Filarmonica del TRT

Francis Poulenc, Stabat Mater per soprano, coro misto e orchestra FP 148
I. Stabat mater dolorosa (Très calme)
II. Cujus animam gementem (Allegro molto – Très violent)
III. O quam tristis (Très lent)
IV. Quae moerebat (Andantino)
V. Quis est homo (Allegro molto – Prestissimo)
VI. Vidit suum (Andante)
VII. Eja mater (Allegro)
VIII. Fac ut ardeat (Maestoso)
IX. Sancta mater (Moderato – Allegretto)
X. Fac ut portem (Tempo di Sarabanda)
XI. Inflammatus et accensus (Animé et très rythmé)
XII. Quando corpus (Très calme)

César Franck, Sinfonia in re minore FWV 48
I. Lento – Allegro non troppo
II. Allegretto
III. Allegro non troppo

Orchestra e Coro del Teatro Regio Torino

James Conlon direttore, Masabane Cecilia Rangwanasha soprano

Torino, Teatro Regio, 14 gennaio 2025

Armonia

Due musicisti francesi di due secoli diversi ma accomunati dalla religiosità: mistica e devozionale quella di César Franck (1822-1890), di una spiritualità più sofferta quella di Francis Poulenc (1899-1963).

Il secondo concerto della stagione dell’Orchestra del Teatro Regio di Torino inizia infatti con lo Stabat Mater che Poulenc presentò al Festival di Strasburgo il 3 giugno 1951, composizione dedicata alla memoria del compagno Christian Bérard con cui aveva condiviso l’esperienza della rinnovata fede cristiana. L’avvicinamento alla fede cattolica aveva preso corpo a metà nel 1936 anche allora per la morte in un incidente stradale dell’amico compositore Pierre-Octave Ferraud. Poulenc aveva trovato inaspettatamente conforto in una visita al Santuario di Rocamadour dove, davanti alla statua in legno nero della Vergine, si era prodotto un cambiamento destinato a mutare il resto della sua vita: quella sera stessa il compositore, che fino ad allora non aveva scritto musica sacra di alcun genere, iniziò le Litanies à la Vierge Noire. Sarebbero poi seguiti la Messa in Sol maggiore (1937), i Quatre motets pour un temps de pénitence (1939), l’Exultate Deo e il Salve Regina (1941), le Quatre petites prières de Saint François d’Assise (1948).

Le dodici brevi sezioni in cui è suddiviso il testo di Jacopone da Todi sono strutturate ciascuna con carattere, orchestrazione, tonalità e tempo a sé stanti. I continui scarti e mutamenti non inficiano comunque l’unità di concezione del lavoro che inizia con un contemplativo “Stabat Mater” monocromatico, quasi minimalista nella struttura armonica e ritmica. Con l’Allegro molto del “Cujus animam” inizia un crescendo sonoro che, dopo il clima sospeso e meditativo dell'”O quam tristis”, sfocia nel brioso “Quae moerebat”, che difficilmente potrebbe essere ricondotto al pianto funebre di una madre – così come avviene nello Stabat Mater di Pergolesi – e lo stesso accadrà più oltre con il giubilante “Eja Mater”. L’incertezza tonale del pezzo raggiunge il massimo nelQui est homo”, seguito da un silenzio dopo il quale finalmente entra la voce solista del soprano nel “Vidit suum”, il primo di tre interventi di portata fondamentale per il carattere del brano. Il secondo sarà il bachiano “Fac ut portem”, indicato con ‘tempo di Sarabanda’, una pagina che anticipa certe atmosfere de Les dialogues des Carmélites di cinque anni dopo. Il trascinante “Inflammatus” e il solenne “Quando corpus” concludono questo «requiem senza disperazione», che con le reiterate frasi ascendenti del soprano su “Paradisi Gloria” sembra chiedere intercessione per il compositore più che per l’amico scomparso.

Ricco di sfumature espressive e di contrasti drammatici, l’intreccio di passaggi lirici e passionali è reso con grande sensibilità da James Conlon, per la prima volta sul podio dell’Orchestra del TRT. Il direttore americano riesce a far risaltare i diversi piani prospettici dei policromi pannelli sonori creati da Poulenc grazie alla maestria della compagine orchestrale e del bravissimo coro istruito da Ulisse Trabacchin. Molto apprezzati gli interventi del soprano Masabane Cecilia Rangwanasha dal timbro sontuoso e dalla intensa forza espressa nelle sue frasi.

Clima totalmente diverso quello della seconda parte con la Sinfonia in re minore, l’unica di César Franck, scritta nel 1886-88. Composizione che chiaramente si ricollega a Bruckner, anche lui organista come Franck. I contemporanei infatti non l’apprezzarono perché troppo poco francese e legata al modello beethoveniano (nella struttura e nella costruzione ciclica) e al detestato wagnerismo. «Un’affermazione d’incompetenza spinta fino ad una dogmatica lunghezza» fu il feroce giudizio di Gounod. Oggi possiamo collocare questa composizione tra le opere del decadentismo europeo, in bilico tra patetismo lacrimoso e oratoria solennità. L’uso della sensualità cromatica e timbrica di Wagner sembra accettato come modo di espressione di una religiosità intensa e sofferta e da qui l’ambiguità di questa composizione che vuole essere espressione di religiosità ma che si trova invece molto vicina al patetico čajkovskijano. Il questa visione ciclica alla Liszt, il materiale sonoro si ripete quasi ossessivamente, con i temi iniziali ripresi nel finale e il direttore Conlon riesce a esprimere il carattere di questa musica senza troppo preoccuparsi dei suoi risvolti spirituali: quella che esce fuori è una lettura trascinante che mette in luce il colore scuro della partitura e l’alternarsi di slanci e ripiegamenti fino all’esultante finale accolto con calore di applausi dal folto pubblico accorso ad ascoltare queste pagine del più rinomato repertorio francese. C’è forse nella scelta lo zampino del sovrintendente Mathieu Jouvin? Ben venga, se la qualità delle proposte è questa.