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Franz Schubert, Sinfonia n° 8 in si minore D 759 (Incompiuta)
I. Allegro moderato
II. Andante con moto
Anton Bruckner, Sinfonia n° 7 in Mi maggiore
I. Allegro moderato
II. Adagio. Sehr feierlich und sehr langsam
III. Scherzo. Sehr schnell
IV. Finale. Bewegt, doch nicht schnell
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Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, Fabio Luisi direttore
Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 5 giugno 2025
Maestosa chiusura della stagione RAI
Si può dire con certezza che la forma musicale dell’Ottocento è la Sinfonia. Non che nel secolo precedente siano mancati compositori di questo genere, basterebbero i nomi di Haydn e Mozart, ma è nel secolo romantico che la sinfonia assume un ruolo socialmente privilegiato e da divertimento aristocratico diventa una musica per le masse che affollano i concerti a pagamento.
All’inizio del XIX secolo, Beethoven aveva elevato la sinfonia da genere quotidiano prodotto in grandi quantità, a forma suprema in cui i compositori si sforzavano di raggiungere il massimo potenziale della musica in poche opere. Così dopo le 106 di Haydn o le 47 di Mozart si hanno le nove di Beethoven, le altrettante di Schubert, le cinque di Mendelssohn e le quattro di Schumann. Prima di essere un po’ messa da parte dal poema sinfonico di Berlioz e Liszt, dopo il 1870 si ha una seconda vita della sinfonia con quelle di Brahms, Čajkovskij, Saint-Saëns, Borodin, Dvořák, Franck… e Bruckner, anche lui fermo al fatidico numero nove.
Per la chiusura della stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI, il direttore emerito Fabio Luisi ha scelto appunto il suo compositore di elezione di cui esegue la Settima, la più nota di Anton Bruckner. Presentata la prima volta al Gewandhaus di Lipsia il 30 dicembre 1884, è la sinfonia più wagneriana: non solo perché composta a ridosso della morte del compositore, ma per la presenza in orchestra di quattro tube wagneriane, per le enormi dimensioni e per i temi musicali che qui hanno l’evidenza e la presenza di personaggi teatrali.
Enorme il successo di pubblico allora, con il compositore chiamato alla ribalta quattro o cinque volte dopo ogni movimento, ma un lavoro anche capace di suscitare il velenoso giudizio di un critico come Eduard Hanslick, che all’indomani della prima esecuzione viennese due anni dopo scriveva: «Ammetto senza giri di parole di non essere in grado di giudicare con equilibrio questa sinfonia di Bruckner, tanto mi sembra innaturale, rigonfia, malaticcia e putrescente. Come tutte le composizioni maggiori di Bruckner, anche la Sinfonia in Mi maggiore contiene intuizioni geniali, passi interessanti, persino belli – qui sei, là otto battute – tra questi lampi però si spalanca un buio impenetrabile, una noia pesante come piombo e un’eccitazione febbrile». Essendo defunto Wagner, gli antiwagneriani se la prendevano col povero Anton.
Ma è vero che la Settima ha qualcosa di «sovreccitato e febbrile», un turgore e un senso di sensualità sofferente che spinse Luchino Visconti a sceglierla per la colonna sonora di Senso. Che poi la sinfonia sia stata dedicata a Ludwig II non sembra una combinazione: con le sue esaltazioni e fragilità il re di Baviera sembrava essere il modello di un lavoro in cui risalta la sproporzione tra tenerezza cameristica – da Siegfried-Idyll, per intenderci – e squarci di una grandiosità quasi malsana.
Tutto è chiaramente esposto nella lettura di Luisi che tiene saldamente in pugno le macrostrutture con cui è scritto il lavoro, un’alternanza di imponenti blocchi tematici e motivi brevi ma iterati a lungo con sapienti transizioni armoniche. Qui quello che domina non è lo sviluppo dei temi, spesso ridotti a cellule elementari, ma la monumentalità della massa sonora, un fiume in piena in cui vengono esaltati i timbri degli strumenti. Come nel famoso Adagio, il lungo addio di Bruckner a Wagner, un vero proprio corale per le tube wagneriane e il basso tuba, dove sacro e profano si incontrano, severità e misticismo. L’architettura di una cattedrale gotica. Luisi dipana con fluidità analizzando sapientemente le miniature sonore prima che vengano schiacciate dalle possenti e lunghe perorazioni, dai grandi crescendo, dalle ondate di d’intensità progressiva fino al finale simmetricamente speculare all’inizio che si spegne nel silenzio. Un momento di grande emozione per il pubblico e per gli esecutori.
Nella prima parte della serata Luisi ha eseguito l’Incompiuta di Schubert con tempi particolarmente rilassati che hanno fatto apprezzare il lirismo di un’opera enigmatica di cui rimangono solo due dei quattro movimenti. Il manoscritto riporta la data del 30 ottobre 1822 e dopo la composizione dei primi due movimenti, Schubert si apprestava ad abbozzare lo Scherzo con il Trio, ma tutto rimase sospeso senza un’evidente ragione, certo non quella della morte. Ma neanche quella di un senso di inedaguatezza: «Chi potrà fare qualcosa di più, dopo Beethoven?» si chiedeva Schubert, ma il compositore avrebbe scritto sei anni dopo la Sinfonia in Do maggiore “La grande”.
Tenuta nascosta per più di quarant’anni, è dal 17 dicembre 1865 che l’“Incompiuta” ci conduce al cuore della poetica schubertiana, al suo nucleo di desolazione e confidenza con la morte.
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