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Dmitrij Šostakovič, Sinfonia n° 13 “Babij Jar” in si bemolle minore op. 113 per basso, coro maschile e orchestra
1. Babij Jar (Adagio)
2. Yumor (Humour, Allegretto)
3. V magazinye (All’emporio, Adagio)
4. Strakhi (Paure, Largo)
5. Karyera (Carriera, Allegretto)
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Orchestra e Coro del Teatro Regio Torino, Enrico Calesso direttore, Alexander Roslavets basso
Torino, Auditorium Giovanni Agnelli, 17 settembre 2025
Il grido di Babij Jar: Šostakovič chiude MiTo tra memoria e denuncia
MiTo SettembreMusica, che aveva aperto i battenti a Torino sulle note danzanti del Valzer n. 2 di Dmitrij Šostakovič, ha scelto di chiudere il cerchio ancora con lui, con il volto cupo e imponente della Sinfonia n° 13, la “Babij Jar”. Una scelta che non è solo musicale, ma anche politica, morale, perfino filosofica. Perché questa sinfonia, prima eseguita a Mosca il 18 dicembre 1962 sotto la bacchetta di Kirill Kondrašin, resta una delle pagine più controverse e dirompenti della musica del Novecento. Solo due mesi prima, la crisi dei missili di Cuba aveva portato il mondo sull’orlo dell’apocalisse nucleare. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica si erano fronteggiati a colpi di minacce, e l’intero pianeta aveva trattenuto il fiato. La Guerra fredda era al suo apice, e il clima di paura, tensione, propaganda si rifletteva in ogni gesto culturale, in ogni parola scritta, in ogni nota musicale. Šostakovič, artista da sempre in bilico tra adesione e ribellione, tra fede nel socialismo e disperata esigenza di libertà, scelse di farsi eco della voce del poeta Evgenij Evtušenko. Ne musicò cinque poesie, trasformandole in una sinfonia corale che fonde strumenti e canto, come farà anche nella successiva Sinfonia n° 14. Era una sfida aperta, un atto di coraggio, quasi una dichiarazione di guerra all’ipocrisia del potere sovietico.
Le ovazioni alla conclusione della prima esecuzione da parte di Kirill Kondrašin non risparmiarono però le critiche dei giornali sovietici. Non era certo la prima volta che Šostakovič finiva nel mirino dei censori. Nel 1930, già con l’opera satirica Il naso, il regime lo aveva bollato come formalista e decadente. Sei anni dopo, Lady Macbeth del distretto di Mtsensk fu liquidata con l’epiteto di “caos anziché musica” per il suo linguaggio dissonante e il libretto troppo audace. Nel 1945, laSinfonia n° 9 irritò Stalin con il suo tono leggero e ironico, ben lontano dalla retorica eroica che ci si aspettava. La Sinfonia n° 13 colpì ancora più a fondo perché affrontava un tabù assoluto: la questione ebraica in URSS. Nella poesia “Babij Jar”, che apre la sinfonia e le dà il titolo, Evtušenko denunciava l’assenza di ogni commemorazione ufficiale per il massacro di 34.000 ebrei, giustiziati dai nazisti a Kiev nel settembre 1941. Un orrore sepolto sotto la retorica patriottica, un crimine che il potere sovietico aveva scelto di dimenticare.
Il primo movimento si apre con un coro che intona parole agghiaccianti: «Non monumenti a Babij Jar: solo un burrone è la sua rozza tomba». Un Adagio solenne, tragico, in cui la malinconia si mescola a sonorità aspre, taglienti, come ferite ancora aperte. Poi entra la voce del basso solista, che dichiara: «Adesso sembra a me di essere ebreo». Da lì si susseguono rimandi e citazioni: il ritmo inesorabile della Sinfonia n° 7 “Leningrado”, un lampo dal Sacre du printemps di Stravinskij, l’ironia corrosiva che era marchio di fabbrica del compositore. Il culmine arriva quando il coro proclama: «Noi siamo la Nazione Russa!», e il solista ribatte: «E a me sembra di essere Anna Frank!». L’immedesimazione raggiunge un pathos lancinante: «Io stesso sono ogni vecchio fucilato. Io stesso ogni bimbo massacrato». Che un brivido percorra la schiena del pubblico del Lingotto accorso a questo ultimo concerto di MiTo Settembre musica al sentire queste parole dimostra ancora una volta il potere di denuncia dell’arte e della sua attualità.
Dopo tanto dolore, il secondo movimento, “Humour” (Allegretto), cambia registro. Ma non illudiamoci: qui l’umorismo è un’arma affilata. In forma di Scherzo danzante, mette alla berlina zar, imperatori, potenti di ogni nazione. Tutti possono guidare parate militari, ma nessuno può comprare l’umorismo del popolo – ma si può mettere a tacere, come sta avvenendo in questi giorni in quella che era la più grande democrazia del mondo…
Il terzo movimento, “All’emporio” (Adagio), evoca la difficile vita delle donne alle prese con i quotidiani problemi di sopravvivenza. Nell’orchestra i suoni cupi dei contrabbassi sono contrappuntati da quelli del coro maschile che conclude il pezzo quasi con un amen liturgico sulle parole «riguardo con amore, | fredde e stanche dalle borse | quelle mani bianche».
Il quarto movimento, “Paure” (Largo), torna cupissimo. La tuba, la grancassa, le campane evocano un’atmosfera da incubo. Qui Šostakovič racconta il clima repressivo del periodo staliniano, la paura di pensare, di parlare, di esprimersi. E il pensiero corre inevitabilmente a tutti i regimi che ancora oggi si nutrono di silenzi forzati.
Infine “Carriera”, il quinto movimento. Un Allegretto pungente che mette alla berlina il carrierismo cinico, contrapposto alla dignità di chi non tradisce le proprie idee. La conclusione è sorprendente: non un’esplosione, ma un progressivo spegnersi. I rintocchi distillati dalla celesta si dissolvono nel silenzio, quasi a lasciare sospesa la domanda: e ora, che cosa resta?
Al Lingotto, questo capolavoro difficile e scomodo ha trovato interpreti all’altezza. Il direttore Enrico Calesso ha guidato con mano ferma l’orchestra del Teatro Regio di Torino, riuscendo a mantenere un equilibrio perfetto tra timbri e dinamiche in una partitura che non concede distrazioni. Ogni livello sonoro, ogni tempo, ogni accento è sembrato frutto di una scelta meditata. Straordinario il basso russo Alexander Roslavets, chiamato a sostenere un ruolo che non concede respiro: per un’ora e più la sua voce profonda e scura ha intessuto dialoghi col coro, mantenendo sempre proiezione, bellezza timbrica, uniformità e intensità drammatica. Una prova da incorniciare. Il coro maschile del Regio, preparato come sempre da Ulisse Trabacchin, ha dato corpo e sostanza a pagine che richiedono precisione e potenza, ma anche la capacità di farsi sussurro, preghiera, ironia.
Così si è chiuso MiTo SettembreMusica: non con leggerezza, non con il repertorio più rassicurante, ma con una delle sinfonie più difficili e scomode del Novecento. Una scelta che vale come dichiarazione d’intenti: la musica non è solo intrattenimento, è coscienza, memoria, presa di posizione. Il pubblico ha risposto con applausi lunghi, commossi, ma anche con quel silenzio carico che precede lo scoppio finale. Perché le ultime note della Babij Jar non si limitano a riecheggiare nella sala: restano dentro, continuano a interrogare. MiTo non poteva chiudere meglio: ricordandoci che la musica è, prima di tutto, un atto di verità.
⸪
