Mese: luglio 2021

Singularity

Miroslav Srnka, Singularity

★★★★☆

Monaco, Cuvilliés-Theater, 7 giugno 2021

(video streaming)

Fantascienza tra gli stucchi rococò del Cuvilliés

Forse non è la prima opera post-pandemia, ma di certo quella andata in scena al Cuvilliés di Monaco il 5 giugno è stata una prima assoluta del 2021, un lavoro commissionato per le giovani voci dell’Opera Studio della Bayerische Staatsoper.

Il giovane compositore ceco Miroslav Srnka e il librettista Tom Holloway in questa loro terza opera congiunta (1) fanno i conti con l’orizzonte comunicativo dei giovani e la loro apertura alle nuove tecnologie. Il lavoro è espressamente inteso come una commedia, perché quando si tratta di comunicazione tra persone le insidie si trovano ovunque: Incomprensioni, malignità, litigi sono in agguato da ogni parte e, come si scopre presto, i quattro personaggi hanno molto da risolvere tra loro.

L’opera si struttura in cinque parti e 13 scene: la prima parte è sulla Terra, dalla seconda alla quarta su un altro pianeta allestito come Centro Benessere, la quinta nella cosiddetta Singolarità. Tutto si svolge nel futuro, dieci anni passano tra la seconda e la terza parte, e circa 40 anni tra la terza e la quarta. I personaggi sono B (baritono, un accanito video gamer), S (soprano, la sua ragazza), T (tenore, un solitario col suo drone consolatore), M (mezzosoprano, una donna sfortunata con gli uomini) e le rispettive voci digitali eB, eS, eT, eM. C’è poi Sc (Screeny), il computer del Centro Benessere.

Parte Prima. Scena 1. B ha passato tutta la notte a giocare al computer. La sua ragazza S gli ricorda che è in arrivo l’aggiornamento del software di messaggistica che renderà possibile inviare messaggi non solo sulla rete locale, ma da qualsiasi luogo. Ma B vuole saltare l’aggiornamento. S esegue l’aggiornamento da sola. Nel processo, comincia a tremare e a pronunciare alternativamente frasi senza senso e confessioni sincere. B è infastidito all’inizio, ma quando si rende conto di quello che sta succedendo, va nel panico. Poi la sua memoria dei messaggi si riempie e B scompare.
Parte Seconda. Scena 2. B, M e T si trovano improvvisamente in un ambiente sconosciuto. Dopo essersi collegati per la messaggistica, cercano di capire cosa sia successo. T dice loro che ha dato da mangiare al suo canarino artificiale, un cosiddetto drone di conforto. B finge di aver avuto una conversazione amorosa con la sua ragazza, cosa a cui M non crede. Tutti e tre vogliono andare a casa e chiamare aiuto. Così facendo, scoprono un computer difettoso che emette a intermittenza un rumore sibilante. Scena 3. T racconta che poiché non riusciva a trovare una ragazza, sua madre gli ha dato il drone Kenny di conforto, un canarino artificiale, con il messaggio che forse non c’è davvero nessuno per lui. Scena 4. A B mancano le dita dei piedi della sua ragazza. M sostiene che si possono recuperare vecchi messaggi vocali colpendo la nuca. B ci casca e si lascia colpire in testa finché non capisce il gioco
Parte terza. Scena 5. B sta cercando di riparare il computer. M e T notano che non sembrano invecchiare. Segue una discussione sul fatto che M e T abbiano una relazione. Improvvisamente lo schermo comincia a visualizzare un testo: sono alla prima ISS, International Spa Station, dove il rischioso trattamento con la materia nera li manterrà giovani per sempre. M è terrorizzata e preferisce invecchiare. Scena 6. B fa parlare Screeny, il computer, e impara a recuperare i vecchi messaggi vocali. Screeny filtra la voce di S dal rumore. Il messaggio ricostruito fa capire a B che S lo amava non nonostante le sue imperfezioni, ma a causa di esse. Scena 7. Ora anche B vuole aiutare gli altri e T lo traveste da Kenny. Canta anche la canzone dell’uccello artificiale. Scena 8. M riferisce che progettava droni di conforto e ha programmato un testo per la loro canzone che consiste in un insulto letto al contrario: «Tahw a resol» per «What a loser» (che sfigato). Con la manipolazione ha guadagnato la fiducia e l’amore del suo vicino di casa, il quale quando ha scoperto le sue macchinazioni, ha lasciato M.
Parte Quarta. Scena 9. Screeny parla del suo passato di leggendario supercomputer agli albori dell’Intelligenza Artificiale, prima di essere degradato a cartello alle terme. B riprogramma il computer per parlare con la voce di S. Scena 10. B traveste M per farla sembrare S e fa riprodurre a Screeny il messaggio di S che dice che ama B per i suoi rumori divertenti. All’inizio M lo prende in giro, ma poi tutti e tre sentono il vero amore da quella frase. T vuole finalmente prendere il controllo della sua vita e M è entusiasta della sua inaspettata assertività. Dopo che T ha spento la funzione di parola del computer, entrambi tirano fuori le loro parti di comunicazione e fanno sesso l’uno con l’altro. Scena 11. Entra una nuova persona: la profondamente cambiata S. B. professa il suo amore per lei. Ricorda a Screeny un bot che un tempo gli era molto vicino. Per riunirsi con “Botty”, deve trasferirsi sulla Terra disinstallandosi e avviare il suo programma di autodistruzione. Inizia un conto alla rovescia. Scena 12. Scena S descrive agli altri tre che l’errore di programmazione sulla Terra non è stato presto considerato un difetto. Le menti di ognuno cominciarono a fondersi con le altre, in modo da diventare tutti un unico grande organismo. Non c’erano più individui, ma solo un insieme. I tre esemplari acconsentiti come backup sono diventati sempre più superflui. Poiché la loro natura sembra essere quella dell’egoismo e della meschinità, S ha deciso di distruggere questo posto. Lei dà ai tre la scelta di diventare parte della Singolarità o di morire. Non esitano a lungo.
Parte Quinta. Scena 13. Gli umani si sono fusi con i loro alter-ego digitali. La Singolarità presenta agli umani nuove sfide: «Turn off your messaging. No need for messaging. We are all one now».

Nessuno può prevedere il futuro, nemmeno i migliori scienziati. Ma quando la competenza tecnica e lo spirito creativo si combinano, possono emergere idee eccitanti, visioni per un presente forse non così lontano. Idee come la nozione di “singolarità” tecnologica: il punto nel tempo in cui l’intelligenza artificiale raggiunge un livello che corrisponde alle capacità umane e continua a migliorare rapidamente. Un tale scenario è stato reso popolare soprattutto da Ray Kurzweil nel suo libro The Singularity Is Near: A True Story About the Future (2005) in cui ha predetto che il fenomeno si sarebbe verificato intorno all’anno 2045.

Per alcuni, questa prospettiva può essere spaventosa. Qual è il ruolo di noi umani in un mondo simile? Termini come “transumanesimo” e “postumanesimo” sono piuttosto scoraggianti per una società che vuole abbracciare l’umanità, ma questa potrebbe essere un’opzione positiva, se uno spirito generale e onnicomprensivo supera tutte le piccole sensibilità e i pericolosi pregiudizi e porta in armonia il quadro generale e il benessere di tutti gli individui.

Srnka e Holloway hanno portato la singolarità un po’ più avanti: i microchip impiantabili e la nanotecnologia aprono nuove possibilità di comunicazione, ma lasciano l’umanità vulnerabile alle interruzioni del sistema in rete. Questo è esattamente quello che succede ai personaggi di Singularity. Grazie alla nuova tecnologia, possono parlarsi senza dire nulla, direttamente da un cervello all’altro, ma un aggiornamento del sistema operativo sfugge di mano e i messaggi iniziano a volare come pazzi. Tre persone che hanno ritardato l’installazione della nuova versione e sono state risparmiate dal bug vengono inviate su un altro pianeta in quarantena, lì scoprono gradualmente cosa è successo, chi sono in realtà e a cosa tengono.

Tom Holloway ha scritto un libretto dal ritmo veloce, che gioca a ping pong col linguaggio. I quattro personaggi possono non solo parlare tra loro come persone normali, ma anche attraverso le loro controparti digitali, un secondo quartetto che è costantemente presente e a volte rafforza e a volte contrasta le dichiarazioni dei loro partner fisici. Si formano così delle alleanze mutevoli e mentre si addentrano in discussioni su canarini artificiali, giochi ossessivi al computer e futili tentativi di riavvicinamento, gli scambi sfociano in disarmanti dichiarazioni d’amore. Anche un computer trova una sorta di anima. E sulla Terra, all’insaputa dei pazienti in quarantena, è in arrivo una svolta che cambia il mondo.

L’ensemble di 15 strumentisti (flauto, clarinetto, corno, tromba, trombone, fisarmonica, chitarra elettrica, percussioni, tastiera, quartetto d’archi) raramente agisce come un’orchestra. Si tratta piuttosto di interventi di musica da camera che solo talvolta sostengono le voci. Sono spesso gli strumenti individuali a entrare in dialogo o in contrasto con le fulminee battute dei personaggi. Bravissimi gli interpreti a cui va dato atto della fatica di imparare un’opera singolare che chissà mai se riprenderanno in futuro: Andrew Hamilton (B), Eliza Boom (S), George Virban (T), Daria Proszek (M); completamente in blu e dal volto coperto Theodore Platt (eB), Juliana Zara (eS), Andres Agudelo (eT), Yajie Zhang (eM). Tutti utilizzano canto intonato, canto libero, parlato, arioso, ma numerosi sono i mondi sonori di Singularity: sotto la guida di Patrick Hahn l’azione è avvolta da un rarefatto pulviscolo sonoro o da clusters dissonanti o da una sinfonia di richiami di canarini nella scena 7. Più strutturati sono gli interludi tra la seconda e la terza parte e tra la quarta e la quinta. Su tutto campeggiano i rumori tipici del computer con cui si esprimono i personaggi, soprattutto B e il suo alter-ego eB. Sono parte integrale della musica le odierne forme di comunicazione del mondo online, abbreviazioni ed emojii verbalizzati nel libretto: “Laughing tears”, “Hugs and love”, “Angry eyes”…

Il regista Nicolas Brieger e lo scenografo Raimund Bauer – suo il cubo dalle pareti a buchi stile anni ’60 – costruiscono un plausibile mondo fantascientifico in cui si confondono realtà vera e realtà virtuale. Nel finale lo scintillio di stelle e galassie delle proiezioni video di Stefano di Buduo si sovrappone a quello dei cristalli e degli stucchi dorati della sala del Residenz di Monaco ancora senza pubblico.

«Una delle vere sfide per qualsiasi artista che crei qualcosa di nuovo è che c’è la necessità di rompere con il passato e creare qualcosa di significativo e rilevante che rifletta e parli la lingua dei nostri tempi. Mentre altre forme d’arte e il loro pubblico possono sembrare più disponibili al cambiamento e al progresso, l’opera è forse più lenta ad accettare idee e tecnologie moderne. In verità l’opera è una delle forme d’arte più innovative, in costante evoluzione nel modo in cui incorpora le discipline e porta nuovi progressi in esse sotto lo stesso tetto» chiosa in un suo articolo Opera Journal. «Possiamo dire che Singularity, A Space Opera for Young Voices non manca di ambizione in questo senso».

(1) È del 2011 la loro opera da camera Make No Noise in cui era già presente il tema della comunicazione interpersonale, mentre Antarctic Drama South Pole (2016) è sulla spedizione di Amundsen.

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Faust

Charles Gounod, Faust

★★★★☆

Venice, Teatro La Fenice, 3 July 2021

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La Fenice transformed into a cathedral for Joan Antón Rechi’s vision of Gounod’s Faust

Take the greatest masterpiece of German literature, translate it and betray it by transforming its philosophical message into a sequence of beguiling arias and – voilà! – you have Gounod’s Faust, one of the world’s most popular operas. But it was not always so.Faust was created at the Théâtre Lyrique in Paris in 1859 with spoken dialogue. It met with critical interest, but not with public fervour. It would take several years to reach its “definitive” version at the Opéra, ten years later, with sung recitatives and a ballet. Born as opéra-comique, Faust became grand opéra. Audiences were ecstatic, but the critics were lukewarm…

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Faust

Charles Gounod, Faust

★★★★☆

Venezia, Teatro La Fenice, 3 luglio 2021

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Dopo quasi un anno la Fenice riapre all’opera e diventa una cattedrale per il Faust di Gounod

Prendere il massimo capolavoro della letteratura tedesca, tradurlo e tradirlo trasformando il suo messaggio filosofico in una serie di arie rapinose et voilà il Faust di Gounod, una delle opere più popolari e rappresentate al mondo. Quella con cui si inaugurò il Teatro Metropolitan di New York nel 1883 e quella che assieme a Carmen e Les contes d’Hoffmann forma il nucleo fondante dell’opera francese del XIX secolo sopravvissuto gloriosamente nel XX e XXI.

Ma non è stato sempre così. Il Faust era approdato al Théâtre Lyrique di Parigi nel 1859 con i dialoghi parlati e aveva incontrato l’interesse della critica, ma non quello del pubblico. Ci vorranno molte altre versioni per arrivare a quella definitiva all’Opéra, dieci anni dopo, con i recitativi cantati e il balletto. Nato come opéra-comique il Faust diventava grand opéra. Stavolta il pubblico esultava, la critica invece si faceva più tiepida.

Il libretto di Jules Barbier, basato sul dramma di Michel Carré Faust et Marguerite del 1850, è strutturato in cinque atti – il terzo, con la scena nel giardino e il duetto d’amore, è quello cardine della vicenda, il secondo atto presenta l’incontro degli innamorati, il quarto la separazione, il tutto incastonato fra due atti che fungono da prologo e da epilogo. Il lavoro si affianca a quelli di Berlioz (La damnation de Faust, 1846), Boito (Mefistofele, 1868) e Busoni (Doktor Faust, 1924), ma qui il tema religioso è preponderante, tanto che il regista Joan Antón Rechi, che lo propone ora alla Fenice, trasforma il teatro veneziano in una cattedrale, con i banchi da chiesa al posto delle poltrone e il pubblico nei palchi e nelle gallerie. Il pavimento è inizialmente coperto da un telo che quando viene tolto mostra una superficie a specchio che riflette gli ordini di palchi e le luci delle appliques e del grande lampadario di vetro che illuminano il settecentesco interno del teatro. La trasformazione in sala da ballo per la scena del valzer è così completa.

L’ambientazione è quella dell’epoca della composizione, con le donne in grandi gonne e i maschi in divisa militare o redingote. L’azione si sviluppa sia in platea che sul palcoscenico: le esigenze di distanziamento sanitario qui diventano una efficace scelta drammaturgica del regista andorrano che non rinuncia ad alcuni vezzi registici come lo spostamento dei banchi da parte di due figuranti in nero in un lungo silenzio scandito solo dai loro passi sul pavimento, o il tormentone della fotografia con cui Siébel cerca di riprendere il coro schierato sul palco per «Gloire immortelle», o il ritorno del fantasma di Valentin che trascina via per i piedi la sorella Marguerite. Per il resto si tratta di una realizzazione intelligente e spettacolare, che ripropone in maniera moderna il fasto del grand opéra con una recitazione vivace e movimenti dei singoli e delle masse molto efficaci. Rechi è autore anche dei costumi, mentre il complesso gioco luci è opera di Fabio Berettin. Suo è il bellissimo effetto della luce filtrata da un immaginario rosone.

Frédéric Chaslin è un esperto della musica francese e della complessità del Faust riesce a dare una visione unitaria malgrado la frammentarietà dei pezzi musicali di una ricchezza melodica e strumentale stupefacente. Nelle note sul programma di sala il direttore parigino (che è anche compositore, pianista e scrittore) cita Mahler come l’unico musicista che pensava di aver capito davvero l’essenza del lavoro di Goethe con la sua Ottava Sinfonia. Queste sue considerazioni vengono in mente a posteriori dopo aver ascoltato alcuni momenti nel finale del terzo atto che richiamano in effetti atmosfere che per noi saranno poi “mahleriane”. La non ortodossa disposizione in buca con il direttore all’estrema destra invece che al centro non ha inficiato l’equilibrio sonoro, così come non sembra aver dato troppo fastidio la mascherina indossata dal coro molto ben preparato da Claudio Marino Moretti. Niente da dire per una volta sulla dizione dei coristi.

Il peso drammatico del Faust di Gounod è spostato sul personaggio femminile di Marguerite, qui nei panni del soprano Carmela Remigio, cantante di temperamento ma poco adatta alla parte: si dimostra giustamente espressiva ma a discapito di una linea vocale frastagliata, con salti di registro innaturali, una dizione qui piuttosto eccepibile e una generale mancanza di brillantezza, evidente nell’“air des bijoux”. Iván Ayón Rivas nella parte del titolo si esprime in un fraseggio elegante e ottime mezze voci, ma sembra sempre che scalpiti per sfogarsi negli acuti, che infatti arrivano e sono luminosi ma spesso eccessivi. Non è la prima volta che si riscontra nella voluta esibizione di mezzi vocali generosi una caratteristica dello stile del tenore peruviano. Grande presenza scenica ma una strana emissione nel registro basso è  quella di Armando Noguera (Valentin) mentre delizioso il Siébel di Paola Gardini, eccellente e sensibile soprano.

Vero trionfatore della serata è stato Alex Esposito, che del Méphistophélès ha dato un’interpretazione da questo momento irreversibile. Il regista ne fa un prestigiatore/ipnotizzatore in marsina e cilindro che riempie la scena anche quando, prima ancora che inizi l’opera, se ne sta immobile seduto sull’ultimo banco della chiesa immaginata da Rechi. Poi non avrà un attimo di pace: lo vedremo agilmente saltare sui banchi, scomparire all’improvviso per ricomparire subito dopo sul palcoscenico, affrontare i personaggi soggiogandoli con la mente, e sempre invisibile per loro: come il Diavolo è visto solo da chi il male l’ha fatto, come Marguerite dopo l’assassinio del neonato, quando la ragazza si aggrappa a lui invece che al fedifrago Faust. Con il basso-baritono bergamasco non c’è distinzione tra canto e recitazione. Detto il meglio della seconda, per quanto riguarda l’emissione vocale di tratta di una proiezione della voce prodigiosa, di un accento che scolpisce le singole senza però essere stucchevole e di una dizione pressoché perfetta. La scena della beffarda serenata riunisce la genialità del regista e l’attorialità del cantante: in un numero da café chantant, inquadrato dalla luce di uno spot luminoso, il cantante/attore dà prova delle sue straordinarie doti teatrali e il pubblico alla fine lo ricompensa con applausi a scena aperta e acclamazioni finali. Questa volta il Faust di Gounod si sarebbe dovuto intitolare Méphistophélès

Farnace

Antonio Vivaldi, Farnace

★★★☆☆

Venice, Teatro Malibran, 2 July 2021

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Vivaldi’s Farnace returns to Venice at the Teatro Malibran

Historical truth has never been librettists’ greatest concern, especially for Baroque opera: real events were just a pretext for fictional plots, often far-fetched and intricate. Vivaldi’s Farnace (1727) is no exception. The text had already been set to music by Leonardo Vinci three years earlier, but the subject was of great interest for 18th-century composers, riveted by events in the Anatolian region. There are almost thirty libretti about Farnace II (97-47 BC), Mithridates VI’s son.

Despite the title, the real protagonists of the drama are three women…

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Farnace

Antonio Vivaldi, Farnace

★★★☆☆

Venezia, Teatro Malibran, 2 luglio 2021

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Il Farnace di Vivaldi torna a Venezia

La verità storica non è certo mai stato il maggior scrupolo per i librettisti d’opera, meno che mai per quella barocca. Le vicende reali sono sempre state solo un pretesto per trame di fantasia, spesso inverosimili e sempre intricate. Non fa eccezione il Farnace del librettista Antonio Maria Lucchini il cui “drama per musica da rappresentarsi nel Teatro di Sant’Angelo nel Carnevale 1726”, ossia nel febbraio 1727, fu messo in musica da Antonio Vivaldi. Il testo era già stato intonato da Leonardo Vinci nel 1724, ma l’argomento sarà oggetto di grande interesse per i compositori del Settecento affascinati dalle vicende della regione anatolica del tempo, il primo secolo a.C. Sono più di trenta i libretti sulle vicende di Farnace II, figlio di Mitridate VI re del Ponto.

Ma, nonostante il titolo, le vere protagoniste del dramma di Farnace sono tre donne: la suocera Berenice, la moglie Tamiri e la sorella Selinda. La prima ha giurato eterno odio al genero che le ha ucciso il marito; la seconda è combattuta tra l’obbedienza al comando del marito (che le ha intimato di uccidere il figlio per risparmiargli il disonore della schiavitù) e l’amore filiale; la terza gioca abilmente sulla seduzione per salvare il fratello.

Una della ventina arrivate a noi delle tante opere scritte da Vivaldi, Farnace è un lavoro della sua maturità e uno dei suoi più fortunati ai suoi tempi. Lo dimostrano le innumerevoli versioni: ad ogni rappresentazione, come era costume del tempo, la partitura subiva delle variazioni per adattarsi alle nuove esigenze dei cantanti e dei teatri e dopo quella di Venezia abbiamo quindi numerose altre versioni, una per ogni città in cui l’opera veniva allestita: Livorno, Praga, Pavia (1731), Mantova, Treviso e Ferrara (1738). Solo quelle di Pavia e Ferrara ci sono arrivate, e quella di Ferrara mancante del terzo atto.

Il direttore Diego Fasolis, grande esperto di Vivaldi, aveva già inciso Farnace nel 2010. Ora lo riporta a Venezia in una versione ibrida, ossia quella del 1731 di Pavia, in cui il ruolo del titolo è assegnato a un tenore, ma con la distribuzione delle voci dell’originale veneziano, con alcuni aggiustamenti nei recitativi che limitano la lunghezza dello spettacolo, qui meno di tre ore. La sua direzione evidenzia le caratteristiche di quest’opera caratterizzata dal colore scuro delle voci e dal tono tragico di molte pagine. Mette altresì in evidenza la magistrale ricchezza orchestrale di una partitura che si affida meno del solito alle preziosità strumentali e agli interventi solistici per creare un pieno sonoro di efficace drammaticità. Ma anche qui il genio strumentale di Vivaldi è evidente in «Gelido in ogni vena», l’aria di Farnace in cui l’orchestra con quegli spettrali effetti d’arco che Vivaldi aveva utilizzato nell’“Inverno” delle sue Stagioni op. 8. accompagna le angosciate parole del padre al pensiero del figlio che lui crede di aver fatto uccidere. La concertazione di Fasolis ci conferma una volta di più della originalità e forza del linguaggio teatrale del Prete Rosso.

Scritto originariamente per la rinomata Anna Girò, Tamiri è ora affidato alla personalità di Sonia Prina che ritorna in una parte che ha spesso frequentato. Il timbro caldo e l’intensità di espressione del mezzosoprano delineano con grande efficacia il personaggio più complesso dell’opera. Figlia (di Berenice), moglie (di Farnace) e madre, nella scena decima dell’atto primo in un lungo e drammatico recitativo davanti ai mausolei dei re del Ponto, Tamiri è lacerata dall’idea di dover uccidere il figlio come promesso al marito, ma il suo amore materno non la metterà al riparo né dalle accuse del consorte né dalla sete di vendetta della madre Berenice, personaggio molto più monolitico cui dà voce Lucia Cirillo che ha meno possibilità di variare il colore dell’espressione in arie in cui dichiara «Da quel ferro ch’ha svenato | il mio sposo sventurato | imparai la crudeltà. | Nel mirare un figlio esangue | e bagnato del mio sangue | mi scordai della pietà».

Caratterizzata invece dal ruolo di seduttrice è Selinda, qui Rosa Bove, la cantante dal tono più lirico. Fin dalla prima uscita Selinda espone il suo programma di far nascere con l’amore le gelosie e «dalle gelosie l’ire e gli sdegni» così da mettere uno contro l’altro i due nemici che si sono innamorati di lei e poter riportare in tal modo il fratello sul trono, come effettivamente avverrà. I tre ritratti femminili sono così fortemente individuati e caratterizzati da tre eccellenti interpreti che, seppure abbiano in comune il registro di mezzosoprano, portano in scena la loro diversa e complementare personalità.

Meno efficace è il reparto maschile in questa produzione. Il tenore Christof Strehl realizza una performance un po’ discontinua, manchevole nelle agilità, riuscita invece nella tragicità della scena e aria «Gelido in ogni vena». I recitativi costituiscono un problema non solo per Strehl, ma anche per Valentino Buzza, che non trova il giusto tono per Pompeo, sempre troppo tronfio e magniloquente. Esile fino alla udibilità, ma perfettamente a suo agio nelle agilità, è Kangmin Justin Kim, che nelle sue quattro arie delinea bene il fatuo personaggio di Gilade. David Ferri Durà è un Aquilio non memorabile, qui tenore, per cui Vivaldi scrive una sola aria. Dai palchi, e debitamente distanziati, i coristi intonano l’esultante canto che saluta l’approdo di Berenice prima e poi l’assalto alla città.

Il regista Christophe Gayral ambienta la vicenda ai tempi nostri in una non meglio identificata regione mediorientale. Nelle scene realistiche di Rudy Sabounghi manufatti di cemento simili alle casematte di difesa punteggiano la desolata scena illuminata dalle luci livide di Giuseppe di Iorio. I costumi di Elena Cicorella mescolano divise militari per i romani e per Berenice con costumi orientali per Farnace e le due altre donne – ma con particolari molto occidentali per le armi seduttive di Selinda, ossia reggiseno e scarpe con tacchi a spillo.

La drammaturgia non risolve pienamente l’andirivieni dei personaggi previsto dal libretto e il finale lascia ancora più sgomento il pubblico: invece del previsto lieto fine Farnace ritorna sul trono con Selinda e il figlio, assassinando tutti gli altri, anche la moglie, e si riprende il regno in uniforme carica di medaglie. Sarà il prossimo tiranno della regione. La trovata non è stata recepita favorevolmente dal pubblico che ha indirizzato al regista qualche segno di dissenso nei saluti finali. Successo pieno invece per gli ideatori musicali.

Il ritorno d’Ulisse in patria

crédit photos © Michele Monasta – Teatro del Maggio

Claudio Monteverdi, Le retour d’Ulysse dans sa patrie

★★★★★

Florence, Teatro della Pergola, 30 juin 2021

 Qui la versione italiana

Ottavio Dantone et Robert Carsen présentent le premier «opéra moderne»

Trente-trois ans s’étaient écoulés depuis que Claudio Monteverdi avait scellé la naissance du « théâtre dramatique chanté », que les académiciens florentins considéraient comme l’équivalent du théâtre grec antique : chant, déclamation, moments parlés et dansés. Le texte constituait le premier plan et un continuoinstrumental, ou basse « chiffrée », c’est-à-dire écrite, servait d’accompagnement. Les accords et les détails de l’instrumentation étaient laissés à la créativité des musiciens : seuls les « symphonies », les interludes et la musique des danses étaient écrits. C’était par example le cas pour L’Orfeo de 1607, créé à la cour des Gonzague à Mantoue…

la suite sur premiereloge-opera.com

Il ritorno d’Ulisse in patria

fotografie © Michele Monasta – Teatro del Maggio

Claudio Monteverdi, Il ritorno d’Ulisse in patria

★★★★★

Firenze, Teatro della Pergola, 30 giugno 2021

bandiera francese.jpg Ici la version française

Dantone e Carsen portano a Firenze la prima “opera moderna”

Erano passati 33 anni da quando Claudio Monteverdi aveva posto il suo sigillo sulla nascita del teatro drammatico cantato, quello che gli accademici fiorentini pensavano fosse la realtà del teatro greco antico: canto, declamazione intonata, momenti parlati e ballati. Il testo era in primo piano e un “continuo” strumentale, o basso “figurato” ossia scritto, faceva da accompagnamento. Gli accordi e i dettagli della strumentazione erano lasciati alla creatività dei virtuosi: solo le “sinfonie”, gli interludi e le musiche per i balli venivano messi nero su bianco. Così era stato per L’Orfeo del 1607, creato e allestito per una corte, quella mantovana dei Gonzaga

Ma ora Monteverdi era a Venezia: tre anni prima era stato aperto il primo teatro pubblico, il San Cassiano, e altri erano seguiti alimentando la richiesta di drammi nuovi. Il ritorno d’Ulisse in patria nasceva quindi per un pubblico vero, quello del Teatro dei SS. Giovanni e Paolo, e quella recita del carnevale 1640-41 fu la prima di una serie di repliche riproposte eccezionalmente anche l’anno seguente a dimostrazione del favore indiscusso di cui godeva Monteverdi, non più solo venerato maestro di cappella a San Marco e autore di madrigali, ma anche rinomato compositore d’opere.

Nel Ritorno d’Ulisse in patria il compositore sperimentava un nuovo stile in cui  ancora non si configurano recitativo e aria – saranno la base dell’opera barocca italiana – e l’espressione è il risultato di un continuum declamatatorio con personaggi caratterizzati da uno stile vocale personale e incisivo. Dopo la pastorale de L’Orfeo – e in mancanza delle opere seguenti andate perdute o rimaste in frammenti: l’Arianna, l’Andromeda, la Proserpina rapita, Le nozze d’Enea con Lavinia ecc. – questa può essere considerata la prima vera opera moderna, in quanto «incarna perfettamente il passaggio verso una nuova concezione del teatro: l’equilibrio tra recitar cantando e ariosi, tra forme chiuse e parti strumentali è mirabile e l’espressione degli affetti è pensata per coinvolgere un pubblico ampio» afferma Ottavio Dantone intervistato da Mattia L. Palma su Cultweek.

Nel libretto di Iacopo Badoer (o Badoaro), a cui sembra abbia messo mano anche il compositore, il genere umano è un fragile trastullo nelle mani degli dèi: «Credere a ciechi e zoppi è cosa vana» si lamenta nel prologo l’Humana fragilità riferendosi a Fortuna, Amore e Tempo. Ma la perseveranza e la forza dell’amore sulle avversità alla fine saranno premiate e il lungo errare di Ulisse, vittima dell’ira di Nettuno, avrà termine: grazie all’aiuto di Minerva e all’intercessione di Giove l’eroe, ritornato finalmente in patria, riconquista il trono e la fedele consorte.

La realizzazione musicale di un’opera come questa è impresa non da poco. Ottavio Dantone non dirige soltanto, ricrea i suoni che erano nella mente di Monteverdi: «nonostante dia pochissime indicazioni di organico, di strumentazione e di dinamica, che in pratica sono assenti, come i numeri per l’armonizzazione del basso, basta studiare con attenzione il modo in cui Monteverdi accosta le parole e la musica» continua Dantone, che considera Il ritorno d’Ulisse in patria la sua opera più bella, perché è l’unica completamente di sua mano, piena di figurazioni raffinate, madrigalismi per imitare la realtà ed efficaci contrasti vocali per differenziare i tanti personaggi.

Il difficile equilibrio tra quanto è solo scritto e quanto deve essere liberamente “improvvisato” è realizzato con sapienza e gusto da Dantone, che inserisce momenti musicali mancanti come quello dell’ingresso del pastore Eumete, musica ispirata a una pastorale secentesca, o la grandiosa sinfonia che nello spettacolo accompagna il solenne ingresso degli dèi in sala. L’alternarsi di momenti lirici e drammatici porta a una varietà di suoni e colori che gli strumentisti dell’Accademia Bizantina dipanano con consapevolezza ed eleganza, arrivando a effetti di sorprendente modernità come quelli di suspense della prova dell’arco.

Nella realizzazione del recitar cantando viene impiegato un cast di specialisti di altissimo livello. Charles Workman è un Ulisse che si trasforma, fedele alla sua fama, da vecchio ad aitante eroe e qui sfoggia la sua innata eleganza, un’ottima dizione e una sorprendente proiezione della voce, esaltata dalla magnifica acustica dello storico teatro fiorentino. Commovente è il suo duetto con Telemaco, qui Anicio Zorzi Giustiniani dal bel timbro chiaro e dalla sicura vocalità. Delphine Galou è una Penelope tratteggiata con misurata sobrietà, forse troppa, in cui mancano di evidenza la regalità del personaggio e il tormento della sposa in attesa. Ineccepibili comunque sono come sempre fraseggio e recitazione. La presenza scenica di certo non manca all’Iro di John Daszak e al Giove di Gianluca Margheri. Affascinante e vocalmente preziosa la Minerva di Arianna Venditelli e autorevole la Giunone di Marina de Liso. Guido Loconsolo presta il suo bel registro profondo al risentito Nettuno. Il controtenore Konstantin Derri è Amore mentre Francesco Milanese ed Eleonora Bellocci, rispettivamente il Tempo e la Fortuna, completano il trio degli dèi motori della vicenda. Vivaci e di concreta presenza vocale i Proci: il basso Andrea Patucelli (Antinoo), il tenore Pierre-Antoine Chaumien (Anfinomo) e il controtenore James Hall (Pisandro). Nella coppia Melanto-Eurimaco, gli amanti appassionati che si contrappongono alla compostezza dei coniugi Penelope-Ulisse, si distinguono Miriam Albano e Hugo Hymas. Mark Milhofer dà corposa evidenza al carattere del pastore Eumete, mentre Natascha Petrinsky è la trepida nutrice Ericlea.

L’aspetto visivo dello spettacolo è affidato a uno dei maggiori metteurs en scène contemporanei, Robert Carsen, che con le scene di Radu Boruzescu, le luci di Peter van Praet e i costumi di Luis Carvalho allestisce uno spettacolo all’altezza di quello a cui ci ha da sempre abituato il regista canadese. Nella sua lettura l’elemento principale è il conflitto tra dèi e umani, a cominciare dagli abiti: i primi vestono costumi d’epoca sontuosissimi che sembrano realizzati col velluto rosso e l’oro del sipario del teatro, i secondi invece abiti contemporanei – uniforme militare per Ulisse, outfit sobri e scuri per Penelope, completi cafonal per i Proci e Iro. Nel prologo l’Humana fragilità è ripartita su tre cantanti che si affacciano dai palchi (sì, siamo noi), sbeffeggati dai tre dèi davanti al sipario: «Il Tempo ch’affretta, Fortuna ch’alletta, Amor che saetta, pietate non ha. Fragile, misero, torbido, quest’huom sarà». Gli altri dèi olimpici entreranno poi dal fondo della platea e passando tra le poltrone distanziate saliranno sui palchi realizzati nel fondo della scena che ricrea fedelmente a specchio la sala del teatro. Brindando e intrattenendosi amabilmente assisteranno alle vicende umane, su cui interferiranno pesantemente, per poi lasciare i palchi dopo la strage dei Proci. Ora il loro intervento non è più necessario: per l’umanissimo e toccante incontro di Ulisse con la sua sposa basta il pubblico vero, noi. Commossi e plaudenti.