Il gabbiano – Zio Vanja – Il giardino dei ciliegi

 

Anton Pavlovič Čechov

Il gabbiano

Zio Vanja

Il giardino dei ciliegi

Regia di Leonardo Lidi

Torino, Teatro Carignano, 30 novembre 2024

Il progetto Čechov arriva alla sua conclusione

Nel “Progetto Čechov”, coproduzione del Teatro Nazionale Spoleto Festival dei Due Mondi, del Teatro Stabile dell’Umbria e del Teatro stabile di Torino, il regista Leonardo Lidi affronta i tre capolavori del commediografo russo. Iniziato nel 2022 con Il gabbiano, l’anno successivo è stata la volta di Zio Vanja e ora la trilogia si conclude con Il giardino dei ciliegi. Al Teatro Carignano si possono rivivere le tre tappe in un giorno solo, tre momenti di una borghesia infelice a pochi anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, artisti falliti e amori già stanchi sul nascere in una tenuta della campagna russa in cui poco lontano luccicano le acque di un lago o di un fiume e una vicina stazione ferroviaria permette di fuggire in città.

I tre spettacoli hanno la scenografia e le luci affidati a Nicolas Bovey, i costumi sono di Aurora Damanti, il suono è curato da Franco Visioli. La maratona inizia alle 11.30 del mattino con Il gabbiano, una vicenda di personaggi «inchiodati in un punto morto che si muovono a vuoto e per i quali la vita scivola come acqua dalle loro mani e li trascina, li inghiotte come turaccioli» aveva scritto a suo tempo Angelo Maria Ripellino. Il palcoscenico è vuoto e gli attori sempre a vista nei loro costumi ottocenteschi a turno sono chiamati a raccontare il testo, nella traduzione di Fausto Malcovati, con una frenesia di loquela che li porta a dire le battute in maniera accelerata. Qui lo spazio è capovolto: la panchina su cui la grande attrice Irina Arkadina, Trigorin siedono insieme a Sorin e al dottore Dorn è rivolta alla platea, dove si trova il lago che fa da sfondo allo spettacolo e da cui proviene il gabbiano del titolo. Nel prosieguo il lago diventa la scena stessa, quando teli neri calano ai lati e sul fondale verso cui si muovono i personaggi afflitti da una vecchiaia incalzante, come una compagnia d’attori che si presenta alla ribalta a fine spettacolo, qui dando le spalle allo spettatore. Intanto al proscenio assistiamo al “suicidio” di Kostia accompagnato da Sorin. I due faranno una loro comparsa anche nel secondo spettacolo.

Se nel Gabbiano gli attori avevano a disposizione l’intero palcoscenico vuoto, nello Zio Vanja del primo pomeriggio si accalcano tutti quanti su una stretta pedana davanti a una parete di assi di legni dietro cui molto spesso continuano a recitare. Su questa zattera claustrofobica il regista dimostra la sua virtuosistica abilità a gestire spazi e movimenti accompagnati da un’ironia che si ritrova negli abiti color pastello e nelle parrucche anni ’60 dei personaggi. Qui risentiamo le note de La bohème, la canzone di Aznavour che Gigliola Cinquetti aveva cantato nel Gabbiano, e le risentiremo ancora ne Il giardino dei ciliegi (1904), che conclude la trilogia in serata. Qui il palcoscenico si è ampliato di nuovo ma è limitato da teli neri, questa volta traslucidi, che contrastano con la plastica bianca delle sedie sparse o rovesciate per terra. Il traliccio dell’americana con le luci al neon a un certo punto si abbassa e funge da piattaforma sul quale si sdraiano i personaggi in tenuta balneare, ignari – o meglio ignavi – di quanto succederà alla loro proprietà che sta per andare all’asta assieme al giardino dei ciliegi che sarà abbattuto per fare posto alla lottizzazione e alle villette da costruire per la nuova borghesia. 

I tre spettacoli sono in progressione espressiva: dall’ambientazione spoglia e dal tono quasi filologico del Gabbiano, all’abbrutimento grottesco della vicenda dei personaggi dalle occasioni mancate che è Zio Vanja, fino alla volgarità, ai toni smaccatamente eccessivi, al desolato kitsch della sguaiata compagnia che entra dalla platea sulle note di Ritornerai, la canzone di Lauzi, stonata dall’anfitrione Lopachin, il servo che diventerà padrone nel Giardino dei ciliegi. I toni da farsa sono esagerati anche dalla non corrispondenza dei corpi ai personaggi con incongruenze anagrafiche e di genere (Sorin è interpretato da un’attrice, Charlottta Ivanovna da un attore), mentre il riutilizzo dell’ensemble nei diversi ruoli della trilogia (concepita anche per la visione in sequenza) esalta l’eccelsa qualità attoriale degli interpreti: Giordano Agrusta; Maurizio Cardillo; Alfonso De Vreese; Ilaria Falini; Sara Gedeone; Christian La Rosa; Angela Malfitano; Francesca Mazza; Orietta Notari; Mario Pirrello; Tino Rossi; Massimiliano Speziani; Giuliana Vigogna.