
Foto © Monika Rittershaus
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Francesco Cavalli, L’Eliogabalo
Zurigo, Opernhaus, 7 gennaio 2023
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Eliogabalo: l’anarchia al potere
Un quattordicenne si ritrova a essere imperatore di Roma, «anzi del mondo» come dice Lenia, e assapora la voluttà del potere. Questo avviene nel libretto di autore ignoto de L’Eliogabalo messo in musica da Francesco Cavalli per la stagione veneziana del Carnevale 1668.
Marcus Aurelius Antoninus Augustus, nato come Sestus Varius Avitus Bassianus, fu il primo imperatore romano di origine asiatica: discendente della dinastia dei Severi, alto sacerdote del dio sole (El-Gabal in siriaco e per questo chiamato Heliogabalus o Elagabalus), fu acclamato imperatore e salì al potere a soli quattordici anni nel 218 d.C. in opposizione all’imperatore Macrino. Nei quattro anni del suo regno cercò di imporre il culto solare, ma questa sua politica religiosa, assieme agli eccessi e alle eccentricità della sua corte, portarono a una crescente opposizione nei suoi confronti, che culminò con il suo assassinio da parte di una guardia pretoriana e con l’insediamento del cugino Alessandro Severo. Colpita dalla damnatio memoriæ, la sua dubbia fama fu esagerata in modo ostile dai primi storici cristiani.
La storiografia moderna ha riabilitato in parte la sua figura restituendone un ritratto più articolato nel contrasto fra il conservatorismo romano e la dinamicità del giovane siriano, ma nel 1667, l’anno di composizione dell’opera di Cavalli, l’immagine dell’imperatore era basata sulla Historia Augusta, ricca di pettegolezzi e storie spesso inventate. Così il testo dell’opera non si fa scrupolo di insistere sulla dissolutezza del protagonista definendolo «languido, lascivo, effeminato, libidinoso». Qui il giovane imperatore sembra ben poco interessato alla politica: preferisce indugiare in accoppiamenti assortiti nel genere e nella quantità, arriva a creare un senato tutto femminile per più facilmente abbordare l’amata e si traveste egli stesso da donna. Ma non è colpa sua, è il destino scritto nelle stelle, come dice a Eritea, la prima della lunga serie di donne a cui promette il matrimonio: «il merto d’adorar il tuo bel crine | sì di servaggio m’obbligò le sfere». Eliogabalo stesso in un delirio di onnipotenza esalta e giustifica la sua nequizia: «La fé che non osservo | acquista nome e pompa: | decoro della legge è ch’io la rompa», afferma prima di rivolgersi alla vecchia Lenia chiedendole di «trovar altro piacere». Don Giovanni ante litteram, egli vorrebbe «poter di tutte | far un misto, un transunto, | e goder di mille belle in un sol punto».
Ultima delle ventisette opere rimasteci dell’organista e maestro di cappella ducale a San Marco, L’Eliogabalo non andò mai in scena come previsto per il carnevale 1668 e fu sostituita da un omonimo dramma per musica di Giovanni Antonio Boretti sullo stesso testo rimaneggiato da Aurelio Aureli. Ci sono del tutte ignote le ragioni per cui ciò avvenne. Dopo 300 anni di silenzio il lavoro è stato presentato in occasione dell’inaugurazione del nuovo teatro San Domenico di Crema, la città natale del compositore. Poi nel 2004 c’è stata alla Monnaie di Bruxelles l’edizione critica di Mauro Calcagno condotta sul manoscritto conservato alla Biblioteca Marciana di Venezia. A questo allestimento sono seguite nuove produzioni al Festival di Aspen (agosto 2007), Northington (luglio 2009), Dortmund (ottobre 2011), New York (Gotham Chamber Opera, marzo 2013) e Parigi (Palais Garnier, ottobre 2016).
Questa nuova produzione zurighese viene affidata a Calixto Bieito che qui l’anno scorso aveva messo in scena L’incoronazione di Poppea di Monteverdi, un’altra storia di imperatori romani dissoluti. Il regista spagnolo deve aver avuto presente Héliogabale ou l’Anarchiste couronné, il saggio del 1934 in cui Antonin Artaud aveva affrontato la vita dell’imperatore romano affermando che: «l’intera vita di Eliogabalo è anarchia in azione […] fuoco, gesto, sangue, grido […] Fanatico, un vero re, un ribelle, un folle individualista». Nella lettura di Bieito e nella drammaturgia di Beate Breidenbach la vicenda di questo egocentrico autocrate investe il tema attualissimo dei generi, con un protagonista che dimostra un disinvolto polimorfismo per quanto riguarda la sua sessualità assieme a una paranoica ricerca del piacere. Nella sua follia arriva alla auto-evirazione per raggiungere la totale equivalenza dei generi. Oscillando tra edonismo e crudeltà, il personaggio di Eliogabalo dimostra però tutta la sua insicurezza come persona.
Non potendo aggrapparsi a una narrativa che qui è totalmente priva di logica e tutt’altro che lineare, il regista punta alla creazione di immagini di forte impatto emotivo grazie alla scenografia in bianco e nero disegnata assieme ad Anna-Sofia Kirsch, ai costumi contemporanei di Ingo Krüger e soprattutto al suggestivo gioco luci di Franck Evin. I video di Adria Bieito Camì non sempre sono necessari, ma completano l’aspetto visivo di uno spettacolo ricchissimo in cui vediamo la sala del Senato romano apparire dal fondo, una grande scatola nera scendere lentissimamente dall’alto con Eliogabalo abbracciato a un toro (elemento frequente nelle produzioni dello spagnolo Bieito), una gabbia salire dal basso per rinchiudere il “mostro”, una motocicletta, un divano bianco su cui si consuma prima il tentativo di stupro di Flavia Gemmira e sul quale poi la coppia Zotico ed Eliogabalo, lui evirato e in bianco abito da sposa, guardano romantici film in bianco e nero.
Musicista a 360 gradi, Dmitrij Sinkovskij si esibisce non solo come concertatore ma anche come violinista e cantante: all’inizio imbraccia il suo strumento per eseguire il tema della sinfonia e alla ripresa della seconda delle due parti in cui è diviso lo spettacolo, si rivolge verso il pubblico e in modo inaspettato intona con la sua bella voce controtenorile l’aria “Dammi morte o libertà” dalla Artemisia dello stesso Cavalli, che interpreta con grande intensità. Nel caso di una partitura come questa il lavoro del direttore è tutt’altro che limitato alla concertazione degli strumentisti e dei cantanti: qui è necessaria la ricostruzione di una partitura che è appena abbozzata – sono disponibili solo il basso continuo e le linee del canto – e si deve quindi a chi dirige un grande impegno anche compositivo. Il risultato è in questo caso eccellente: il recitar cantando di Cavalli, che si rapprende nei momenti più intensi in linee melodiche di estrema sensualità e malinconia, viene qui proposto con il suono pieno, ricco e sontuoso de La Scintilla, la compagine specializzata in musica antica su strumenti storici che qui mette in campo dieci violini, tre violoncelli, due viole da gamba, due contrabbassi, due flauti barocchi, quattro cornetti, dulciana, due tromboni, tre percussionisti, arpa, cembalo, tiorba, chitarra e chitarrone.
La fantasiosa ambiguità dei personaggi della vicenda si ritrova nel cast, in cui una vecchia (Lenia) è interpretata da un uomo (il tenore Mark Milhofer sempre attento a non esagerare nel grottesco del travestimento); un ragazzo innamorato (Giuliano Gordio) da una donna (l’apprezzatissima Beth Taylor, soprano); due controtenori di grido si appropriano della parte del titolo (Yuriy Mynenko) e di Alessandro Cesare (David Hansen) ed esprimono la diversità che questo registro vocale può esibire: dell’ucraino si ammirano la sicurezza e la proiezione vocale, dell’australiano la espressività e le suadenti mezze voci. Le donne vittime della furiosa sensualità del despota trovano in Siobhan Stagg (Anicia Eritea), Anna El-Khashem (Flavia Gemmira) e Sophie Junker (Atilia Macrina) interpreti validissime. Il tenore inglese Joel Williams sfoggia una sicura vocalità e una presenza fisica di tutto rispetto come Zotico mentre il basso Daniel Giulianini è fin troppo generoso col suo mezzo vocale e il suo Nerbulone risulta talora sopra le righe. Giulianini è l’unico italiano di un cast che altrimenti non brilla per chiarezza di dizione, e in un’opera di quest’epoca non è questione da poco. Ma per un pubblico come quello di Zurigo non è un problema e l’eccellenza della messa in scena, dei cantanti e dell’orchestra lo convincono a tributare calorosissimi e prolungati applausi. Era l’ultima replica. Non so se questa produzione si potrà rivedere altrove e se è stata registrata.
⸪