Mese: ottobre 2025

Calibano

Calibano, l’Opera e il mondo

144 pagine, numero sette, settembre 2025

The Turn of the Screw, dove abita la paura

Il numero 7 di Calibano si articola attorno al tema dell’orrore e del perturbante, assumendo come fulcro simbolico e concettuale The Turn of the Screw di Benjamin Britten, attualmente in scena al Teatro dell’Opera di Roma, e il racconto gotico omonimo di Henry James. L’opera e il testo letterario funzionano da dispositivo generativo, consentendo di interrogare l’inquietudine come categoria estetica e come sintomo culturale di lunga durata.

I contributi raccolti nel volume mostrano come paura, spettralità e angoscia attraversino trasversalmente letteratura, cinema, arti visive, architettura, moda, musica e media contemporanei, configurandosi non come residui irrazionali, bensì come forme di conoscenza indiretta del reale. In questo quadro, Marco Malvestio indaga l’intreccio fra horror e fantascienza, da Lovecraft alle declinazioni postumane, mentre Carmen Gallo analizza le figure femminili in pericolo nella letteratura angloamericana, soffermandosi sui dispositivi narrativi che trasformano la vulnerabilità in spazio critico. Ancora Gallo affronta il tema della ribellione femminile nelle letterature dell’orrore, mentre Filippo Cerri dedica il proprio intervento al cinema folk-horror, letto come riscrittura mitica delle paure collettive. Nicolò Palazzetti smonta il mito culturale del Fantasma dell’Opera, rivelandone la stratificazione ideologica, e Stefano Nazzi si concentra sulla “cronaca dell’orrore” nel reale contemporaneo, dove l’evento traumatico si fa racconto mediatico.

Particolarmente significativo è l’inserimento della prima intervista italiana allo scrittore George Saunders, la cui riflessione letteraria si colloca da tempo sul crinale fra grottesco, empatia e perturbante. Sul versante sonoro, Giuliano Danieli affronta il tema dei suoni acusmatici, ovvero quei suoni la cui causa resta invisibile, concetto elaborato negli anni Cinquanta da Pierre Schaeffer e sistematizzato nel Traité des objets musicaux (1966), testo fondamentale per comprendere l’ascolto come esperienza enigmatica.

Nell’articolo di apertura, “Prede del passato”, David Bering-Porter propone una lettura dell’horror come lente critica della contemporaneità, a partire dal cinema – L’esorcista in primis – per mostrare come l’orrore funzioni da linguaggio capace di denunciare la perdita di individualità, la coazione a ripetere e il ritorno fantasmatico di traumi non elaborati. Il passato, lungi dall’essere risolto, riemerge come spettro culturale, insinuandosi nei media e nelle immagini seriali. In questa prospettiva, l’horror si rivela non mero intrattenimento, ma strumento privilegiato per interrogare identità, memoria e tensioni del presente, in continuità con le ricerche che confluiranno nel prossimo saggio dell’autore, Undead Labor, dedicato alle intersezioni fra immaginario mediale ed economia politica.

Die Meistersinger von Nürnberg

Richard Wagner, Die Meistersinger von Nürnberg

Glyndebourne, Opera House, 21 maggio 211

★★★★★

(registrazione video)

La tradizione che respira: i Meistersinger di McVicar a Glyndebourne

Quando il sipario si apre a Glyndebourne, il pubblico capisce subito di trovarsi davanti a un’esperienza teatrale fuori dall’ordinario. Die Meistersinger von Nürnberg (I maestri cantori di Norimberga), opera monumentale e spesso controversa di Richard Wagner, non si presenta qui nella veste abituale, intrisa di retorica patriottica e di celebrazioni nazionalistiche. David McVicar, regista scozzese dalla solida fama internazionale, sceglie infatti una via più complessa, capace di tenere insieme rispetto della tradizione e acutezza critica. Il suo approccio non cerca scorciatoie interpretative, non indulge né nell’agiografia né nella polemica sterile: piuttosto, scava con lucidità nei nodi psicologici, politici e sociali che abitano quest’opera smisurata, e li lascia affiorare con naturalezza, senza didascalismi.

L’ambientazione è spostata nella Germania post-napoleonica, tra gli anni Venti e Trenta dell’Ottocento. Un’epoca segnata dal risveglio dei nazionalismi, che si diffondevano sulle macerie lasciate dalle invasioni straniere. La scelta temporale produce un effetto fertile: pur mantenendo intatti i riferimenti medievali del libretto, la collocazione ottocentesca permette di rileggere le tensioni evocate da Wagner in chiave storica e sociologica. Il pubblico è così invitato a vedere i Maestri cantori non come figure mitiche fuori dal tempo, ma come borghesi in carne e ossa, immersi nelle dinamiche reali della nascente società moderna.

La scenografia iniziale, imponente e simbolica, richiama ancora un Medioevo idealizzato. Una grande volta gotica a costoloni, che si apre come un fiore a cinque petali, domina lo spazio scenico. Essa rappresenta il rinnovamento primaverile, la ciclicità della vita, ma anche il peso ineludibile della tradizione. Sul fondo campeggia un affresco sacro, a ricordare l’orizzonte comunitario e religioso dentro cui la vicenda è inscritta. Questa commistione di elementi medievali e ottocenteschi crea un cortocircuito suggestivo, che diventa il fulcro della lettura di McVicar.

Il Biedermeier scelto come cornice appare, a prima vista, inadatto: difficile immaginare una corporazione di artigiani e musicisti borghesi che ancora vivano la doppia dimensione del mestiere manuale e dell’arte. Ma è proprio da questa tensione che nasce la chiave interpretativa della regia. Wagner aveva intuito – ben prima di Marx – che la divisione del lavoro e l’alienazione fra capitale e attività creativa producevano un malessere sociale profondo. McVicar rende palpabile questa frattura: i Maestri diventano un gruppo di filistei ottusi, piccoli borghesi sorseggiatori di tè, incapaci di riconoscere la genuinità del canto di Walther. La loro rigidità di regole e la loro diffidenza verso il nuovo incarnano i limiti di un ordine sociale al tramonto.

In mezzo a loro si staglia Hans Sachs, la figura più complessa e sfaccettata dell’opera. È un uomo che non rinnega la tradizione, ma la interroga e la rielabora: vaglia il passato, ne salva le parti vitali e tenta di purificarlo dalle incrostazioni ideologiche. McVicar sottolinea questa tensione rendendo la volta gotica una presenza costante, che incombe su tutte le scene. Non è una gabbia opprimente, ma un monito: la tradizione non può essere ignorata né abbattuta, è un interlocutore con cui bisogna dialogare per costruire il futuro.

Il finale, spesso problematico per la sua celebrazione dell’“arte tedesca”, riceve così una nuova luce. Collocato nel contesto ottocentesco, l’appello di Sachs appare meno come una rivendicazione nazionalistica e più come un discorso universale. Wagner, vicino al movimento della “Junges Deutschland”, concepiva infatti l’arte come strumento politico e morale capace di curare le malattie dell’umanità intera. In quest’ottica, l’amore libero e anticonvenzionale di Walther ed Eva diventa la metafora di un rinnovamento culturale e sociale aperto, non esclusivo.

La regia dissemina rimandi iconografici eloquenti. Nel secondo atto, la fontana con la statua di un uomo in parrucca, penna e calamaio alla mano, richiama le immagini di Bach a Eisenach o di Metastasio a Roma: artisti che, pur partendo dalle regole, seppero trascenderle. Nel terzo atto, lo studio di Sachs è decorato con ritratti di Goethe, a ribadire il costante dialogo fra tradizione e modernità.

Uno dei momenti più intensi arriva proprio al congedo finale. Walther intona il suo “Preislied”, mentre Beckmesser, sconfitto e umiliato, piange in disparte. Sachs pronuncia il suo discorso, evocando i grandi nomi dell’arte tedesca – Dürer, Bach, Goethe, Schiller – ma con un gesto sottile include anche i Beckmesser e i Meyerbeer del mondo, riconoscendo loro un posto legittimo nella storia. La folla ignora il suo appello: un gelo serpeggia fra le note trionfali, e la celebrazione si colora di inquietudine.

Sul piano musicale, l’esecuzione ha sostenuto la visione registica con coerenza. Gerald Finley ha dato vita a un Hans Sachs di grande spessore: voce matura e morbida, intrisa di umanità e meditazione, priva di asprezze. Particolarmente efficace la caratterizzazione di Beckmesser. Johannes Martin Kränzle lo interpreta con finezza: pedante e caricaturale, ma anche vulnerabile e struggente. Il suo aspetto, volutamente somigliante a quello di Giacomo Meyerbeer – il compositore ebreo tanto odiato da Wagner – conferisce al personaggio un valore simbolico ulteriore. Walther è un giovane ufficiale affascinante, dalle movenze militari e dal fascino virile e Marco Jentzsch lo incarna in modo vigoroso e sensuale, mentre Eva trova in Anna Gabler un’interpretazione un po’ meno convincente, limitata da qualche mancanza di brillantezza vocale. Alastair Miles si rivela un solido Veit Pogner e Topi Lehtipuu un David dalla voce luminosa. Saldo il coro, anche nei passaggi più complessi – nonostante qualche scelta discutibile, come le coreografie in stile Broadway degli apprendisti.

Alla guida dell’orchestra, Vladimir Jurowski conferma il suo crescente talento wagneriano. Dopo un preludio iniziale forse troppo incalzante, sa calibrare con intelligenza i contrasti dinamici, mantenendo un equilibrio naturale fra slancio e lirismo. Il risultato è un tessuto sonoro fluido, capace di restituire tanto la vitalità festosa quanto le ombre che la regia aveva intessuto nella vicenda.

La forza di questa produzione sta nel suo coraggio di abitare le ambiguità dell’opera senza nasconderle né semplificarle. McVicar non assolve Wagner né lo condanna: lo restituisce nella sua complessità, mostrando i Meistersinger come un’opera profondamente umana, dove la festa convive con l’esclusione, la gioia con la malinconia, il senso comunitario con il rischio del fanatismo.

In definitiva, la lettura di Glyndebourne dimostra che Die Meistersinger von Nürnberg non è solo una celebrazione della cultura tedesca, né semplicemente una commedia brillante. È, piuttosto, una riflessione sulla possibilità di conciliare passato e presente, regola e libertà, comunità e individuo. Un’opera che, a distanza di oltre 150 anni, continua a parlarci perché pone domande universali. Wagner vedeva nell’arte uno strumento politico, non nel senso riduttivo della propaganda, ma come visione di un ordine più autentico e giusto. Ed è questa tensione che McVicar, Jurowski e gli interpreti hanno saputo restituire con straordinaria efficacia.

Lingotto Musica

foto © Mattia Gaido

Carl Maria von Weber, Ouverture da Der Freischütz

Ludwig van Beethoven, Concerto per pianoforte e orchestra n° 3 in do minore op. 37
Allegro con brio
Largo
Rondò. Allegro

Johannes Brahms, Sinfonia n° 4 in mi minore op. 98
Allegro non troppo
Andante moderato
Allegro giocoso
Allegro energico e passionato

Die Deutsche Kammerphilharmonie Bremen, Riccardo Minasi direttore, Beatrice Rana pianoforte

Torino, Auditorium Agnelli, 2 ottobre 2025

Tra chiarezza e passione: il Lingotto si apre con Brahms e Beethoven

«Dei quattro movimenti della Quarta sinfonia di Brahms, il primo possiede almeno l’apparenza di vitalità, ma come gli altri tre è caratterizzato dal vizio inveterato di Brahms: una profonda mancanza di idee». Così scriveva il “New York Post” il 13 dicembre 1886. Poco dopo rincarava la dose il “Musical Courier” quando il 19 gennaio 1887 affermava: «In questa Quarta sinfonia troviamo davvero poco da raccomandare al pubblico amante della musica. L’orchestrazione è, come nella maggior parte dei lavori di Brahms, di una certa monotonia, piuttosto spessa e appiccicosa come il caucciù. A Brahms evidentemente mancano l’ampiezza e la forza proprie dell’invenzione che sono così necessarie per la realizzazione di un lavoro sinfonico davvero grande»…

(il seguito su Le Salon Musical)