L’elisir d’amore

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, L’elisir d’amore

★★★☆☆

Bergamo, Teatro Donizetti, 19 novembre 2021

bandiera francese.jpg Ici la version française

A Bergamo festosa riapertura del Teatro Donizetti, malgrado la regia

Quest’anno il Festival Donizetti di Bergamo, giunto alla sua settima edizione, non porta alla luce nessuna gemma nascosta dello sterminato catalogo dell’illustre concittadino. Il 2021 non prevede infatti alcun bicentenario di una sua opera, l’ultimo era stato il 2019 con Pietro il Grande che era stato presentato a Venezia nel 1819. Il futuro appuntamento dovrebbe quindi essere l’anno prossimo con Zoraide di Granata, l’opera seria andata in scena a Roma nel gennaio 1822.

È dunque un’occasione di riflessione quella offerta dalla rassegna di Bergamo nell’anno in cui si riaprono i teatri – anche se il Festival Donizetti in verità non si è fermato neanche nel 2020, con ben tre produzioni realizzate senza pubblico e trasmesse in diretta streaming: Marino Faliero, Belisario e Le nozze in villa. Ecco dunque due capolavori assoluti della maturità del compositore quali il melodramma giocoso L’elisir d’amore del 1832 e l’opéra-comique La fille du régiment del 1840. Viene parimenti messo in scena anche un lavoro del suo maestro Simone Mayr, Medea in Corinto, melodramma tragico del 1813.

Ma il festival quest’anno ha avuto un prologo con un inedito operashow intitolato C’erano una volta due bergamaschi presentato al Teatro Sociale giovedì 18 novembre. Con la drammaturgia di Alberto Mattioli, il piacevole spettacolo ha portato in scena il grande basso Alex Esposito e gli allievi della Bottega Donizetti, sei promettenti voci che hanno avuto la fortuna di essere istruiti sull’arte vocale e scenica da Esposito stesso, Francesco Micheli, Damiano Michieletto e altri illustri protagonisti del mondo teatrale italiano. Sul palcoscenico sono state ripercorse le vite di due grandi bergamaschi, Donizetti ed Esposito appunto, accomunati dalla passione della musica, dal registro di basso della voce, dalla necessità di cercare al di fuori della loro città il compimento delle loro aspettative, dal dramma del colera per il compositore ottoentesco e da quello del Covid per il cantante di oggi. I brani musicali scelti – Donizetti of course, ma anche Offenbach, Rossini, Mozart, Boito e Berlioz – hanno permesso di mettere in luce la riconosciuta eccellenza del basso bergamasco e le qualità dei giovani interpreti. Una bella occasione per «ripensare il mestiere, i suoi trucchi ma anche la sua etica. Per fare l’opera come la vogliamo, un teatro del presente per il presente, affacciato sul futuro», come dice Francesco Micheli, infaticabile e coinvolgente direttore artistico del Festival. E su questo stesso tema si svolge il convegno di Opera Europa, intitolato quest’anno Elixir of life, che riunisce in questi stessi giorni a Bergamo gli operatori internazionali di 215 fra teatri e festival provenienti da 43 paesi.

C’erano una volta due bergamaschi, Teatro Sociale, Bergamo, 18 novembre 2018

Ma è con il vero L’elisir d’amore che inizia il festival e viene contemporaneamente inaugurato il Teatro Donizetti dopo rilevanti lavori di ristrutturazione. Prima dello spettacolo una banda che intona le musiche dell’opera attira i passanti davanti all’edificio per una rappresentazione del teatro di burattini di Daniele Cortesi, che rivedremo poi sul palcoscenico, per presentare “a grandi e piccini” le vicende di Nemorino & Co. Ed è questo coinvolgimento della città un altro dei non pochi pregi di questo festival che trasforma Bergamo in una Salzburg pedemontana pullulante di stranieri che anche quest’anno, malgrado la pandemia, costituiscono lo zoccolo duro del pubblico della manifestazione. L’aria di festa all’esterno si respira anche dentro il teatro nei nuovi locali e nella sala tirata a lucido: ai presenti vengono distribuite delle bandierine con il testo del ritornello del coro con cui l’opera riprende dopo l’intervallo e tutto il pubblico viene così coinvolto nella vicenda intonando allegramente «Cantiamo, facciam brindisi a sposi così amabili». E non se la cava neanche male, il pubblico, perché invece il coro del Donizetti Opera qualche sbandamento durante la serata lo avrà.

E una vera festa è soprattutto la musica di questo Elisir, che presenta anche pagine mai ascoltate prima, come la cabaletta di Adina che conclude la scena ottava del secondo atto dopo «Prendi; per me sei libero»: passando dal Fa al La bem la musica ma anche le parole cambiano («Ah fu con te verace, | se presti fede al cor» diventa «Ah l’eccesso del contento | non si dice con l’accento») per terminare con un’esibizione di agilità e raffica di acuti che originariamente dovevano mettere in evidenza le qualità vocali della primadonna in una delle riprese del lavoro, forse la Fanny Tacchinardi Persiani per quella parigina del 1839. Il direttore musicale Riccardo Frizza concerta l’orchestra Gli Originali su strumenti antichi senza apportare tagli alla partitura – una pratica virtuosa che non dovrebbe essere riservata soltanto ai festival quella di ripulire le esecuzioni dagli interventi spuri di una malintesa tradizione – e con un sound particolare, più “rustico”, dato anche dal diapason più basso adottato, circa un semitono sotto. Se ne avvantaggia il colore della strumentazione e la vivezza delle linee melodiche, anche se su strumenti originali l’intonazione diventa più precaria, soprattutto per quelli a fiato. Nessun problema invece per i due preziosissimi cimeli della collezione di Villa Medici Giulini utilizzati per questa esecuzione e posizionati nei due palchi di proscenio: in quello di destra un fortepiano costruito da Gaetano Scappa nel 1796, in quello di sinistra un’arpa Érard costruita su un modello del 1839. Il ricupero di una prassi esecutiva storica «può riattivare, per mezzo di una interruzione delle abitudini d’ascolto, un’attenzione nuova nei confronto dell’opera […] interrompendo il rapporto passivo che si instaura nella ripetizione sempre uguale di una tradizione interpretativa» scrive Livio Aragona sul programma di sala ed è quello che riesce magistralemente a Riccardo Frizza, che di questo repertorio è affermato interprete. La scelta dei tempi e l’equilibrio sonoro tra buca dell’orchestra e palcoscenico sono perfetti e se ne avvantaggiano i cantanti, tutti di grande livello. Javier Camarena fornisce un’interpretazione senza pecche dove fraseggio e mezze voci sono espressi per ben delineare il personaggio di Nemorino, malgrado il ruolo da scemo del villaggio che gli viene imposto dal regista, il quale carica di inutili gag – goliardiche quelle del duetto con Adina nel primo atto – la sua recitazione. Elegantemente stilizzato è il Belcore di Florian Sempey dove si ammirano la sicura vocalità e la felice presenza scenica del baritono francese. Roberto Frontali forse può deludere chi si aspettava un Dulcamara fortemente declinato sul comico: il baritono romano non è certo un buffo, ma la sua interpretazione, senza spingere sul pedale del farsesco, è ben caratterizzata ed evidenzia le particolarità vocali di un ruolo liberato dalle caccole di tradizione. E infine la Adina di Caterina Sala, giovane soprano comasco dalla voce di grande proiezione, precisa tecnica vocale e sicurezza interpretativa, anche se gli acuti hanno un timbro un po’ perforante. Impavida nei virtuosismi della sua “nuova” cabaletta ha scatenato l’entusiasmo del pubblico che ha tributato agli interpreti della parte musicale massicce ovazioni.

La scenografia di Federica Parolini fa di questo Elisir una produzione site specific: la sempre presente sagoma della facciata del Teatro Donizetti e la ricostruzione – a dire il vero misera con quei teli dipinti – del quadriportico piacentinano di fronte al teatro ambientano la vicenda in un contesto urbano alieno al tono rurale della storia – «Faresti meglio a recarti in città presso tuo zio» dice a un certo punto Adina a Nemorino – e al carattere naïf dei personaggi. Per lo meno questa volta la regia di Frederic Wake-Walker non ha fatto peggio di quanto aveva fatto alla Scala con Le nozze di Figaro e l’Ariadne auf Naxos, ma un giorno o l’altro il regista scozzese dovrà imparare a far muovere i personaggi e il coro. E magari avere anche qualche idea registica valida.