La tempesta

 

Fromental Halévy, La tempesta

Wexford, National Opera House, 3 novembre 2022

★★★☆☆

(video streaming)

Non tutte le trouvailles si rivelano dei tesori nascosti

Talora quello che si riscopre ha un indubbio interesse per capire i gusti di un’epoca o arricchire la conoscenza di un compositore, ma niente più.

È questo il caso de La tempesta, opera che Fromental Halévy scrisse 15 anni dopo La Juive e che, terminata la prima serie di rappresentazioni nel giugno 1850, non fu mai più riproposta. Questa ripresa al festival di Wexford si può considerare la prima esecuzione nella stesura originale poiché a Londra la musica prevista per Ariele fu sostituita da ballabili così da permettere a Carlotta Grisi di esibire le sue qualità di danzatrice nella parte dello spirito dell’aria.

Trentesima delle quaranta opere composte da Fromental Halévy, La tempesta è su libretto di Eugène Scribe, libero adattamento dall’omonimo lavoro di Shakespeare, tradotto in italiano da Pietro Giannone. In sintesi, «due francesi riscrivono un’opera inglese del XVI secolo come un’opera italiana per un pubblico inglese» (Christopher Hendley, “Fromental Halévy’s La Tempesta: a study in the negotiation of cultural differences”). I giornali dell’epoca spiegarono il successo dell’operazione come il risultato di un adattamento del compositore alle aspettative del pubblico operistico di Londra e all’eccellenza del cast, che comprendeva il basso Luigi Lablache come Calibano, il baritono Filippo Coletti come Prospero e appunto Carlotta Grisi come Ariele. Mentre nel lavoro di Shakespeare l’unico personaggio femminile della vicenda è Miranda, nel libretto di Scribe ce ne sono altri due: Ariele e Sicorace, la madre di Calibano che nell’originale è appena morta. Per adeguarsi al modello operistico ottocentesco, ecco quindi tre diversi ruoli femminili nettamente contrastanti per carattere e registro vocale: due soprani (Miranda e Ariele) e un mezzosoprano (Sicorace).

Inizialmente Scribe segue in gran parte l’essenziale della trama di Shakespeare: dopo la tempesta evocata da Ariele, che fa naufragare gli usurpatori napoletani, Prospero parla a Miranda dell’isola – anche se tralascia gran parte della storia del suo ducato – e chiarisce al pubblico che sta tramando affinché sua figlia sposi il figlio di Alonso, Fernando, per riconquistare il suo ducato. Durante il lungo materiale espositivo, Calibano viene messo a servizio trasportando tronchi (in questa produzione mattoni). A questo punto, l’opera prende una brusca sterzata da Shakespeare: la madre di Calibano, a cui Prospero ha rubato l’isola, è viva e vegeta e la prigionia in una roccia non impedisce la sua stregoneria perché riesce a far avere al figlio alcuni petali magici che concedono tre desideri al loro possessore – un utile tropo operistico – incaricandolo di usare le sue richieste per aiutarla a fuggire dalla prigionia, liberarsi dalla schiavitù e riconquistare l’isola. Ma Calibano invece non l’ascolta, ammalia il folletto e lo imprigiona in un albero e sfrutta un altro desiderio per perseguire la sua passione per Miranda. Scribe fa del tentativo di stupro della figlia di Prospero da parte del selvaggio, che è parte del retroscena in Shakespeare, il fulcro della trama.

Segue un assemblaggio di scene piuttosto scollegate tra loro. Stefano fa ubriacare Calibano con il rum, un’ottima occasione per un brindisi e un coro, mentre una furiosa Sicorace interviene di nuovo convincendo Miranda che Fernando è un falso amante e che lei deve ucciderlo, altrimenti la vita di suo padre sarà in pericolo. Ma, mentre Miranda sta per conficcare il pugnale nel petto di Fernando addormentato, lui pronuncia il suo nome e lei esita. Prospero appare davanti ai napoletani e racconta che la morte di Fernando è dovuta alla loro avidità e al loro tradimento. La loro angoscia è il compimento della sua vendetta. Alla fine comunque, si ottiene una rapida riconciliazione di tutte le parti.

Non c’è quindi alcun accenno a un contesto coloniale; non c’è l’idealismo utopico di Gonzalo; non ci si interroga sui difetti, le motivazioni e il controllo oppressivo di Prospero su coloro che vivono sull’isola; non ci sono trame parallele di usurpazione e non c’è quasi nessuna magia, solo la stregoneria di Sicorace. Si tratta di un libretto monodimensionale con al centro la passione e la ferocia di Calibano piuttosto che il desiderio di vendetta di Prospero. I personaggi non hanno rilievo e a volte manca la chiarezza nello svolgersi delle scene.

Ci vorrebbe dunque un regista che desse un senso a tutto questo con una forte coesione drammatica, invece Roberto Catalano opta per l’astrazione e una totale assenza di ambiguità morale con un design in bianco e nero – il bene e il male – senza sfumature, sia nei costumi di Ilaria Ariemme sia nella scenografia di Emanuele Sinisi che costruisce una facciata con uno squarcio che i mattoni portati in scena e l’impastatrice dovrebbero chiudere, ma ciò non avviene. Libri, specchi, lanterne, letti, barchette di carta hanno una presenza più simbolica che drammaturgica e la parola NOSTALGIA incisa sulla facciata non si capisce a che cosa si riferisca.

Musicalmente La tempesta sembra quasi una parodia dell’opera italiana, con arie, cabalette, gorgheggi, concertati e strette totalmente avulse da una convincente drammaturgia. Un Donizetti formato export che è quello che il pubblico dello Haymarket voleva sentire e che alle nostre orecchie risulta puttosto falso, nonostante l’appassionata concertazione di Francesco Cilluffo che della riproposizione di titoli desueti ha fatto la sua missione. Dopo un inizio di singolare colore cupo che prometterebbe bene, la partitura vira verso stilemi e forme che risultano già in ritardo con l’opera italiana e non – il 1850 è l’anno del Lohengrin, Donizetti aveva terminato la sua carriera da sette anni, Verdi un anno dopo col Rigoletto scriverà un’opera in anticipo sui suoi tempi e Meyerbeer l’anno prima con Le prophète consolidava il modello grand-opéra.

Nel cast si fanno notare il Calibano del basso georgiano Giorgi Manoshvili, uscito dalla Accademia Rossiniana di Pesaro, l’Ariele del soprano irlandese Jade Phoenix e il Prospero del baritono russo Nikolaij Zemlianskikh. Il soprano israeliano Hila Baggio ha voce un po’ stridula ma sicura tecnica e agilità ferme anche se è poco convincente come Miranda. Di Giulio Pelligra (Fernando) viene annunciato che canterà nonostante la non perfetta disposizione fisica, e infatti si sente. Singolare il ruolo di Sicorace: la voce della cantante Emma Jüngling proviene da due altoparlanti che scendono un po’ minacciosamente dall’alto. Qualche piccolo sbandamento nel coro non ne pregiudica il rendimento, che risulta vivace e pronto.

Essendo lo spettacolo coprodotto con il teatro Coccia ci sarà la possibilità di vederlo a Novara in futuro.

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