Fabio Ceresa

Miseria e nobiltà

foto © Bepi Caroli

★★★☆☆

Genova, Teatro Carlo Felice, 23 febbraio 2018

L’opera e il cinema si alleano

O meglio, l’opera attinge al cinema per attrarre pubblico: «miti così interiorizzati attenuano la diffidenza che spesso tiene lontano il pubblico dalle nuove opere o dall’opera in generale, perché di certo tutti conoscono la trama della Ciociara meglio di quella del Trovatore» afferma Marco Tutino, autore di Miseria e nobiltà, in prima mondiale al Teatro Carlo Felice di Genova. D’altronde lo faceva già Verdi ai suoi tempi scegliendo i soggetti dei suoi lavori dalla letteratura più popolare di allora, fosse l’Hugo di Hernani o il Dumas de La Dame aux camélias. Oggi i compositori guardano al cinema, contemporaneo o del passato. Due esempi tra i tanti: Jake Heggie con Dead Man Walking (il film di Tim Robbins) e Giorgio Battistelli con Miracolo a Milano e Divorzio all’italiana.

Prima de La ciociara Tutino si era già ispirato a The Servant di Pinter portato sullo schermo da Losey e ora la sua sedicesima opera si basa piuttosto liberamente sull’omonima commedia del 1887 di Eduardo Scarpetta portata sulle scene teatrali anche da Eduardo De Filippo e al cinema da Mario Mattoli nel 1954. Il libretto è scritto a sei mani: il compositore stesso, Luca Rossi che ha steso la nuova sceneggiatura e Fabio Ceresa, il versificatore. La vicenda è ambientata al tempo del referendum del giugno 1946, in un’Italia stremata dal fascismo e dalla guerra e in preda alla fame più nera. I personaggi della commedia sono ampiamente sfoltiti, le famiglie in angustie sono una sola, quella di Felice Sciosciammocca e del figlio Peppiniello, e decisive sono le presenze qui di Bettina e Don Gaetano.

Atto primo. Napoli, giugno ’46, i giorni del referendum monarchia-repubblica. Felice Sciosciammocca, scrivano, cerca di sfamare sé stesso e il figlio Peppiniello con poca fortuna. Era maestro di scuola, ma ha perduto il lavoro per aver rifiutato la tessera del Fascio e ora i due vivono in un basso, con donne e uomini anche più disperati di loro. Felice è costretto a impegnare anche l’ultimo bene, il cappotto, per trovare qualcosa da mangiare per il figlio e per sé. Arriva Gemma, prima ballerina del San Carlo, circondata dagli ammiratori, tra cui il principe Ottavio di Casador, che cerca invano di sedurla. Lui è già sposato e lei non vuole essere una fra tante. Ottavio si arrende, chiede soltanto come pegno una spilla che Gemma gli concede pur di concludere il corteggiamento. In realtà lei è innamorata proprio del figlio del principe, Eugenio, e il problema sta lì: il padre di Gemma, don Gaetano Semmolone, borghese arricchitosi durante la guerra con la borsa nera, per acconsentire alle nozze pretende di conoscere il futuro consuocero, che però non accetterebbe mai la mèsalliance tra il figlio e una ballerina. Così Eugenio ha escogitato un piano. Felice Sciosciammocca era il suo maestro di scuola, è un uomo buono: forse li aiuterà. Come? Fingendo di essere suo padre, impersonando il principe davanti a Gaetano. Ma a questa proposta Felice risponde un secco no: Casador è stato la rovina della sua vita, mai e poi mai, accetterà d’impersonarlo. Intanto Peppiniello incontra Bettina, la fantesca di casa Semmolone e riesce a impietosirla facendosi regalare del pane; le fa leggere una lettera della madre emigrata in America e mentre Bettina si commuove e lui mangia, qualcuno gli ruba il cappotto che avrebbe dovuto impegnare. Felice lo sgrida furibondo, altrettanto furioso Peppiniello si ribella, scappa di casa abbandonando il padre che non riesce a rincorrerlo perché travolto da un corteo di camerieri che allestiscono un pranzo luculliano. Tutto il basso si avvicina famelico, ma viene fermato da Gemma, che spiega il mistero. Il cibo l’ha portato lei, sarà davvero per tutti, ma a condizione che Sciosciammocca accetti d’impersonare il principe. Felice tenta di resistere al ricatto, ma vinto dalla fame e dalla pressione del popolo, cede e acconsente.
Atto secondo. Peppiniello si è rifugiato dalla buona fantesca Bettina, che lo fa assumere da don Gaetano come sguattero, poco prima che arrivi Felice, impennacchiato nei panni del principe di Casador. All’inizio va tutto bene, ma quando Felice scopre Bettina la commedia rischia di saltare. Bettina in realtà è sua moglie, che non è mai emigrata in America, ma è stata cacciata di casa molti anni prima perché aveva tradito Felice proprio con il principe di Casador. Indignato e furioso, Felice sta per abbandonare tutto, ma Gemma ed Eugenio lo convincono a restare. La cena viene poi interrotta dall’arrivo del vero principe, che ha fiutato la truffa. Per un po’ Felice regge, riesce a convincere Gaetano d’esser lui l’aristocratico, ma quando la radio annuncia la vittoria della Repubblica non si trattiene, esulta e così si smaschera. Un nobile che esulta per la repubblica? La partita sembra persa, Ottavio trionfa e rivela a Felice che Bettina gli si era concessa per far riavere a lui il lavoro di maestro. Cosa che naturalmente il principe aveva promesso e non mantenuto. Ottavio spiega al figlio che è così che ci si comporta con certe ragazze e per convincerlo che anche Gemma è una poco di buono mostra la spilla che lei gli ha dato. Ma a questo punto è Gaetano che esplode. Insultare sua figlia in casa sua? La spilla? Apre un cassetto, rovescia decine di spille identiche: Gemma le tiene proprio per liquidare i corteggiatori. E quanto alle nozze, darà il suo consenso ai ragazzi, infischiandosene del principe e delle sue opinioni: perché se quella è la nobiltà, a lui non interessa. Il principe di Casador ha perso, i due futuri sposi si abbracciano innamorati mentre Felice raggiunge Bettina: ora che conosce il motivo del tradimento si pente e i due si ritrovano, perdonandosi a vicenda. Dalle stanze della servitù arriva anche Peppiniello, il padre cerca di spiegargli che le lettere della madre dall’America in realtà erano scritte da lui, ma Peppiniello lo anticipa: lo sapeva, aveva riconosciuto la sua calligrafia. Ma la madre, allora dov’è? Molto vicina, sorride Felice. E così Peppiniello scopre che Bettina è in realtà sua madre. In quel momento irrompe il popolo in festa per la Repubblica e Gaetano si avvicina a Ottavio e gli propone un patto: il principe ha tanti terreni, lui tanto denaro, l’Italia tutta da costruire. Perché non mettersi in affari? Ottavio capisce, sorride: ma certo, perché no? Felice li osserva, scettico e disincantato: cambiar tutto per non cambiare nulla. Ma in questo paese, conclude, non c’è niente da fare, nel cuore di tutti ci saranno sempre un poco di miseria e un poco di nobiltà.

La vicenda farsesca della commedia scarpettiana qui diventa una storia drammatica che intreccia la storia famigliare dei personaggi con la Storia, quella con la S maiuscola, in un momento cruciale in cui l’Italia passa dalla monarchia alla repubblica. Felice Sciosciammocca perde ogni carattere di maschera per diventare un personaggio a tutto tondo, quasi tragico: è un insegnante che ha perso il lavoro perché ha rifiutato la tessera del Fascio ma non la dignità, e quando gli propongono la mascherata si oppone fieramente. Cederà solo sotto la pressione di Gemma e del vicinato che si avventa con voracità sugli spaghetti nella famosa scena, qui allargata a tutto il quartiere, con cui si conclude il primo atto. Felice sarà poi l’unico a esultare per i risultati del referendum con il liberatorio grido «Gooooal!». Uno a zero per la democrazia.

Lo scenografo Tiziano Santi allestisce una Napoli dell’immediato dopoguerra ancora in mezzo alle rovine dei bombardamenti, ma già protesa verso una ricostruzione della città, raffazzonata e precaria fin che si vuole ma che è specchio della ricostruzione del paese: Felice vive tra i ruderi di un antico palazzo, i vicini sfruttano ogni spazio disponibile e una coperta tesa su una corda restituisce una parvenza di intimità. Con pochi mattoni si tira su un muro e una latta di conserva diventa il focolare. La regista Rosetta Cucchi concerta magistralmente tutto questo brulichio di personaggi e non si fa mancare controscene come quella del parto e della successiva “vendita” del neonato a una coppia agiata, mentre i bambini con la loro spensieratezza giocano per strada ma sanno diventare anche complici di un furto, come quello del “paltò del Re” con cui Felice intendeva sfamare la sua misera famiglia. I costumi di Gianluca Falaschi, appropriati come sempre, hanno la punta di colore e di ostentazione negli abiti di Gemma, la prima ballerina del San Carlo, o in quelli del finto principe.

Lo stile del compositore è ben riconoscibile anche in questo Miseria e nobiltà: la ricca orchestra spesso raddoppia le voci in scena distendendo un manto melodico che ancora si continua a definire neo-pucciniano, ma che ormai è un marchio del compositore milanese, che ha in Menotti e Rota i riferimenti musicali. Tutino si diverte a far cantare una gustosa citazione, quella del tema della canzone Musica proibita di Gastaldon (più conosciuta per i versi «Vorrei baciare i tuoi capelli neri, | le labbra tue e gli occhi tuoi severi») mentre il principe, quello vero, cita a sua volta le gozzaniane «rose che non colsi» per far colpo sulla ballerina. Altre citazioni sono più nascoste, ma nell’insieme più che le melodie sono i colori della musica napoletana ad affiorare nella partitura, come i ritmi di tarantella del finale o i valzerini che sottolineano i momenti lirici. Non meno importante è l’uso dei motivi conduttori, come quello struggente che accompagna il messaggio di speranza di «ci aspetta un mondo nuovo».

Francesco Cilluffo è un profondo conoscitore e convinto patrocinatore della musica del periodo verista, o meglio del teatro di narrazione (opposto a quello anti-tradizione, sperimentale o d’avanguardia) e affronta per la terza volta la concertazione di un’opera di Tutino dopo The Servant e Le braci. È quindi la persona più adatta a ricreare con passione e competenza l’atmosfera sonora di quest’opera, che infatti riceve una buona accoglienza dal compassato pubblico genovese, però non raggiunge l’entusiasmo dimostrato nei confronti della sua opera precedente, La ciociara: là c’era una vicenda con un andamento fortemente drammatico, un taglio cinematografico, un personaggio e un’interprete che hanno connotato in maniera indelebile lo spettacolo. Qui, quello che si perde dell’aspetto farsesco non viene del tutto rimpiazzato dal dramma e anche se ci si commuove alla lettura della lettera di Bettina, non resta molto altro nelle orecchie e nel cuore di quanto abbiamo sentito. Forse sarebbe necessario un secondo ascolto.

Molto impegnati ed efficaci gli interpreti tra cui ricordiamo il protagonista Alessandro Luongo (Felice), Valentina Mastrangelo (Bettina, la più festeggiata dal pubblico), Francesca Sartorato (Peppiniello), Martina Belli (Gemma), Fabrizio Paesano (Eugenio), Andrea Concetti (Ottavio) e Nicola Pamio (contadino/cameriere). Alfonso Antoniozzi riesce come al solito a ritagliare per sé un ruolo a sua misura come quello di Don Gaetano, un personaggio su cui si addensa un umorismo amaro e cinico.

tutte le foto © Bepi Caroli

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La ciociara

Marco Tutino, La ciociara

★★★★☆

Cagliari, Teatro Lirico, 24 novembre 2017

(ripresa televisiva)

All’opera ci si emoziona. Anche a quella contemporanea.

Con il titolo Two Women, l’opera di Marco Tutino, su libretto di Fabio Ceresa e dello stesso compositore e ispirata al film La ciociara (1960) di Vittorio De Sica a sua volta basato sul romanzo omonimo di Alberto Moravia, ebbe la prima alla San Francisco Opera il 19 giugno 2015.

Concepita come coproduzione con il Teatro Regio di Torino, avrebbe dovuto debuttare in Europa nella città subalpina, ma un meschino gioco di veti incrociati ha cancellato l’impegno torinese e la presentazione avviene invece al Lirico di Cagliari, un teatro che negli ultimi anni ha dimostrato un’intelligenza e una lungimiranza che talora difettano a molte fondazioni liriche del continente.

Ripristinato il titolo originale, che sarebbe stato enigmatico e impronunciabile per il pubblico d’oltre oceano, La ciociara è riuscita nell’impresa di gremire il teatro di una città di 150 mila abitanti per ben otto repliche e con un successo travolgente, cosa impensabile in Italia per un’opera contemporanea.

Estate del 1943. Cesira è una giovane vedova che vive a Roma insieme alla figlia Rosetta durante la seconda guerra mondiale. Per sfuggire ai bombardamenti e alle insidie di una città allo sbando, Cesira affida il proprio negozio a Giovanni – un vecchio amico del marito trafficante al mercato nero e al cui assalto sessuale cede durante uno dei bombardamenti – e intraprende un difficile viaggio per rifugiarsi insieme alla figlia in Ciociaria, dove era nata. Arrivate non senza difficoltà, Cesira fa la conoscenza di Michele, un giovane intellettuale antifascista che ha trovato rifugio anche lui in quei posti. Il giovane, puro e idealista, si innamora di lei e Cesira lo ricambia. Anche Rosetta gli si affeziona. Michele viene arrestato dai tedechi e ucciso da Giovanni che è passato dalla parte dei fascisti. Nel paese razziato le due donne vengono assalite da un gruppo di Goumier (1) che le violentano. Rosetta ne esce traumatizzata e si chiude in una astiosa apatia. Alla Liberazione ricompare Giovanni, che ancora una volta ha cambiato casacca: ora si spaccia per amico degli americani. Cesira lo accusa di tradimento e di aver ucciso Michele, ma è lei stessa a fermare la folla che vuole fare giustizia sommaria sulla spia: «Basta sangue». Solo dopo, nel ricordo di Michele, madre e figlia si riavvicinano.

Filmati d’epoca in bianco e nero e mappe del teatro di guerra sono proiettati sul sipario durante l’ouverture. Definito il contesto storico, lo spettacolo vira nella vicenda particolare di Cesira e dei suoi sforzi per sopravvivere e salvare la figlia dagli orrori della guerra. Nell’allestimento dell’americana Francesca Zambello le scene realistiche di Peter Davison hanno come sfondo le efficaci proiezioni di S. Katy Tucker che esaltano la drammaticità della storia. Le scene hanno un montaggio quasi cinematografico, come quando la violenza sulle due donne si alterna all’uccisione di Michele, con le luci che evidenziano i due fatti mentre avvengono a pochi metri di distanza sullo stesso palcoscenico.

Come nella Tosca anche qui abbiamo l’amore, contrastato dal baritono, tra il soprano e il tenore, ma non è solo per questo che il nome di Puccini viene alla mente in questo nuovo lavoro di Tutino. Una grande orchestra accompagna i numerosi sbocchi melodici con cui i personaggi danno sfogo ai loro sentimenti. Così è per la morte di Michele, un Cavaradossi che al ricordo della vita che sta per perdere esplode in una melodia struggente, quasi una romanza. Gli interludi orchestrali, i concertati, i duetti sono sempre sostenuti da un’orchestrazione ricca, temi sempre nuovi si rincorrono e giocano con i timbri di una strumentazione raffinata che però quando è ora sa caricarsi di pathos rilasciando sulla scena note lancinanti. Di fronte alla rarefazione di molti lavori del teatro contemporaneo, quello che più colpisce ne La ciociara è l’opulenza dei mezzi impiegati che richiamano il musical in uno stile però che vuole proporsi come neo-verista, nel senso di voler affrontare “col cuore” una tematica forte da esprimere con mezzi che coinvolgano, giustamente, il pubblico più vasto. E se non mancano le raffinatezze e le dotte costruzioni armoniche, il messaggio è affidato soprattutto alla melodia e al suo impatto emotivo. Non c’è da vergognarsi se si esce da questo spettacolo con gli occhi lucidi.

Grande merito di ciò va anche alle due interpreti femminili. La Cesira di Anna Caterina Antonacci resterà tra i personaggi più memorabili del teatro musicale moderno: senza mai ricorrere a sguaiatezze, la cantante utilizza le sue eccelse qualità sceniche e vocali per delineare con intensità una madre coraggiosa. La sontuosa linea vocale si piega a esprimere una sofferta dolcezza nella ninna nanna per confortare la figlia, così come nel grido appassionato con cui nel finale rinfaccia la mancanza di umanità e compassione alla folla abbrutita. E bravissima è Lavinia Bini, Rosetta, in cui le qualità liriche e luminose della voce si adattano perfettamente al ruolo della ragazza che passa nel modo più tragico da adolescente innocente a donna violata.

Troppo impegnativo invece il ruolo di Michele per Aquiles Machado, tenore lirico più che drammatico, che infatti nel registro acuto denuncia qualche difficoltà. Nella parte dello spregevole (ma, ahimè molto italiano…) Giovanni si cala con efficacia Sebastian Catana, mentre Roberto Scandiuzzi come il maggiore tedesco von Bock dà ulteriore prova della sua impeccabile presenza ed eleganza vocale. Ben realizzati dai rispettivi interpreti sono anche gli altri personaggi secondari introdotti nel libretto e assenti nel romanzo originale.

La direzione di Giuseppe Finzi mantiene sempre desta la tensione emotiva e drammatica che si scioglie per contrasto in poche oasi di serenità, come quella della canzone che celebra la fine della guerra, quella romantica La strada nel bosco che aveva tra gli autori C.A. Bixio ed era uscita proprio nel 1943 in una pellicola di Bragaglia cantata da Gino Bechi. Canzone che De Sica aveva voluto anche nel suo film per accompagnare l’immagine degli occhi in lacrime di Sophia Loren.

Il prossimo appuntamento con un’opera di Tutino sarà tra pochi mesi a Genova: un’altra città di mare, infatti, vedrà il debutto di Miseria e nobiltà. Ancora una volta sarà il vecchio cinema italiano ad ispirare il compositore di oggi.

(1) Corpo speciale delle truppe coloniali francesi che fecero breccia nella linea Gustav oltre la quale si erano arroccati i tedeschi. Come compenso ebbero via libera nel saccheggiare i villaggi che attraversavano. Migliaia di donne e bambine furono violentate (“marocchinate” si disse allora con un disgustoso eufemismo) durante quell’avanzata e molti uomini persero la vita nel vano tentativo di proteggerle.