foto © Klara Beck
Franz Lehár, Giuditta
Strasburgo, Opéra, 20 maggio 2025
(video streaming)
Né Carmen né Vedova Allegra
Rappresentata per la prima volta all’Opera di Stato di Vienna il 20 gennaio 1934, con Jarmila Novotná e Richard Tauber nei ruoli principali, Giuditta fu trasmessa in diretta da 120 stazioni radiofoniche in tutta Europa e negli Stati Uniti e rimase in scena per 42 rappresentazioni nella sua stagione di debutto. Nonostante l’interesse iniziale uscì però presto dal repertorio: nel 1938, con l’Anschluss, Tauber lasciò la città, così come la Novotná, mentre il librettista Fritz Löhner-Beda fu deportato e morì ad Auschwitz.
Commedia musicale in cinque scene con una partitura per grande orchestra, fu l’ultima e più ambiziosa opera di Lehár, scritta su una scala più ampia rispetto alle sue precedenti operette. Il libretto è di Paul Knepler e Fritz Löhner-Beda e di tutte le sue opere è quella che più si avvicina a una vera e propria opera lirica. Le somiglianze con la storia della Carmen di Bizet e il suo finale drammatico ne accentuano le risonanze. Un’altra forte influenza, soprattutto per l’ambientazione nordafricana, fu il film Marocco di Josef von Sternberg del 1930, con Marlene Dietrich e Gary Cooper in ruoli molto simili: lei cantante-ballerina, lui soldato.
Come altre opere successive di Lehár, anche Giuditta manca del lieto fine, altrimenti tipico del genere dell’operetta. Tra operetta e grand-opéra e con un’orchestrazione che ricorda spesso Puccini, nonostante questa ambivalenza stilistica, Lehár ha creato melodie immortali, soprattutto la canzone di Octavio “Freunde, das Leben ist lebenswert “(Amici, la vita è degna di essere vissuta) o quella dell’eroina del titolo “Meine Lippen, sie küssen so heiß! (Le mie labbra sono così calde da baciare), due melodie orecchiabili che vengono spesso eseguite anche dai più grandi tenori e soprani nei concerti.
Scena prima. Una città portuale nel sud della Francia, negli anni Trenta. Séraphin e Anita sono teneramente innamorati e fanno di tutto per pagarsi il viaggio verso l’altra sponda del Mediterraneo, dove sperano di fare fortuna grazie al canto e alla danza. Nel frattempo, l’anziano Manuel veglia gelosamente sulla moglie, la giovane e bella Giuditta, che ha conosciuto sulla spiaggia e il cui passato rimane per lui un mistero. La voce magnetica di Giuditta conquista presto l’ufficiale Octavio. Incantati l’uno dall’altra, condividono i loro sogni d’amore e Octavio supplica Giuditta di seguirlo in Africa, dove si unirà a un reggimento della Legione Straniera. Desiderosa di libertà e stanca della possessività del marito, Giuditta accetta infine la sua offerta e si imbarca sullo Champollion, mentre Séraphin e Anita sono già a bordo.
Scena seconda. Saada. Séraphin e Anita hanno trovato rifugio presso Giuditta e Octavio. Hanno lasciato prima il circo e poi il cabaret che li aveva assunti e si sono ritrovati senza alcuna entrata. Séraphin decide di tornare in Europa per guadagnarsi da vivere, promettendo di tornare per Anita e sposarla. Giuditta offre all’amico un posto dove stare al suo fianco, mentre Octavio apprende dal compagno Marcelin che il loro reggimento potrebbe presto essere impiegato in campagna.
Scena terza. Ottavio non ha ancora detto a Giuditta della sua imminente partenza. Profondamente possessivo, teme che, una volta lasciata sola, lei lo tradisca e se ne vada. Mentre si salutano, Giuditta chiede a Ottavio di dimostrare il suo amore restando con lei. Lui è sul punto di cedere, ma la parola “disertore” pronunciata da Marcelin lo frena e lo convince a partire con il resto del reggimento. Disperata, Giuditta si lancia in una danza furiosa.
Scena quarta. Tangeri. Circondata dal suo corpo di ballo, Giuditta trionfa sul palcoscenico del cabaret l’Alcazar, dove il cantante Cévenol si esibisce insieme a diversi intrattenitori, tra cui la giovane Lolitta. I numeri di Giuditta hanno affascinato un ricco inglese, Lord Barrymore, che la ricopre di sontuosi regali e spera di invitarla a cena. Alla fine Giuditta accetta le avances del suo nuovo ammiratore, senza sapere che Octavio, che ha lasciato il suo reggimento per trovarla, la sta osservando dall’ombra.
Scena quinta. Una capitale europea. Giuditta è diventata un’amata celebrità. Dopo un’esibizione, si reca in una suite privata di un hotel per cenare con un aristocratico di alto rango. Il pianista ingaggiato per accompagnare il loro incontro discreto si rivela essere nientemeno che Ottavio. Giuditta lo riconosce e gli rivela che i suoi sentimenti per lui sono immutati, ma lui la respinge: non è più capace di amare.
Come sono buone le ciliegine sulla torta, ma una torta fatta solo di ciliegine alla fine risulta stucchevole. Ecco, questo è il caso dell’operetta di Lehár zeppa di melodie fascinose che però dopo un po’ vengono a noia con quell’accompagnamento orchestrale alla linea vocale che ogni tre per due finisce nell’acuto rapinoso. Rispetto alle due operette più famose, La vedova allegra e Il paese del sorriso, Lehár in questo suo ultimo lavoro guarda all’opera: l’orchestra è più grande, l’orchestrazione più meticolosa e il trattamento delle voci più impegnativo – i ruoli vocali erano stati costruiti da Lehár su misura delle voci della Novotná e di Tauber. Un ruolo esigente soprattutto quello del tenore, qui un Thomas Bettinger dai fiati un po’ corti e dalla linea vocale discontinua. La Giuditta di Melody Louledjian è tecnicamente solida, ma la voce del soprano francese con origini armene non seduce, gli acuti non sono potenti, la linea vocale difetta di omogeneità. La presenza scenica e i movimenti di danza sono ricercati ma il risultato è poco convincente. Meglio la coppia comica di Anita e Séraphin, Sandrine Buendia et Sahy Ratia, uniti da una bella complicità, scioltezza vocale e sicura presenza scenica. Ottimo il Cévenol di Jacques Verzier, mentre Nicolas Rivenq e Christophe Gay fanno valere la loro consumata esperienza teatrale in più parti. Sul podio il viennese Thomas Rösner dirige con competenza e precisione, ma non coglie le diversità di colore offerte dalla partitura né le esigenze di un ensemble vocale che forse aveva bisogno di essere meglio accompagnato.
È curioso che ci siano le nacchere nell’orchestra di Giuditta quando nessuno degli eventi si svolge in Spagna. In realtà, è in Spagna che i librettisti avevano originariamente ambientato la vicenda molto simile a quella della Carmen, almeno quando Giuditta incita il suo bell’amante legionario alla diserzione. Ma nel 1933 Mussolini era diventato il principale alleato dell’Austria del cancelliere Dollfuss e Lehár ritenne politicamente più opportuno trasporre l’azione in Italia, trasformando il romantico legionario in un ufficiale italiano diretto in Libia, allora in piena occupazione coloniale. Quanto alle nacchere e alle españolades, sono rimaste al loro posto nelle parti già scritte. Lehár ebbe l’idea di inviare la sua partitura, debitamente autografata, al Duce, il quale, scandalizzato dal soggetto (un ufficiale italiano spinto alla diserzione da una donna promiscua che aveva appena lasciato il legittimo marito!), gliela restituì senza tanti complimenti.
Qui all’Opéra du Rhin l’azione si sposta nel sud della Francia, poi in Marocco, quindi sotto il protettorato francese, e infine in una capitale europea non specificata. Si utilizza infatti la versione in francese di André Mauprey e non quella originale in tedesco. Già il libretto originale non è il massimo della genialità, nella traduzione non migliora, anzi.
La nostra sensibilità contemporanea rivela poi una serie di questioni non secondarie in questo libretto – il maschilismo e la sua violenza (Giuditta viene schiaffeggiata o aggredita in diverse occasioni), l’eroticizzazione sistematica delle donne ridotte a meri oggetti di desiderio sessuale, gli abusi del colonialismo – ma il regista Pierre-André Weitz si astiene da qualsiasi riflessione su questi temi a favore di una lettura superficiale e una scenografia spettacolare, ricca di color. L’ambientazione della prima scena all’ingresso di un tendone da circo con culturisti, trapezisti e personaggi quali una donna cannone, un nano e due gemelle siamesi, ricorda Freaks il film di Tod Browning uscito due anni prima, ma senza l’occhio critico di quest’ultimo. Le tele dipinte, il modello della nave che attraversa il Mediterraneo, il cabaret nella quarta scena e il ristorante elegante nella quinta, sono riusciti e accattivanti, ma il regista non riesce a dare sostanza e vita ai personaggi: Giuditta è senza fascino e mistero, il militare una figura monodimensionale. Che poi la vicenda si svolga negli anni più terribili del Nazismo non ha la minima implicazione nell’allestimento, se non una croce uncinata sul bracciale del lord inglese (?) con cui Giuditta ha un appuntamento galante. La riproposizione di questo raro titolo avrebbe avuto senso con una lettura più problematica della vicenda, cosa che qui è mancata.
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