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Martin Sherman, Ben
Regia di Mauro Avogadro
Torino, Teatro Baretti, 27 novembre 2024
Amore nel Lager
Bent aveva fatto grande scalpore quando era stato presentato nel 1979 a Londra al Royal Court Theatre: allora quasi non c’era consapevolezza della persecuzione nazista degli omosessuali. Il titolo si riferisce infatti alla parola usata in alcuni paesi europei per indicare gli omosessuali, il nostro “invertito”.
Si tratta infatti della storia di personaggi maschili nella Berlino degli anni ’30. Max è in contrasto con la sua ricca famiglia a causa della sua omosessualità. Una sera, con grande risentimento del suo compagno Rudy, porta a casa un affascinante membro della Sturmabteilung, Wolf. È la “notte dei lunghi coltelli” e il mattino seguente Wolf viene scoperto e ucciso dalle SS nell’appartamento di Max e Rudy. I due sono costretti a fuggire da casa ma trovati in una tendopoli nella foresta vengono arrestati dalla Gestapo e costretti a salire su un treno diretto al campo di concentramento di Dachau.
Sul treno Rudy viene picchiato a sangue dalle guardie, mentre Max cerca di ignorare le sue urla. Un altro prigioniero sul treno, che indossa una toppa a triangolo rosa, spiega a Max il sistema delle toppe durante l’Olocausto. Un ufficiale fa riportare Rudy da Max e lo costringe a picchiarlo fino alla morte. Max viene preso dalle guardie e dice di essere ebreo e non omosessuale, perché ritiene che le sue possibilità di sopravvivenza nel campo saranno migliori. In seguito Max confessa allo stesso prigioniero del treno che le guardie lo hanno costretto ad avere rapporti sessuali con il corpo di una ragazzina morta per “dimostrare” che non era omosessuale. Il prigioniero rivela di chiamarsi Horst.
Nel campo, Max fa amicizia con Horst, che gli mostra la dignità nel riconoscere ciò che si è. I due si innamorano e diventano amanti attraverso la loro immaginazione e le loro parole. Dopo che Horst viene ucciso dalle guardie del campo, Max indossa la giacca di Horst con il triangolo rosa e si suicida lanciandosi contro il filo spinato elettrificato.
Dato il successo, la pièce si trasferì nel West End dove la parte di Max fu interpretata da Ian McKellen, mentre a Broadway quello stesso anno Max fu Richard Geere. Ian McKellen nel 1997 fu lo zio Freddie nell’adattamento cinematografico diretto da Sean Mathias. Lo spettacolo che inaugura la stagione del Teatro Baretti con la regia di Mauro Avogadro e la traduzione di Marco Mattolini prende in considerazione soltanto l’ultima parte della storia, quella nel Lager, con tre personaggi. La scena di Arcangelo Piccirillo è nuda, solo mucchi di pietre e come quarta parete un reticolato di fili spinato che separa gli attori dal pubblico. Sul palcoscenico due uomini cercano di salvare una dignità perduta, un’identità nascosta tentando un’intesa e una solidarietà difficili, ma arrivando fino al trasporto erotico e all’amore.
Diplomati all’Istituto Nazionale Dramma Antico di Siracusa, i giovani attori adottano una recitazione asciutta che esalta la tragicità della vicenda. Dario Battaglia è un Max che fugge i sentimenti per salvarsi portandosi dentro il tremendo passato che non conosciamo, solo alcuni accenni allo zio e al ballerino Rudy si riferiscono alla vicenda trascorsa. Inizialmente più distaccato, poi sempre più travolto dai sentimenti è il personaggio di Horst di Marcello Gravina, anche lui misurato ma intenso nella recitazione. Fa eccezione la figura del mellifluo capitano SS di Gabriele Rametta che sotto l’uniforme a un certo punto mostra un travestimento femminile decisamente incongruo ma che evidenzia l’assurdità tragica della situazione e rimanda alla Berlino di Cabaret. Un unico lampo di colore in una scena dominata dai grigi. Le luci di Alberto Giolitti e le musiche di Gioacchino Balistreri forniscono il giusto tocco a uno spettacolo applaudito da un pubblico visibilmente commosso.
⸪
