, frammentaria l’opera cui viene a mancare una tensione drammatica che avvinca lo spettatore. La partitura predilige gli aspetti percussivi e timbrici dell’orchestra, alternando sonorità livide e rarefatte a rari pieni orchestrali. Il giovane Cornelius Meister gestisce il materiale sonoro con sapienza e sensibilità mettendo in giusta luce la sensualità e delicatezza della scrittura di Battistelli. Ottimi i numerosi interpreti, a partite dall’Adamson di Anthony Michaels-Moore.

Robert Carsen è un regista da sempre impegnato nel tema ambientalista che ha trattato vuoi in maniera ironica nel suo Candide (dove i grandi del mondo, tra cui il censurato, in Italia, Berlusconi in costume da bagno, sguazzano in un mare di petrolio) vuoi in modo fortemente drammatico nel suo Götterdämmerung con il fondo del Reno trasformato in orrenda discarica. Qui illustra le scene di questo “oratorio” apocalittico in maniera impeccabile anche se non esente da qualche ingenuità, come la scena da Douanier Rousseau dell’Eden con quell’infinita elencazione delle varie specie di serpenti che vengono tirati fuori dalla giacca del controtenore o il roteare dei ballerini come dervisci sufi nei costumi di tutto il mondo sulla immagine satellitare del vortice di El Niño.

La sincera denuncia contenuta in questo lavoro è pienamente meritevole e conferma l’opera lirica nella sua missione etica anche oggi sempre necessaria se si pensa che metà degli americani, quelli che votano Repubblicano, negano l’evidenza del riscaldamento globale (e una buona parte di loro è pure creazionista…).

RAI5, il canale tematico della televisione di stato, ha finora completamente ignorato l’avvenimento.