Eugène Scribe

Un ballo in maschera

Giuseppe Verdi, Un ballo in maschera

★★★★☆

Zurigo, Opernhaus, 17 giugno 2017

(video streaming)

Il macabro Puppenspiel di Pountney

È una delle tre opere di Verdi (le altre due sono Macbeth e Don Carlos) che salverei dalle fiamme se fossi costretto a scegliere. Ma sarebbe certo “la scelta di Sophie”…

Un ballo in maschera non fu l’unica opera a subire l’azione della censura (qui borbonica: doveva debuttare al San Carlo di Napoli), ma su questa i censori mostrarono un particolare accanimento tanto da far perdere la pazienza al compositore che si vide cambiare il titolo (Gustavo III, Una vendetta in domino, Adelia degli AdimariUna festa da ballo in maschera, Un ballo in maschera), il luogo dell’azione (Stoccolma, la Pomerania, Firenze, Boston) l’epoca (il XVII secolo, un’epoca pre-cristiana, il XVI secolo, il XIV, la fine del XVII), la vicenda e i nomi dei personaggi (Gustavo, Armando, Riccardo; Amelia, Adelia, Amelia; Carlo, Roberto, Renato…).

Un ballo in maschera è anche un unicum nella produzione verdiana per ricchezza melodica: nessun’altra sua opera presenta «un vero e proprio fiume in piena di melodia […] rovesciata nelle orecchie con dovizia insolita persino per un Verdi», come dice Elvio Giudici. L’influenza dell’opera francese qui è massima, ma è elaborata in maniera estremamente personale da un compositore affermato che ha raggiunto la sua piena maturità e sa mirabilmente dosare il tono ironico e quello tragico, quello salottiero e quello lugubre.

E lugubremente grandiosa è la messa in scena di David Pountney nata alla Welsh National Opera e ripresa qui a Zurigo. Potrebbe essere adatta per il palcoscenico galleggiante di Bregenz: un’enorme mano scende dall’altro e tira i fili di un umano ridotto a marionetta durante l’ouverture e manichini in maschera si mescolano al coro su piattaforme semoventi sul fondo di un sipario nero dalle rigide pieghe disegnato, come il resto della scenografia, da Raimund Bauer. Alcune idee non sono al 100% originali: già David Alden nel 1989 al Coliseum aveva messo delle ali nere a un Oscar angelo della morte e la presenza di uno scheletro era il punto di forza della scenografia nello spettacolo di Richard Jones alla Seebühne nel 1999.

Pountney trasforma la vicenda in un funebre Puppenspiel dove il personaggio principale è lui stesso un pupazzo. All’inizio vediamo infatti il re Gustavo a dimensione infantile su un’enorme poltrona da teatro (c’è la targhetta col numero!) trastullarsi con un burattino con la corona di cartone mentre nel finale il bersaglio della furia omicida del marito geloso è un alter-ego del re che indossa lo stesso costume, salvo poi presentarsi, il re stesso, con un burattino “morto” tra le braccia e cantare un addio alla vita da “vivo” mentre contempla un ballo in maschera che si è trasformato in una macabra Totentanz e chiudere lui stesso il sipario. Nella scena precedente Riccardo aveva cantato la romanza «Ma se m’è forza perderti» con dei manichini infilzati con spilloni come insetti sul tendaggio mentre l’«orrido campo» era stato punteggiato dalla luce verdastra emanata dai volti e dalle mani di numerosi cadaveri sospesi a varie altezze – determinante è l’efficace gioco luci di Jürgen Hoffmann in questo spettacolo.

L’unica che sfugga alla caratterizzazione funerea voluta dai costumi di Marie-Jeanne Lecca è Ulrica, qui abbigliata come una diva del cinema muto che dal suo camerino presta la voce a una grande testa di medusa posta su una dolly. Attraverso un foro dello schermo che la separa dal suo pubblico passano le mani da leggere e le offerte in danaro, ma anche la vista dei cortigiani che attentano alla vita di Gustavo, utile suggerimento per la sua profezia.

Fabio Luisi alla guida della Filarmonica zurighese fornisce una magistrale lettura di questa particolare partitura che passa da ritmi sgambettanti a inedite atmosfere quasi cinematografiche piene di suspence. In scena un cast internazionale si alterna nelle repliche. Nella parte del re Gustavo III il tenore georgiano Otar Jorjikia sostituisce il previsto e indisposto Marcelo Álvarez. Il suo personaggio ha ben poco di regale: è un giovane innamorato, dalla voce generosa con solo qualche lieve incertezza di intonazione negli acuti. Autorevole e imponente il Carlo di George Petean, baritono rumeno, sensibile e mai truce. L’americana Sondra Radvanovsky è un’Amelia di grande temperamento ed eccezionale proiezione vocale, ma il registro acuto ha un che di opaco con note sporche e la dizione è del tutto incomprensibile, neanche si capisce in quale lingua canti. Marie-Nicole Lemieux, contralto canadese, è un’Ulrica ironica dalla notevole presenza scenica e vocale. Il soprano cinese Sen Guo è un Oscar effervescente e vocalmente agile.

Uno spettacolo audace che qui in Italia non si potrebbe mai vedere: troppe le “care salme” vestali del «povero Verdi!» al di qua delle Alpi perché un teatro possa avere il coraggio di affrontare un’operazione del genere. È così che si condanna l’opera all’estinzione.

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L’elisir d’amore

 

Gaetano Donizetti, L’elisir d’amore

★★☆☆☆

Parigi, Opéra Bastille, 4 giugno 2006

(registrazione video)

Uno spettacolo di cui si salva solo la messa in scena

Il nome di Laurent Naouri come caricaturale Belcore avrebbe fatto sperare nella presenza nel cast di Mme Naouri, ma in questa produzione del 2006 dell’Opéra di Parigi invece di Nathalie Dessay come Adina abbiamo l’americana Heidi Grant Murphy dalla voce petulante e dalla dizione approssimativa, per non parlare delle smorfie inguardabili con cui articola l’emissione del canto.

Americano è anche Paul Groves, che si cala pesantemente nella parte che ai giorni nostri è appannaggio di interpreti quali Juan Diego Flórez o Matthew Polenzani e il confronto è impietoso: la vocalità italiana del belcanto proprio non viene fuori dalla sua pur generosa presenza scenica. La scelta del discusso Parsifal di Chicago come Nemorino rimarrà un mistero impenetrabile al pari del terzo segreto di Fatima. Unico italiano del cast è il Dulcamara poco convinto e ingombrante di Ambrogio Maestri nella parte del simpatico ciarlatano.

La direzione di Edward Gardner è tirata via senza partecipazione e con concertati pasticciati, come se la musica di Donizetti non meritasse di più. Invece, per fortuna, la grazia dell’opera riesce sempre a vincere con il suo mirabile equilibrio tra comico e patetico e il suo patrimonio di melodie che restano tra le più belle non solo del fecondo musicista bergamasco, ma dell’opera italiana tout court. Nella scelta delle dieci più belle opere da salvare  L’elisir d’amore avrebbe certamente il suo posto assicurato. Chantal Thomas ci restituisce sulla scena i colori e la luce di un’estate della campagna padana mentre Pelly soprintende alla semplice ma schietta psicologia dei personaggi e alla vivacità delle controscene. Spiritoso il sipario con le vecchie pubblicità dei giornali adattate ai prodotti di Dulcamara.

L’allestimento è stato ripreso nelle stagioni successive dell’Opéra National parigina con direttore e cantanti diversi – e molto più convincenti – ma è questa la produzione che è stata commercializzata in DVD.

La dame blanche

François-Adrien Boieldieu, La dame blanche

★★☆☆☆

Rennes, Opéra, 11 dicembre 2020

(live streaming)

La dame à plumes

Un direttore d’orchestra che si presenta vestito da Papageno mette già sull’avviso: quella a cui stiamo per assistere non è una rappresentazione come le altre, nemmeno in tempo di pandemia. Ma non si rivelerà il singolare “progetto filmico” che viene preannunciato, quanto piuttosto un modesto allestimento che sembra quasi un saggio accademico. Ma andiamo per ordine.

La dame blanche è un’opera che ebbe un enorme successo nell’Ottocento per poi venire completamente dimenticata nel secolo successivo: fu creata il 10 dicembre 1825 e nei primi nove anni fu rappresentata mille volte, altre 637 fino al 1900, poi quasi nulla. Da poco si riprende timidamente la scena a partire dal suo ritorno all’Opéra Comique nel 1997 dopo una lunga assenza. Nel febbraio 2020 vi è ritornata un’altra volta e in attesa della produzione nizzarda il mese prossimo, ora è l’Opéra de Rennes che mette in scena una produzione senza pubblico che viene prontamente registrata e diffusa in streaming.

François-Adrien Boieldieu (1775-1834) è una figura importante dell’opera francese. Il suo primo successo lo ebbe a 18 anni con La fille coupable rappresentata nel teatro della sua città natale, Rouen. Trasferito a Parigi il compositore trionfò con Zoraïme et Zulnar (1798) e Le Calife de Bagdad (1800). Dopo aver passato otto anni alla corte russa di San Pietroburgo ritornò nella capitale francese per La dame blanche, penultima delle quasi quaranta opere da lui scritte. I tre atti di quest’opéra-comique sono su libretto di Eugène Scribe basato su Guy Mannering (1815) e da The Monastery (1820), romanzi di Walter Scott. Dal primo è tratta la trama essenziale, dal secondo il personaggio del fantasma, figura alla moda nel romanzo gotico che The Monk di Matthew Gregory Lewis aveva lanciato alla fine del XVIII secolo e che i librettisti francesi presto adottarono.

Antefatto. L’azione si svolge in Scozia nelle terre dei conti di Avenel che hanno cresciuto un figlio, Julien, misteriosamente scomparso durante la sua infanzia, così come una giovane orfana, Anna. Dopo essere andati in esilio per motivi politici, il conte e la contessa hanno lasciato la loro proprietà nelle mani di un maggiordomo, Gaveston, che ha intenzione di riscattarla e diventarne il padrone. Anna è stata lasciata sola nel castello con la vecchia zitella Marguerite e Gaveston, che le fanno da tutori.
Atto primo. Il contadino Dickson e sua moglie Jenny ricevono la visita di George Brown, un giovane ufficiale inglese che chiede loro ospitalità. George ricorda vagamente di aver avuto un’infanzia felice, soprattutto innamorato della ragazza che una volta si prese cura di lui mentre era ferito. I contadini spiegano a George la situazione in cui si trovano le tenute dei Conti d’Avenel: il vecchio castello, in rovina e infestato, dicono, da una misteriosa Dama Bianca, sarà presto messo in vendita e sarà probabilmente acquistato da Gaveston. Dickson è stato incaricato dagli agricoltori locali di acquistare e partecipare alla prossima asta. Viene recaptato al contadino un messaggio misterioso: arriva dalla Dama Bianca, che gli dà appuntamento al castello. Terrorizzato, Dickson è sollevato nel vedere che George Brown è pronto a prendere il suo posto.
Atto secondo. Il misterioso fantasma del castello non è altri che Anna, l’orfana una volta accolta dal Conte e dalla Contessa. Travestita da Dama Bianca dà il benvenuto a George Brown e lo riconosce immediatamente come il giovane di cui si prendeva cura. Chiede al giovane ufficiale di partecipare all’asta del castello. Giorgio obbedisce, si aggiudica la vendita … ma non è in grado di onorare il pagamento!
Atto terzo. Gaveston scopre che George è Julien e questo potrebbe ostacolare i suoi piani, poiché il giovane è l’erede legale della tenuta di Avenel, ma Julien sembra ancora affetto da amnesia e Gaveston non è preoccupato. Il ricordo, però, sembra a poco a poco tornare al giovane, in particolare quando sente i contadini cantare una vecchia melodia scozzese. Durante questo periodo, la serva Marguerite e Anna cercano di trovare la statua della Dama Bianca nascosta da qualche parte nel castello. È da questa statua che poteva venire la soluzione a tutti i loro problemi: la contessa aveva infatti spiegato una volta ad Anna che lì era nascosto il tesoro di famiglia. Marguerite finisce per scoprire la statua. Anna, ancora travestita da Dama Bianca, porta i soldi per l’acquisto del castello e rivela a tutti l’identità di Julien/George Brown. Furioso, Gaveston strappa il velo della Dama Bianca: l’inganno viene smascherato, Julien riconosce Anna e le chiede la mano.

Mozart e Rossini sono le influenze più evidenti nella musica de La dame blanche. Del secondo, collega al Théâtre-Italien, si riconosce il crescendo nella vivace ouverture, scritta in collaborazione con Adolphe Adam e Théodore Labarre, che dà subito il tono della festa con cui inizia la vicenda. Del primo sono i grandi finali d’atto delle opere buffe con i complessi concertati. Ma un altro nome viene in mente all’ascolto, il futuro Donizetti: sia nelle parole sia nelle note la prima aria di George Brown «Ah, quel plaisir d’être soldat» richiama il Tonio de La fille du régiment e succede la stessa cosa anche dopo con «Observons, écoutons et puis attendons», questa volta i couplets di Marie «Voyons, écoutons! Écoutons, et jugeons!». Per di più Boieldieu riesce nell’impresa di musicare una vendita all’asta centoventi anni prima dello stravinskiano Rake’s Progress! I temi scozzesi hanno un ruolo importante nella partitura, non ultimo quello che serve a riportare la memoria al giovane affetto da amnesia.

Con l’ingenua messa in scena di Louise Vignaud e le scenografie minimaliste di Irène Vignaud, la produzione è firmata dalla co[opéra]tive, un’équipe di 40 persone (14 cantanti, 19 strumentisti, regista e 6 aiuti) che porta in giro i suoi spettacoli con una smilza compagine orchestrale, l’Orchestre Les Siècles, su strumenti del 1830 e formata da 5 violini, una viola, un violoncello, 2 contrabbassi, un flauto, un oboe, un clarinetto, un fagotto, 2 corni, un trombone, percussioni e arpa. Diretta da Nicolas Simon vuole ricreare il suono di uno dei tanti teatrini in cui si mettevano in scena queste ingenue storie con cantanti magari non eccelsi. Il problema però è che a tratti pare di ascoltare una delle orchestrine di Piazza San Marco e per quanto riguarda i cantanti i ruoli sono tutt’altro che semplici e quello di George/Jules ha le stesse difficoltà di certi ruoli rossiniani. Volenteroso il cast formato da giovani promesse, ancora acerbe al momento. Sahy Ratia è appunto George/Jules che se la deve vedere con quella cavatina «Viens, gentille dame» appannaggio dei più eccelsi belcantisti, e bisogna dire che non ne esce troppo male. Caroline Jestaedt è un’Anna dalla voce esilissima che si teme si spezzi da un momento all’altro, Yannis François un Gaveston un po’ più solido, Sandrine Buendia Jenny, Fabien Hyon Dikson. Smilzo come l’orchestra il coro Le Cortège d’Orphée impegnato in molte pagine.

Quello che rimane nel ricordo di questo spettacolo sono i costumi di Cindy Lombardi: la pittoresca tribù degli scozzesi con corna e pellicce, gli abitanti del castello trasformati in insetti (coleottero Gaveston, ragno Marguerite) e la Dame Blanche/Anna candida civetta. Per tutti grande profusione di piume – anche per il direttore d’orchestra, come s’è detto. È mia convinzione che bisogna sempre diffidare di costumi troppo ricchi: spesso nascondono la mancanza di idee registiche. Come in questo caso.

La sonnambula

Vincenzo Bellini, La sonnambula

★★★☆☆

Roma, Teatro dell’Opera, 18 febbraio 2018

(registrazione video)

La favola di Amina che diventa adulta

Dimensione onirica e notturna per La sonnambula di Bellini messa in scena da Giorgio Barberio Corsetti per la stagione dell’Opera di Roma in coproduzione col teatro Petruzzelli di Bari. Il regista punta sulla favola: nella scenografia di Cristian Taraborrelli ci sono mobili fuori scala, enormi, tanto che sulla scrivania e sulla cassettiera ci sta buona parte del coro, oppure minuscoli come il letto per le bambole, una per ogni personaggio, con Lisa che si accanisce su quella della rivale Amina: qui sono tutti un po’ bambini ed Elvino intra in scena su un enorme letto col suo orsacchiotto. Orsacchiotto che ritroveremo nel secondo atto saltellare tra le case di bambola dalle finestre illuminate a indicare l’atmosfera notturna dell’apparizione del “fantasma”. Chissà, dopo le peripezie Amina ed Elvino diventeranno finalmente adulti alla fine.

Giorgio Barberio Corsetti questa volta rinuncia alle diavolerie digitali della realtà virtuale e si limita alla proiezione sul fondo dei video di Gianluigi Toccafondo, autore anche della grafica delle locandine della stagione dell’Opera di Roma. Dopo un poco tempo però le proiezioni, che commentano o amplificano quanto avviene in scena, si rivelano inutili o se non addirittura fastidiose con quelle nervose pennellate che invadono il campo visivo. Nella registrazione video non si vedono molto e non se ne sente la mancanza. Almeno la scena del sonnambulismo si pensava fosse teatralmente efficace, cosa che invece non è con Amina che gira in tondo all’interno della balaustrina in cima alla scrivania – prima almeno era scomparsa dentro un cassetto per ricomparire in un altro. I costumi di Angela Buscemi suggeriscono come epoca quella della composizione con profluvio di cuffiette e grembiuli per le donne, cappelli e redingote per gli uomini.

Jessica Pratt ritorna in un ruolo che l’aveva rivelata e portata al successo e a parte un inizio un po’ freddamente meccanico, nelle arie del secondo atto il soprano dispiega agilità impeccabili e acuti cristallini, che poi riesca a commuovere è un altro problema. L’ Elvino di Juan Francisco Gatell sfoggia bel timbro e stile impeccabile, ma si sente che il ruolo, creato per il Rubini, non è per lui e gli acuti, anche in assenza delle puntature di tradizione, sono risolti con fatica. Il Conte Rodolfo di Riccardo Zanellato è nobile e autorevole, tuttavia non memorabile e un po’ scomposte le agilità della Lisa di Valentina Varriale. Speranza Scappucci dà una lettura vivace senza particolare attenzione alle sottigliezze strumentali sparse da Bellini nella partitura e il coro si rivela anche stavolta abbastanza approssimativo.

Les Vêpres siciliennes

Giuseppe Verdi, Les Vêpres siciliennes

★★★★☆

Rome, Teatro dell’Opera, 10 December 2019

   Qui la versione italiana

Verdi’s first French opera opens the operatic season in Rome

Three days after the Teatro alla Scala, Roman socialites put on their evening dresses and tuxedos for the opening of their opera season, a social event that nevertheless does not match the frenzy of the Milan prima. This year the Opera di Roma opened with Les Vêpres siciliennes, in the original French version which is not frequently seen in Italian houses.

Verdi lived in an environment influenced by French culture, drawing inspiration for many of his works from the French theatre and in the Grand Opéra he saw the chance to breathe new life into Italian opera. His thirty trips to Paris testify to this commitment…

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Les Vêpres siciliennes

Giuseppe Verdi, Les Vêpres siciliennes

★★★★☆

Roma, Teatro dell’Opera, 10 dicembre 2019

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Il Verdi francese apre la stagione dell’Opera di Roma

Tre giorni dopo l’inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala, anche a Roma si sfoggiano abiti da sera e smoking per l’apertura del suo Teatro, un’occasione anche questa mondana anche se non raggiunge la frenesia che pervade Milano il 7 dicembre. L’Opera di Roma apre con un titolo non tra i più popolari di Verdi e per di più nell’edizione originale francese, Les Vêpres siciliennes, versione non frequente nei teatri italiani.

Vissuto in un ambiente influenzato dalla cultura francese, il compositore ha tratto dal teatro francese ispirazione per molte sue opere e anche quelle di soggetto scespiriano sono state conosciute attraverso le traduzioni francesi dell’epoca. Nel grand-opéra poi Verdi aveva visto la possibilità di svecchiare il melodramma italiano e i suoi trenta viaggi a Parigi testimoniano questo suo impegno. Verdi era andato una prima volta nella capitale francese nel 1847 per l’allestimento della Jérusalem (rielaborazione in chiave di grand-opéra de I lombardi alla prima Crociata) e nel 1855 ci era ritornato per una nuova produzione, Les Vêpres siciliennes appunto, primo di un progetto per “la grande boutique”, così Verdi chiamava l’Opéra di Parigi. In Italia il lavoro giungerà pochi mesi dopo, ma a causa della censura verrà rappresentato in una versione italiana con altro titolo e con la vicenda ambientata oltre le Alpi. Il soggetto originale di Scribe era infatti considerato troppo patriottico! Solo più tardi fu accettato nella versione correttamente tradotta I Vespri siciliani.

La produzione romana mette in campo Daniele Gatti, nuovo direttore musicale del teatro, e una squadra di eccellenti interpreti. Il maestro Gatti legge la partitura in tutta la sua magnificenza: l’orchestrazione dei Vêpres è molto più elaborata che non nelle precedenti opere di Verdi e la forma, dilatata a cinque atti, comprende pezzi di assieme e numeri corali di grande complessità, qui magistralmente risolte. Il tono scuro della vicenda è evidenziato dal direttore fin dalle prime note della sinfonia che è quasi un poema sinfonico in cui vengono esposti molti dei temi che saranno ascoltati in momenti cruciali dell’opera, quasi una sintesi drammatica dell’intera vicenda. Qui Gatti esalta i colori e la varietà dei timbri strumentali come farà in seguito nei pezzi pittoreschi della tarantella del secondo atto e della siciliana/bolero del quinto. Nella lettura di Gatti si nota il lavoro di approfondimento fatto con un’orchestra che non sempre ha brillato per la sua disciplina.

Tre dei quattro interpreti principali sono maschi in quest’opera, un tenore e due baritoni. Nella parte di Henri, il siciliano ribelle che scopre di essere il figlio dello spietato governatore francese, John Osborn incanta con una voce sempre duttile nel sottolineare gli opposti sentimenti che animano il giovane. Anche nei momenti più drammatici il cantante americano mantiene uno stile e un’eleganza ineccepibili. Un momento di grandissimo pathos è il suo duetto con il padre, qui un Roberto Frontali che recita con un’asciuttezza che rende ancora più efficace la parte. Il passaggio da inflessibile tiranno a quello di padre amorevole che ha ritrovato il figlio viene delineato con molta sensibilità. Quella di Procida è invece una parte molto più compatta, essendo l’odio e il desiderio di vendetta gli unici motori delle sue azioni, ma Michele Pertusi riesce comunque a rendere credibile il personaggio con una autorevolezza vocale sorprendente e una imponente presenza scenica. Schiacciata tra tanti uomini la figura di Hélène riesce ad emergere grazie alle vigorose pagine che Verdi scrive per lei e alla autorità vocale di Roberta Mantegna. Nel suo intervento del primo atto che diventa un sottinteso invito alla ribellione («Ne perdez pas courage! Veuillez être sauvés, et Dieu vous sauvera!») le agilità belcantistiche si affiancano al temperamento del soprano palermitano cui manca solo appena un po’ più di volume per essere ancora più convincente. Il timbro e il piacevole vibrato sono messi in evidenza anche nel bolero dell’ultimo atto («Merci, jeunes amies») che in questo allestimento perde qualsiasi connotato di felicità per sottostare alla lettura della regista argentina Valentina Carrasco che della vicenda sottolinea la violenza del potere sui deboli, soprattutto le donne.

L’ambientazione passa dal 1282 della dominazione francese ai giorni nostri, con i vestiti moderni di Luis F. Carvalho e l’efficace gioco luci di Peter van Praet. Non convincenti le scenografie di Richard Peduzzi, consistenti in grigi volumi semoventi che non evocano facciate di palazzi palermitani. Grigia è anche la regia della Carrasco che insiste anche troppo sul tema della violenza sulle donne e sulla presenza del fantasma della madre di Henri e di altre figure femminili non meglio identificate. Alla regista riesce invece di risolvere il problema del balletto, immancabile al terzo atto in un grand-opéra. Momento di distrazione dal dramma, spesso si tratta di un divertissement del tutto avulso dalla trama dell’opera. Qui Verdi e i librettisti inseriscono i ballabili all’interno della festa nel palazzo del governatore, ma nella lettura attuale della Carrasco un balletto classico non avrebbe avuto senso. E sarebbe stato anche un peccato privarsi delle bellissime pagine scritte dal compositore. Ecco allora le spose oltraggiate del primo atto che ritornano e si lavano in scena, scherzando con l’acqua nei secchi, unico momento gioioso nella tragedia della vicenda e che si è collegato al ballo che segue con perfetta logica drammatica.

Questo però non è piaciuto a parte del pubblico che avrebbe preferito un balletto sulle punte e che ha applaudito calorosamente i cantanti ma ha riservato alla regista qualche dissenso.

Alì Baba e i quaranta ladroni

Luigi Cherubini, Alì Babà e i quaranta ladroni

  Qui la versione in italiano

Milan, Teatro alla Scala, 1 September 2018

A not convincing late Cherubini at La Scala

The tenor is in love with the soprano, but the bass, the girl’s father, stands in their way. After countless vicissitudes (including kidnappings, sieges, thefts, concealment and ambushes) the two lovers finally fulfil their dream. Does this sound familiar?

This conventional model, on which many operas are based, is applied by the librettists Mélesville and Eugène Scribe, to the Persian tale Ali Baba and the Forty Thieves. Only a few elements of the original Arabian Nights plot are retained: the treasure cave and the magic phrase “Open Sesame!” to gain access to it…

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La sonnambula

Vincenzo Bellini, La sonnambula

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 13 aprile 2019

Un cast giovane per una Sonnambula vecchia

La stagione al risparmio del Regio ripesca uno spettacolo di vent’anni fa: la messa in scena della Sonnambula di Mauro Avogadro chiudeva la stagione 1998-99 del teatro torinese con Eva Mei, Juan Diego Flórez e Michele Pertusi come interpreti principali. Sul podio c’era Roberto Tolomelli. A 46 anni esatti dall’inaugurazione del Nuovo Regio va in scena di nuovo La somnambule ou L’arrivée d’un nouveau seigneur di Eugène Scribe riscritta da Felice Romani e intonata da Vincenzo Bellini.

Non che ci si aspetti tanto nella messa in scena di questa delicata vicenda, ma la scelta di Mauro Avogadro sembra sia stata la rinuncia a qualsiasi presa di posizione. Il suo allestimento scivola via senza lasciare traccia e non si scorge neppure quanto dichiarato dal regista: «Amina soffre di una patologia, ha una mente alterata, ha dei disturbi relazionali: insomma, non è una persona equilibrata».  Il pathos è lasciato fuori del teatro e Amina mette in apprensione i valligiani perché passeggia sul prato (!), mentre il suo ritrovamento nel letto del conte non ha nulla di teatrale. Peccato perché lo spettacolo non era iniziato male, con l’arrivo della carrozza del conte – va be’ i cavalli di cui «odesi il calpestio» non ci sono e la carrozza è tirata a mano – ma poi sembra che il regista si sia preso una vacanza. Non aiuta neppure la scenografia, bruttoccia, di Giacomo Andrico, quasi una scena fissa che si adatta a rappresentare la piazza del villaggio tirolese, la stanza del conte (che qui ha l’intimità di una stazione ferroviaria) e l’«ombrosa valletta».

Del giovane secondo cast già si sapeva della tecnica eccellente di Hasmik Torosyan, tra le altre cose Fiorilla nel Turco a Bologna, che ha perso un po’ del tono metallico nel timbro per acquistare in dolcezza di emissione. Se non struggente come l’inarrivabile Dessay, la sua resa di «Ah! non credea mirarti» è una lezione di fraseggio e fiati. Una sorpresa invece l’Elvino di Pietro Adaini che stupisce fin da «Prendi: l’anel ti dono» per espressività e bellezza del timbro, chiaro e luminoso ma non pungente e dal perfetto uso dei piani sonori sostenuti da un volume di voce che quando sarà ancora meglio controllato, soprattutto negli acuti, renderà questo giovane tenore un degno concorrente di Juan Diego Flórez. Ottimo anche il conte Rodolfo di Riccardo Fassi, che si era fatto notare nel Pirata scaligero, colore scuro al punto giusto e presenza elegante. Non sfigura neppure Ashley Milanese, una Lisa cui è riservata una breve ma impervia aria di agilità ben risolte.

Alla guida dell’orchestra del teatro Renato Balsadonna non colpisce per la lettura trascinante, ma per il lavoro di cesello su una partitura particolarmente trasparente di cui mette in luce la raffinata semplicità ed efficacia strumentale. Ottimo il lavoro del coro spesso presente in scena in modo quasi importuno, ben guidato musicalmente da Andrea Secchi ma lasciato un po’ allo sbaraglio dal regista.

Buona la risposta del pubblico, formato da una parte di giovani che hanno scelto l’opera per passare il sabato sera. Ma sembra che il pubblico torinese si stia “americanizzando” in quanto scoppia a ridere quando legge nei sopratitoli «Lisa mendace anch’essa! | Rea dell’istesso errore!». Mah…

 

La Juive

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Fromental Halévy, La Juive

★★★★☆

Anversa, Koninklijke Vlaamse Opera, 21 marzo 2019

(video streaming)

«O che gioia, o che piacer, | gl’infedeli, i traditor | dalle fiamme arsi veder!» (1)

In un libretto in cui “Dieu” viene invocato 166 volte, non è un’esagerazione minacciare di morte un ebreo che lavora di domenica, come avviene nella scena prima de La Juive (L’ebrea): «Quelle main sacrilège en ce jour de repos | ose ainsi s’occuper de profanes travaux? […] Juif!… Ton audace impie | mérite le trépas! […] La mort au sacrilège!», ma l’odio e l’intolleranza non sono solo dei tempi de La Juive (1835).

Ancora oggi, A.D. 2019, nel mondo c’è chi rischia la vita anche per meno negli scontri tra religioni, e così il grand opéra di Halévy assume i connotati della contemporaneità, come già scriveva Michele Girardi nel programma di sala della produzione veneziana del 2005: «La Juive offre un contributo di portata notevole a uno dei temi più attuali, oggigiorno: il conflitto interreligioso, asperrimo, qui incarnato da cristiani e israeliti e rappresentato per metonimia da un padre putativo, Éléazar, e un padre vero, de Brogni». Il sanguinoso passato di odii e persecuzioni inflitti e subiti nel nome di un dio rivive nella messa in scena del regista Peter Konwitschny che ambienta la vicenda ai nostri giorni. La produzione era nata nel 2015 a Gand, ma qui ad Anversa, dove la produzione viene ora ripresa, sembra più a casa sua, essendo la città sulla Schelda centro della lavorazione dei diamanti con una folta comunità ebrea ed Éléazar un tagliatore di pietre preziose.

Non c’è nessun simbolo religioso nei costumi di Johannes Leiacker, che firma anche la scenografia: neanche gli abiti differenziano le due parti contrapposte, tutti sono vestiti di nero. Solo la tinta delle mani distingue i cristiani (azzurra) dagli ebrei (gialla). Eliminata tutta la paccottiglia del grand opéra, nella lettura del regista tedesco, figlio del grande direttore wagneriano Franz Konwitschny, resta solo il dramma umano che si staglia sullo sfondo dell’intolleranza e del fanatismo religioso. Di concerto con Antonino Fogliani la partitura subisce drastici tagli e il tono spesso sfiora il grottesco nei momenti meno credibili del libretto, con risa sarcastiche e l’uso frequente della platea da parte dei cantanti per portare con maggior immediatezza tra il pubblico le istanze su cui si basa il lavoro, come quando Éléazar canta tra gli spettatori la sua aria «Rachel, quand du Seigneur» quasi chiedendone la testimonianza. Momenti quasi umoristici si hanno invece quando la principessa Eudoxie arriva ubriaca e armata di revolver nella scena pasquale o ancora nel confronto fra le due donne sul letto in cui si cela Léopold, l’oggetto della loro rivalità. O ancora lo stesso  Léopold che si nasconde sotto il tavolo come in una pochade o la scena finale con Rachel e il padre vestiti di bianco per il matrimonio. Ma non mancano momenti altamente drammatici o pregnanti, come quando la pricipessa e Rachel si lavano le mani nel secchiello della prigione e si scoprono uguali nel voler salvare la vita dell’amato Léopold, o quando per scherno i due personaggi ebrei vengono travestiti a forza da cardinale uno e da Babbo Natale l’altra e il coro in platea distribuisce bandierine azzurre tra il pubblico per renderlo complice, e noi con esso, della loro umiliazione. Ma nessuno si salva nella lettura di Konwitschny: nel finale del terzo atto tutti quanti, a prescindere dal colore delle mani, costruiscono a catena giubbotti esplosivi. Uno di questi è indossato da Rachel come una terrorista suicida quando scopre il tradimento di Léopold. La scenografia astratta è formata da scaffalature di metallo che alloggiano tubi fluorescenti per formare la scalinata del quadrivio di Costanza, l’appartamento di Eudoxie, la prigione di Rachel. Un grande rosone di vetro connota la cristianità, una lunga tavola la pasqua ebraica in casa di Éléazar.

Per quanto riguarda le vocalità de La Juive ecco quanto ebbe a scrivere Luca Geronutti: «è difficile, oggigiorno, immaginare come il ruolo di Éléazar, personaggio dal fraseggio ampio, vibrante, sia stato scritto su misura per Adolphe Nourrit, tenore di grazia, dall’esteso registro acuto, Arnoldo nel Guglielmo Tell di Rossini, e Robert nel Robert le diable di Meyerbeer. Nella Juive la tessitura è per tenore centrale; c’è qualche scatto verso la zona acuta, ma è di poco conto rispetto alle opere francesi di Rossini. In seguito Éléazar divenne monopolio di tenori dall’impasto scuro e dai centri corposi». Qui Roy Cornelius Smith delinea il personaggio con molta intelligenza e con una vocalità che si adatta ai momenti più drammatici dove l’acuto svetta luminoso o più intimi, e allora è un bel gioco di mezze voci.

Ancora Geronutti: «Il ruolo di Rachel fu scritto per Marie Cornélie Falcon (allieva di Nourrit padre al conservatorio di Parigi), soprano ‘comodo’ o meglio mezzosoprano acuto, dotata di voce ampia, dai centri bruniti e dal luminoso registro acuto, e di spiccatissime doti drammatiche; a disagio nel canto di agilità perché tecnicamente non eccelsa. Dopo solo cinque anni di gloriosa carriera rimase afona e fu costretta a ritirarsi. […] Nonostante questo, tale fu l’impatto della voce presso il pubblico che il nome Falcon passò a qualificare una precisa tipologia sopranile. La sua voce ha segnato un’epoca, e ha generato numerose imitatrici». Corinne Winters, al debutto nel ruolo, non sempre dimostra l’ampiezza vocale richiesta dal personaggio, ma la sua performance è comunque degna di rispetto.

Più rischiosa la parte della principessa Eudoxie, affrontata con coraggio e solo qualche difficoltà nelle agilità da Nicole Chevalier, mentre autorevole ma talora sul filo dell’intonazione e di una dizione tutt’altro che perfetta il cardinale Brogni di Riccardo Zanellato. Enea Scala è un Léopold praticamente perfetto: voce ben proiettata, un registro acuto sostenuto con facilità, una presenza scenica che connota con ironia le ambiguità del personaggio. Antonino Fogliani mette in luce le singolarità della partitura e riesce a concertare con esattezza i cantanti sparsi nei vari punti dellal sala. Ottimo il coro del teatro.

(1) Il coro con cui inizia il quinto atto nella traduzione di Marco Marcelliano Marcello dei versi di Scribe: «Quel plaisir! Quelle joie! | Contre eux que l’on déploie | et le fer et le feu!»

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Les Huguenots

Giacomo Meyerbeer, Les Huguenots

★★★☆☆

Parigi, Opéra Bastille, 4 ottobre 2018

(video streaming)

Meyerbeer annacquato

30 mila: questo il bilancio, secondo le fonti storiografiche moderne, dei protestanti uccisi dai cattolici a partire dalle tre del mattino del 24 agosto 1572 in quella che verrà chiamata la notte di san Bartolomeo, uno dei più sanguinosi massacri religiosi di tutti i tempi.

61: tante le volte che la parola dieu è ripetuta nel libretto di Scribe e Déchamps liberamente tratto da La Chronique du règne de Charles IX di Prosper Mérimée.

82: gli anni da cui Les Huguenots mancavano dall’Opéra di Parigi.

L’atmosfera di calore opprimente, tensione, sudore e sangue che si respira ne La reine Margot di Patrice Chéreau è del tutto assente nell’undicesima opera di Meyerbeer messa in scena nel 1836: i personaggi romanzati e le inverosimiglianze della vicenda diminuiscono l’importanza storica del lavoro, ma non gli impediscono di essere stato il maggior successo del compositore e il modello dell’opera francese del XIX secolo che ha influenzato i più grandi compositori, Verdi e Wagner in primis.

Archetipo del grand opéra, Les Huguenots è la commistione tra la grande Storia e la storia privata di personaggi angustiati in amore, ma nessuna delle due componenti è soddisfacentemente rappresentata, essendo la vicenda del massacro in una scala troppo grande per essere trattata in musica (perlomeno questa musica) ed essendo la storia dei due amanti sfortunati ben poco coinvolgente. Resta il grandissimo mestiere dell’autore che rende quest’opera piena di pagine magistralmente scritte.

Dopo la trionfale prima parigina con un cast di eccezione – Dorus-Gras, Nourrit, Falcon, Levasseur – il lavoro raggiunse un ragguardevole numero di rappresentazioni, 1126 nella sola Opéra di Parigi nei primi cento anni. Grande successo lo incontrò anche all’estero in traduzioni più o meno fedeli al libretto originale in lingue come il tedesco (nel 1837 a Colonia come Margaretha von Navarra; nel 1838 a Monaco, Die Anglikaner und Puritaner; nel 1839 a Vienna, Die Gibellinen in Pisa) o l’italiano (a Firenze nel 1841, Gli Anglicani; a San Pietroburgo nel 1850, I Guelfi e I Ghibellini). Il successo dell’opera di Meyerbeer è testimoniato anche dalle 200 trascrizioni e parafrasi composte da Adolphe Adam, Carl Czerny, Franz Liszt, Joseph Joachim Raff, Johann Strauss padre, Sigismund Thalberg e Ralph Vaughan Williams tra i tanti.

La complessità della messa in scena e la presenza di sette parti vocali temibili hanno spesso scoraggiato i teatri dal metterlo in cartellone, e infatti è dal 1936 che Les Huguenots non vengono rappresentati all’Opéra National, ma recentemente non sono mancate interessanti produzioni come quella di Minkowski/Py a Bruxelles nel 2011.

Al suo debutto parigino, dopo aver già concertato l’opera a Berlino, Michele Mariotti non si lascia troppo convincere da una partitura che ha aspetti di grande modernità: la sua è una lettura sobria, più elegante che teatrale, con i vari quadri che appaiono slegati e non momenti di un continuum drammatico. Non molto opportuni risultano poi i tagli. Il cast vocale si avvale della voce splendente e fresca di Lisette Oropesa, che ha sostituito l’indisposta Diana Damrau: una Margherita di Valois che illumina la scena ogni volta che appare e fa del secondo atto il più esaltante di questo allestimento. Come sempre intensa Ermonela Jaho ma non sempre a suo agio nel ruolo Falcon di Valentine. Brillante e sicura Karine Deshaye (Urbain) privata purtroppo dell’aria del secondo atto. Tra gli uomini svetta il bel timbro di Nicolas Testé, un Marcel forse fin troppo elegante; incertezze di intonazione caratterizzano la prestazione di Paul Gay (conte di Saint-Bris), mentre Florian Sempey infonde vivacità (il suo Figaro è sempre dietro l’angolo) all’ambiguo ruolo del conte di Nevers. Efficaci i ruoli minori dove si distingue il colore luminoso di Cyril Dubois (Tavannes) e quello scuro di Patrick Bolleire (Thoré e Maurever). Secondo rimpiazzo della produzione è stato quello di Raoul, originariamente affidato a Bryan Hymel. Ingaggiato all’ultimo momento, il tenore Yosep Kang ha fatto del suo meglio, ma il personaggio non ne esce efficacemente caratterizzato pur nella generosità vocale e nel timbro piacevole del cantante coreano.

L’allestimento di Andreas Kriegenburg non ha nulla di quanto ci si aspetterebbe da un lavoro di Meyerbeer in cui l’efficacia drammaturgica ha la meglio su verosimiglianza e sottigliezze psicologiche, ma possiede una grandiosità e una tensione che ne Les Huguenots tocca il parossismo nel finale. Partendo dal messaggio che il fanatismo e l’intolleranza religiosa non hanno né tempo né luogo privilegiato – ambientato nel futuro, precisamente nel 2063, e in un luogo imprecisato secondo le didascalie proiettate prima dell’ouverture – la trasposizione temporale è inefficace: i personaggi sono talmente storicizzati che è difficile non pensare all’epoca in cui sono vissuti. I costumi di Tanja Hofmann, di per sé belli, rappresentano una versione stilizzata e futuristica della Francia del XVI secolo con improbabili gorgiere, tessuti trapuntati e spade che sembrano katane giapponesi maldestramente impugnate. La scenografia di Harald B. Thor si compone di una struttura a tre livelli collegata da scale per il primo atto (“scaffalature Ikea” sono state velenosamente definite dalla critica francese!) che viene riciclata per l’ultimo, e da ambienti parimenti stilizzati e scorrevoli per gli altri atti. Ciononostante, la scena è improntata ad una certa staticità anche a causa di una regia attoriale non sempre efficace e a scelte che invece di essere drammatiche finiscono per sfiorare il ridicolo, come quella della benedizione dei pugnali. Il tutto non aiuta a rendere appassionanti le quattro ore di musica.