foto © Clemens Manser
•
Francesco Cavalli, Pompeo Magno
Bayreuth, Markgräfliches Opernhaus, 12 settembre 2025
(video streaming)
Cavalli, il Carnevale e l’arte dell’illusione
Il recupero di Francesco Cavalli non è un vezzo erudito, né un capriccio da collezionisti di rarità musicali. È un processo che, a partire dagli anni Settanta, ha mutato la percezione del più brillante allievo di Monteverdi: da curiosità filologica a protagonista vivo e presente del palcoscenico contemporaneo. Cavalli, il “ritrattista delle passioni” del Seicento veneziano, ha trovato oggi nuova voce in festival coraggiosi e interpreti visionari. Ed è proprio in questa prospettiva che il Bayreuth Baroque Festival, giunto alla sua sesta edizione, ha scelto di riaccendere i riflettori su un titolo che persino tra gli specialisti rimaneva avvolto nell’ombra: Il Pompeo Magno.
Quest’opera, terza del cosiddetto ciclo romano (Scipione Africano, Il Muzio Scevola, Il Pompeo Magno, L’Eliogabalo, Coriolano, Massenzio), fu presentata il 20 febbraio 1666 al Teatro San Salvatore – oggi Goldoni – inaugurando la stagione di Carnevale. Subito dopo, il silenzio: nessuna ripresa, nessuna eco, fino a scomparire dai radar della memoria teatrale. Eppure Cavalli, che aveva costruito la propria carriera proprio nelle stagioni carnevalesche, era allora il nome più amato della città lagunare, capace di trasformare ogni intrico di amori, tradimenti e mascheramenti in puro specchio del pubblico veneziano. Se Monteverdi ci parla oggi attraverso tre soli titoli superstiti, Cavalli ci lascia quasi trenta partiture: un patrimonio straordinario che racconta la nascita dell’opera come forma popolare e insieme raffinata.
Come sempre in Cavalli, la trama non è che un pretesto (1). Lo sfondo storico serve solo a dare sostanza a un groviglio di amori contrastati, gelosie furibonde, padri autoritari e figli ribelli, mascheramenti e agnizioni finali. È la formula collaudata dell’opera veneziana, che non si proponeva di insegnare storia, ma di raccontare la vita nelle sue passioni universali. E a dare corpo letterario a questa macchina teatrale c’è il libretto di Nicolò Minato, una delle voci più autorevoli del Seicento, autore prolifico e abile architetto di intrecci complessi. Scrisse oltre cento libretti e contribuì, da poeta cesareo a Vienna, alla diffusione europea del teatro musicale italiano. Nel Pompeo, Minato utilizza la Roma antica come specchio della Venezia a lui contemporanea: dietro i fasti repubblicani si intravedono i riflessi della Serenissima, le virtù e le corruzioni di un potere che i suoi spettatori conoscevano fin troppo bene.
Se Cavalli è tornato a vivere negli ultimi decenni, lo si deve anche a interpreti e festival che hanno avuto il coraggio di misurarsi con la sua musica. A Bayreuth, l’artefice di questa rinascita è Max Emanuel Cenčić, infaticabile direttore, regista, cantante e demiurgo onnipresente, che ha deciso di rendere onore al Cavalli meno noto. Al suo fianco, Leonardo García-Alarcón con la Cappella Mediterranea: venti strumentisti scelti, un suono sontuoso e mobile. Le partiture di Cavalli, è noto, sono scarne: basso continuo e qualche accenno melodico. Il resto è affidato all’immaginazione dell’interprete. García-Alarcón non si limita a leggere, ma ricrea, rimodellando la musica con libertà ornamentale e un organico ampliato. Ne risulta un suono che intreccia strumenti antichi e colori moderni, passando con naturalezza dal madrigalesco alla canzone popolare, fino a toni quasi swinganti che strizzano l’occhio al presente. È un Cavalli reinventato ma fedele, tradito solo per essere reso più vivo. La musica, sotto la bacchetta di García-Alarcón, diventa un tessuto cangiante di sfumature, con sorprese continue: celebre, e qui riproposta con gusto, la “pernacchia” di un fagotto che irride Cesare, dettaglio che già nel 1666 faceva ridere Venezia e che oggi strappa risate a Bayreuth.
La messa in scena di Cenčić è un omaggio sapiente alla teatralità veneziana, dove conta meno la fedeltà storica che il gioco scenico. I costumi evocano Veronese, le scenografie di Helmut Stürmer si trasformano con le luci di Léo Petrequin in notturni misteriosi, i personaggi si muovono tra grottesco e sublime. Accanto ai protagonisti, Cenčić inserisce nove attori in miniatura, una sorta di coro fantasmagorico di Pulcinelli e paggi che rimanda alla Commedia dell’Arte. Queste figure aggiungono una fisicità plebea e farsesca, introducendo lazzi, zuffe e giochi scenici che spezzano ogni solennità.
Il risultato è un caleidoscopio teatrale in cui la tragedia e la farsa si intrecciano senza soluzione di continuità. Si passa da corteggiamenti ardenti a scene passionali, da solenni arie regali a improvvisi lazzi osceni. Sì, sul palco compaiono anche scene di sesso esplicite, con nani e Pulcinelli che si abbandonano a giochi licenziosi: non uno scandalo gratuito, ma un ritorno alla verità barocca, che non conosceva confini tra alto e basso, tra aristocrazia e piazza. Qui la comicità convive con la malinconia: la follia della vecchia Atrea è specchio grottesco del dolore di Issicratea, regina dolente. Come nel Seicento, il pubblico ride e si commuove nello stesso tempo, oscillando tra eccessi carnascialeschi e sincera compassione. La scenografia immaginaria costruisce una Venezia reinventata: palazzi di facciata, piazze notturne, lampade portatili che evocano chiaroscuri di sogno. È un mondo volutamente “finto”, perché l’opera barocca non pretende realismo, ma trasforma l’artificio in verità teatrale. Ed è proprio nella sua artificiosità che trova autenticità: un carnevale senza limiti, dove tutto è possibile.
Il cast riflette l’anima corale dell’opera. Cenčić interpreta un Pompeo misurato e autorevole; Mariana Flores, regale Issicratea, unisce grazia ma soprattutto forza; Valerio Contaldo, un Mitridate energico; Alois Mühlbacher, angelico Farnace/Amor; Nicolò Balducci, Sesto splendente per bellezza timbrica e slancio eroico; Sophie Junker, deliziosa Giulia/Colombina, ha l’arioso più fiorito di tutta l’opera «Alpi gelide, che di neve il crin cingete»; Victor Sicard, pater familias Cesare; Nicholas Scott, suo figlio Claudio, un Pantalone lubrico; Valer Sabadus, un brillante Servilio/Arlecchino; Jorge Navarro Colorado, Crasso/Balanzone sornione sotto il gran cappello. Ineffabili i quattro principi ognuno diversamente caratterizzato scenicamente da Pierre Lenoir (anche Genio), Angelo Kidoniefs, Yannis Filias e Christos Christodoulou. E poi le tre vecchie, esilaranti: Marcel Beekman, Dominique Visse e Kacper Szelążek, ciascuno un capolavoro di comicità travestita e grottesco barocco.
In questo Pompeo Magno, la resurrezione di un titolo dimenticato diventa manifesto estetico: il teatro barocco non è un fossile da museo, ma un linguaggio vivo, pronto a parlare al nostro presente. In tempi di incertezza, un’opera che ride e piange nello stesso momento ci ricorda la verità più semplice: la vita è contrasto. La lezione di Cavalli, riportata in scena con audacia e ironia, ci dice che l’opera non è mai stata un tempio immobile, ma una festa collettiva, carnevale dell’anima.
E in fondo siamo ancora veneziani del Seicento: ci innamoriamo delle maschere, dei travestimenti, delle risate che nascondono lacrime. Per questo, a Bayreuth come a Venezia, il trionfo di Pompeo Magno ci parla ancora oggi, con la sua miscela di artificio e verità, di splendore e volgarità, di riso e dolore. È la magia dell’opera barocca: un gioco che non smette di rivelare la vita stessa.
(1) Atto primo. Issicratea, regina del Ponto, e il suo giovane figlio Farnace vengono fatti prigionieri da Silla durante la battaglia e vivono come prigionieri del grande condottiero Pompeo a Roma. Issicratea è corteggiata sia dal figlio di Pompeo, Sesto, sia dal figlio di Cesare, Claudio. Suo marito Mitridate, che si credeva morto, è riuscito a fuggire dopo aver perso una battaglia contro Pompeo. Vaga liberamente per Roma, sotto mentite spoglie. Trova sua moglie e escogita un piano di fuga. Mitridate rivela il suo piano a Issicratea: vuole uccidere Pompeo. Se il piano fallisce, si suiciderà e insiste affinché sua moglie e suo figlio lo seguano in questo destino. Mitridate si intrufola nella casa di Pompeo, ma Farnace, che non sa nulla del piano omicida né dell’identità di Mitridate ed è amico di Pompeo, sveglia quest’ultimo in tempo e gli salva la vita. Il ragazzo distrae Pompeo, mentre Mitridate fugge.
Atto secondo. Cesare e Crasso annunciano le ultime vittorie di Pompeo alla popolazione festante. Cesare presenta sua figlia Giulia, destinata a diventare la moglie di Pompeo. Ma Giulia è già segretamente promessa a Servilio. Quest’ultimo capisce che lei avrebbe un grande futuro come moglie di Pompeo e decide di rinunciare al suo amore. Tra Pompeo e Servilio si scatena una gara di virtù e rinuncia: ciascuno favorirà l’altro rinunciando a Giulia. Pompeo desidera ricompensare Farnace per avergli salvato la vita e gli permette di scegliere un oggetto tra le ricchezze che ha saccheggiato nella battaglia contro Mitridate. Farnace sceglie una spada che apparteneva a suo padre. Più tardi, Mitridate rivela a Farnace di essere suo padre e gli chiede di restituirgli la spada. Al calar della notte Sesto si intrufola nella camera di Issicratea e la molesta. Lei gli strappa la spada e giura che si ucciderà se lui le si avvicinerà. Mitridate accorre per salvarla. Lei spira tra le sue braccia come colpita da un colpo mortale. Arpali, servitore di Issicratea, aveva aiutato Sesto nel suo corteggiamento e lo aiuta a fuggire. Infuriato per questo tradimento, Mitridate afferra la spada di Sesto e uccide Arpalia.
Atto terzo. Durante una cerimonia nel teatro di Pompeo, Issicratea entra con la spada insanguinata di Sesto. Lei accusa Sesto dell’omicidio di Arpalia. Quando Pompeo chiede a suo figlio di spiegarsi, quest’ultimo, ignaro di ciò che è realmente accaduto, ammette di aver ucciso Issicratea. Ma quando vede che lei è ancora viva, rifiuta di ammettere qualsiasi cosa per paura che lei possa comprometterlo. Pompeo giura di far giustiziare Sesto e di adottare Farnace come figlio. Mitridate è molto commosso dal sacrificio di Sesto e si rivela. Quando desidera avvelenarsi insieme a Issicratea e Farnace, Pompeo interviene e concede a tutti la libertà. Servilio alla fine “vince” la gara di virtuosa rinuncia; e Giulia diventa la sposa di Pompeo. L’azione sul palcoscenico è interrotta più volte da intermezzi di danza e scene comiche. La vecchia pazza Altrea e il servo Delfo intrattengono il pubblico con grottesche e comiche battaglie verbali.
⸪






