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Luigi Nono, La fabbrica illuminata
Arnold Schönberg, Erwartung
Venezia, Teatro La Fenice, 15 settembre 2024
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Intreccio di anniversari e di relazioni umane nel dittico alla Fenice
Il 2024 non è solo il centenario della scomparsa di Giacomo Puccini, sono anche 150 anni dalla nascita di Arnold Schönberg, 100 dalla prima rappresentazione del suo Erwartung ma pure cento anni dalla nascita di Luigi Nono e 60 dalla prima rappresentazione de La fabbrica illuminata. Questo inedito dittico rappresenta il penultimo spettacolo della stagione del Teatro la Fenice di cui anche l’ultimo titolo, La vita è sogno di Gian Francesco Malipiero, sarà dedicato al ‘900.
Lo sciopero dei dipendenti della Fondazione lirico-sinfonico veneziana indetto venerdì scorso ha fatto slittare a domenica 15 settembre la prima rappresentazione de La fabbrica illuminata eseguita in questo stesso teatro in occasione del XXVII Festival Internazionale di Musica Contemporanea proprio il 15 settembre del 1964. Allora costituì il primo brano di un «concerto di musiche strumentali e registrate» comprendente la Sequenza II per arpa di Luciano Berio, la Musica stricta di Andrej Volkonskij e il Pierrot lunaire di Arnold Schönberg diretti da Bruno Maderna.
Dopo Intolleranza 1960, che nel 1961 l’aveva consacrato come nuovo compositore di fama internazionale, Luigi Nono incontra il poeta Giuliano Scabia e pensa a un progetto comune per denunciare le condizioni dei lavoratori nelle fabbriche. Un diario italiano, questo il titolo previsto, sarebbe stato suddiviso in sei scene su testo appunto di Scabia, ma le trattative con la Scala, destinataria del lavoro, sfumano. La RAI nel frattempo chiede al compositore veneziano un lavoro per il Prix Italia del 1964 e così nasce La fabbrica illuminata, da quella che sarebbe dovuta essere la seconda scena di un progetto ormai accantonato. La costruzione del nuovo pezzo parte dalla voce di una cantante, il mezzosoprano Carla Henius, che era già stata protagonista di Intolleranza 1960, elaborata elettronicamente e restituita, assieme ad altri suoni e a un coro, anch’essi registrati su nastro, tramite quattro altoparlanti, realizzando così quel teatro musicale nuovo, antinaturalistico e antimimetico, che era nelle corde di Nono. Il pezzo è però rifiutato dalla RAI per «opportunità politica» – alla Fenice Intolleranza 1960 era stata contestata da frange di neofascisti – e la prima prevista il 12 settembre a Genova, allora sede del Prix Italia, salta. Viene allora prontamente recuperato a Venezia ed eseguito appunto il 15 settembre di quell’anno.
Esattamente sessant’anni dopo, La fabbrica illuminata viene presentata in forma scenica con la regia di Roberto Abbado. La duttile voce di Sarah Maria Sun, che sostituisce l’indisposta Valentina Corò, è l’unico elemento sonoro “reale” sulla scena, essendo le parole da lei pronunciate mescolate con quelle preregistrate, un doppio coro e vari rumori. Si ha quindi un flusso di tre elementi paralleli: il coro su nastro, la voce dal vivo e la voce di Carla Henius su nastro. Diviso in quattro parti – Esposizione operaia, Giro del letto, Tutta la città, Finale – si possono distinguere vari episodi: dopo una prima parte in cui la voce solista si staglia sul coro maschile, segue il momento della “colata”, quando tutte le voci tacciono ed entrano i suoni dell’impianto industriale in tutta la loro violenza – nel punto culminante il livello sonoro è indicato con ƒƒƒƒƒƒƒƒ – per poi passare a un episodio più calmo con le voci del coro femminile. Nell’epilogo la voce in scena intona quattro versi tratti da Due poesie a T. di Cesare Pavese che introducono una visione di speranza: «passeranno i mattini | passeranno le angosce | non sarà così sempre | ritroverai qualcosa».
Il testo di Scabia, come si vede nei manoscritti opportunamente esibiti nelle Sale Apollinee del teatro, già contiene indicazioni “tonali” fornite dal suo autore, ossia frecce colorate che collegano sillabe e parole in un loro “fraseggio”, dei veri e propri percorsi verbali multidirezionali tracciati a colori su un rotolo di carta che in un certo modo ritroviamo nella scrittura musicale di Nono, fatta di un canto frastagliato, con grandi salti e passaggi repentini di registro, passaggi parlati o note tenute con cui dare suono al testo: «fabbrica dei morti la chiamavano | esposizione operaia | a ustioni | a esalazioni nocive […] la folla cresce parla del MORTO | la cabina detta TOMBA | tagliano i tempi | fabbrica come lager | UCCISI […]». Parole che suonano profetiche: nel 2007 nello stabilimento della ThyssenKrupp di Torino sette operai morirono in un’esplosione nel reparto di carpenteria metallica, ma anche oggi ogni giorno c’è più di un morto sul lavoro nel nostro paese.
Se ad Alvise Vidolin è confidata la regia del suono quadrifonico, è Daniele Abbado a occuparsi della messa in scena de La fabbrica illuminata. Con la scenografia e il gioco luci di Stefano Linzalata realizza uno spazio vuoto in cui si stagliano poche figure che rappresentano degli operai. Alcuni di loro si spogliano come se fossero alla fine del turno di lavoro, mostrando corpi segnati dalla fatica mentre sul fondo vengono proiettate immagini in bianco nero di interni di acciaierie, in particolare della fabbrica di Cornegliano. La visione sonora di Nono trova dunque corrispondenza nella sobrietà visiva del regista che però non risolve il problema di fondo di un lavoro che rivela la sua natura di frammento di un progetto più ampio non realizzato. I poco più che quindici minuti non sono sufficienti a costruire una drammaturgia convincente. E infatti il regista utilizza gli stessi elementi, i corpi seminudi distesi, per la seconda parte della serata dove entra l’orchestra che diventa personaggio in Erwartung (Attesa), il primo lavoro per il teatro composto da Arnold Schönberg nel 1909, ma che vedrà la messa in scena solo il 6 giugno 1924, a Praga, diretto da Alexander Zemlinsky.
L’epoca della composizione è di poco successiva a quella in cui Sigmund Freud pubblica i suoi Studi sull’isteria e il testo di Marie Pappenheim, giovane poetessa e dottoressa, è modellato sugli stereotipi comportamentali femminili suggeriti dalla psicoanalisi. Nel monodramma in quattro scene abbiamo il delirante monologo di una donna che in un bosco ricerca angosciosamente l’amato in un continuo e isterico susseguirsi di emozioni, memorie, presagi e visioni puramente interiori.
Scena I. Una strada illuminata dalla luna, al limitare di un bosco. Una donna cerca il proprio amante, piena di ansia per la solitudine e l’oscurità che la opprime.
Scena II. Un oscuro sentiero all’interno del bosco. La donna avanza in preda al terrore per i suoni indecifrabili che la circondano e crede di urtare un corpo, che si rivela semplicemente un tronco d’albero.
Scena III. Lo stesso sentiero, nei pressi di una radura illuminata dalla luna. La donna è terrorizzata dalle ombre in movimento e dal rumore che ode tra l’erba.
Scena IV. Strada ampia illuminata dalla luna, all’uscita dal bosco. La donna si imbatte nel cadavere dell’amante, nei pressi di una casa che potrebbe essere quella della rivale. Chiede aiuto, ma nessuno risponde. Cerca di rianimarlo e si rivolge a lui come se fosse ancora vivo, accusandolo con rabbia di esserle stato infedele. Il corpo sanguina ancora: immersa nel delirio, la donna l’abbraccia con passione. Ma l’alba, che spesso ha interrotto i loro incontri, viene a separarli, stavolta per sempre.
In questo periodo il compositore austriaco sperimentava l’atonalità passando da uno stile post-romantico e post-wagneriano a un gusto espressionista caratterizzato dai grandi mezzi orchestrali esposti nel poema Pelleas und Melisande del 1903 e nei Gurre Lieder del 1913, che proprio di questi giorni sono stati eseguiti da Riccardo Chailly al teatro alla Scala.
Nei trenta minuti di musica di Erwartung, Schönberg adotta una forma atematica dove nessun materiale musicale ritorna una seconda volta nelle 426 battute, un taglio decisivo con il sistema dei Leitmotive wagneriani o straussiani. Si tratta di un pezzo di grande complessità, con infiniti cambi di tempo e di tonalità. Dopo averla diretta a Madrid, Jérémie Rhorer affronta un’altra volta Erwartung con le sue diverse atmosfere psicologiche, ora tese ora rilassate, dove viene magistralmente sfruttato il diverso peso delle variabili orchestrali: alle esplosioni sonore succedono momenti dove la tessitura strumentale è minimale, secondando gli stati psicologici della protagonista in scena. Il giovane direttore francese, che ha affrontato nella sua intensa carriera sia la musica antica che quella contemporanea, si dimostra a suo agio nella complessa scrittura di questo pezzo a cui rende tutto il suo vigore dirompente. In questo ha la collaborazione del soprano americano Heidi Melton che con i suoi sontuosi mezzi vocali riesce a rendere quella «registrazione sismografica di uno choc traumatico» di cui parla Adorno a proposito di Erwartung, o a «rappresentare al rallentatore tutto ciò che accade durante un solo secondo di massima eccitazione spirituale, allungandolo di una mezz’ora» come scrive invece Schönberg.
Contrariamente a quanto richiedeva il suo autore, di rappresentare cioè sulla scena in maniera assolutamente realistica l’ambiente in cui si svolge la vicenda (il bosco, la strada), il regista riprende la scena de La fabbrica illuminata della prima parte spogliata ancora di più e senza le immagini video. Disseminati sulla scena ci sono i corpi che avevamo visto prima, che moltiplicano il cadavere dell’amato. In entrambi i casi sono la solitudine e l’alienazione i sentimenti che vengono messi in scena collegando in tal modo i due lavori così distanti nel tempo e nelle intenzioni.
Il pubblico l’ha compreso tributando un caldo successo all’operazione. Nel palco reale alcuni discendenti dei due compositori hanno seguito insieme lo spettacolo, compresa Nuria Nono, la figlia di Arnold Schönberg che quattro anni dopo la morte del padre aveva sposato il compositore veneziano conosciuto ad Amburgo in occasione della prima esecuzione del Moses und Aron del padre. Un incredibile intreccio di anniversari e di relazioni umane quello presente nel teatro veneziano.
foto © Michele Crosera – La Fenice
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