Les Huguenots

 

Giacomo Meyerbeer, Les Huguenots

★★★★☆

Bruxelles, Théâtre Royal de la Monnaie, 19 giugno 2011

(registrazione video)

La modernità dell’opera di Meyerbeer alla prova dei tempi

La narrazione di una vicenda intima intrecciata con quella pubblica e politica è uno specifico del dramma teatrale: lo fu per Romeo and Juliet di Shakespeare, lo è per la stragrande maggioranza dei melodrammi dell’Ottocento e del grand-opéra in particolare. Come Les Huguenots che Giacomo Meyerbeer presentò a Parigi nel 1836 con grande successo tanto che nella sola Opéra di Parigi il lavoro arriverà nel 1906 alla 1000 esima rappresentazione.

Un po’ meno frequente nel XX secolo a causa della grandiosità della scenografia, sta ora riprendendo i favori dei teatri grazie a registi che non puntano tutto sulla macchinosità della messa in scena. Come fa qui alla Monnaie Oliver Py che monta uno spettacolo inconfondibilmente “suo”: predominio dei colori scuri, elementi mobili nella scenografia di Pierre-André Weitz, costumi che mescolano la contemporaneaità e il Rinascimento, nudità e deliri religiosi. Ne risulta uno spettacolo di straordinaria potenza visiva, soprattutto in certi quadri come la benedizione dei pugnali o il finale. L’idea forte è il contrasto tra le religioni e il loro immischiarsi nella guerra: i crocefissi che diventano pugnali, il fucile sollevato in alto dal vescovo. Le guerre di religione sono un soggetto sempre attuale e così Les Huguenots hanno qualcosa da dire anche alla nostra contemporaneaità. Py e Weitz coniugano modernamente la sontuosità e la macchinosità dell’epoca con effetti di luce impressionanti che con le strutture mobili che richiamano le facciate di palazzi rinascimentali restituite con toni bronzei costruiscono ambienti diversi per ogni quadro con atmosfere diverse ma unite da una visione fantasmatica. Dopo un primo atto festaiolo, il secondo è più sensuale, con un’immensa luna che illumina la bianca figura di Marguerite. Ai limiti dell’erotismo la scena di Chenonceau con l’acqua e il bagno delle signore e il focoso incontro di Raoul con la regina. La scena del giuramento, invece, abbandona questa tranquilla bellezza per l’atmosfera più rigida di una sala vuota. La grande piazza del terzo atto è una strada a gradoni, che permette di collocare i cantanti e il coro in uno spazio molto efficace. Il quarto atto diventa più sobrio, il palcoscenico si evolve da una piccola stanza fino al grande vuoto finale dove la tela sullo sfondo sembra essere l’abisso in cui si getteranno i due giovani amanti, Raoul e Valentine. Nel quinto atto la scena dell’Hôtel de Nesle, che sembra essere già stato attaccato dai cattolici, è molto scarna. La scena della chiesa e quella finale si fondono in un quadro molto forte in cui gli ugonotti vengono schiacciati dai cattolici che li sovrastano.

La lettura di Marc Minkowski alla testa dell’orchestra de la Monnaie si basa sulla nuova edizione critica approntata da Ricordi che permette di godere di una partitura pressoché completa e ci fa scoprire pagine inedite pur con qualche rinuncia a passaggi spesso comunque trascurati nelle esecuzioni. La musica è resa in tutta la sua ricchezza senza però troppa magniloquenza, ma con una pulsazione che dà tensione a una scrittura raffinata, con peculiarità strumentali, quali gli assoli della viola d’amore o del clarinetto basso, giustamente evidenziati. Minkowsli riesce a dare vita anche alle pagine di balletto che lardellano il grand-opéra.

Tra gli interpreti della storica prima vi furono due cantanti che lasceranno un marchio nella storia del canto lirico, Adolphe Nourrit e Marie-Cornélie Falcon, rispettivamente Raoul de Nangis e Valentine. Al primo è legata una tecnica vocale che poteva sostenere tessiture acutissime e un’ampia estensione (due ottave e mezza, da sol1 a re4) grazie all’utilizzo del falsettone. Un haute-contre, dunque, ma con la cantabilità italiana che piacque tanto a Rossini che ne fece uno dei suoi interpreti preferiti. Alla seconda si deve il fatto di aver portato in scena una voce che era la variante di un soprano drammatico con estensione ai suoni acuti (fino al si4 ) e buona tenuta di quelli centrali e gravi, fino al sol2. Un modo di cantare che convinse  Wagner a scrivere tre ruoli per la tessitura centrale di un soprano come la Falcon: Ortrud nel Lohengrin, Venus nel Tannhäuser e Kundry nel Parsifal. In questa produzione Raoul è Eric Cutler, voce dal bel timbro luminoso e perfettamente a suo agio nell’impervia tessitura. La sua è una prestazione di eccellente livello appena frenata da una presenza scenica non delle più efficaci. Valentine qui è Mireille Delunsch, un ruolo particolarmente esigente sia dal punto vista vocale che drammatico e il soprano s’immerge totalmente nella parte rivelandone i lati più reconditi, più appassionati e fieri e con un registro acuto affrontato e risolto con grande sicurezza ed espressività.

Altro nome nome mitico della prima produzione fu quello del basso Nicolas Levasseur come Marcel, soldato ugonotto e servitore di Raoul, parte affidata qui a Jérôme Varnier dalla intonazione non sempre impeccabile, molto meglio il Comte de Nevers di Jean-François Lapointe. Philippe Rouillon è un autorevole Comte de Saint-Bris mentre Marlis Petersen è una magnifica Marguerite de Valois, ma la sorpresa della serata è l’Urbain di Yulia Ležneva dalla presenza scintillante. Ottimi gli altri interpreti così come il coro del teatro.

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