foto © Gianfranco Rota
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Gaetano Donizetti, Caterina Cornaro
Bergamo, Teatro Donizetti, 14 novembre 2025
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Dal trono alla sala operatoria: Caterina Cornaro secondo Francesco Micheli
La nuova edizione critica di Caterina Cornaro inaugura il Donizetti Opera restituendo l’opera nella sua forma originale. Riccardo Frizza ne valorizza la scrittura orchestrale, sostenuto da un cast maschile eccellente e da una Carmela Remigio autorevole. La regia di Micheli introduce una Caterina contemporanea, soluzione visivamente efficace ma accolta con opinioni contrastanti.
Per una strana convergenza di interessi culturali e storici, nei primi anni ’40 dell’Ottocento tornò d’attualità la figura di Caterina Corner (1454-1510) costretta dal Consiglio dei Dieci di Venezia prima a sposare il re di Cipro e poi, alla morte del consorte, ad abdicare, sempre per ragioni politiche, ossia per lasciare il governo dell’isola direttamente alla Serenissima.
Dopo il ritratto coevo di Bellini e quelli postumi di Tiziano e Dürer, nel 1842 fu Francesco Hayez a restituirne un’immagine nell’allora dominante gusto romantico e orientalista. La regina, in un abito damascato dai ricchi panneggi, siede su un trono coperto di cuscini e di una pelle di leopardo; intorno a lei le ancelle, mentre di fronte le sta il fratello, inviato del Consiglio dei Dieci, che le indica oltre la finestra già aperta la bandiera di San Marco. Hayez toccava così un tema assai sentito nel clima pre-risorgimentale, quello dell’imperialismo veneziano e dell’oppressione del popolo cipriota.
Ma furono soprattutto le scene teatrali a popolarsi delle vicende drammatiche della sventurata Corner. Nel 1841 c’era stata la Reine de Chypre di Halévy e l’anno successivo Donizetti aveva iniziato la composizione della sua Caterina Cornaro su libretto di Giacomo Sacchero. Il lavoro fu interrotto dal Don Pasquale, ma l’opera risultò comunque pronta per il debutto a Vienna, dove però ne era andata in scena da poco un’altra, la Catharina Cornaro di Franz Lachner, compositore tedesco quasi dimenticato oggi ma assai reputato ai suoi tempi. La Caterina di Donizetti fu dirottata allora sul San Carlo di Napoli dove debuttò il 14 gennaio 1844 con scarso successo per la debole performance della cantante protagonista, il mezzosoprano Fanny Goldberg, ma non solo. Un fiasco previsto dallo stesso Donizetti: «Scrissi per un soprano, mi danno un mezzo! e Dio sa la censura qual macello ha fatto», si lamentava in una lettera pochi giorni prima del debutto. Per motivi di salute, il compositore non aveva infatti potuto presiedere personalmente alle prove e all’esecuzione: circostanza rischiosa, allora più che mai.
Dei due momenti nodali della vita della nobile veneziana, Donizetti e il librettista scelsero il primo, quello del matrimonio con Giacomo II di Lusignano, che costituisce il prologo dell’opera.
Prologo. Venezia. Il matrimonio fra Caterina e Gerardo viene interrotto inaspettatamente dall’ambasciatore Mocenigo, che comunica al padre della sposa che il Consiglio dei Dieci ha stabilito che Caterina dovrà sposare il re di Cipro Lusignano. Gerardo medita allora di rapire l’amata, ma Mocenigo terrorizza Caterina con la notizia che un’azione simile avrebbe avuto come conseguenza la condanna a morte di Gerardo: la donna non può far altro che mentire all’amato e dirgli che non lo ama più. Gerardo parte sconvolto.
Atto I. Nicosia. Il piano di Mocenigo prevede una rivolta per far sì che Venezia assuma il controllo dell’isola, e l’uccisione di Gerardo. Lusignano si è intanto reso conto che il suo matrimonio con Caterina non è altro che una mossa politica del Consiglio dei Dieci. Una banda di sgherri si prepara a tendere un’imboscata a Gerardo, che viene però salvato dall’intervento del re. Il giovane non riconosce subito il sovrano, e gli rivela i suoi sentimenti per Caterina e il suo dolore per il suo “tradimento”; poi però, quando viene a sapere che sta parlando col re in persona, si vergogna delle sue parole e chiede perdono. Lusignano e Gerardo si giurano amicizia, e Gerardo promette di proteggerlo contro la congiura. Lusignano, debole e ammalato, rivela a Caterina che ha saputo da Gerardo del suo passato; arriva proprio Gerardo, e i due innamorati possono chiarirsi. Caterina spiega al giovane perché, per ragioni politiche, ha dovuto rifiutarlo. Gerardo a sua volta informa Caterina della congiura per eliminare Lusignano, ma in quel momento arriva Mocenigo. L’ambasciatore vorrebbe che la stessa Caterina entri a far parte della congiura, ma interviene lo stesso Lusignano, che dichiara guerra a Venezia.
Atto II. Gerardo, fedele alla promessa data al re, ha scelto di schierarsi contro i Veneziani; le dame di corte, terrorizzate, assistono alla battaglia. Caterina è raccolta in preghiera, e riceve la lieta notizia della vittoria di Cipro; la sua gioia però dura poco: entra Lusignano, morente, sorretto da Gerardo. Il re muore, non prima però di aver affidato le sorti del popolo alla sposa. L’opera si conclude con un vibrante discorso patriottico di Caterina. In un finale alternativo Lusignano torna solo e morente e annuncia la morte di Gerardo che fino all’ultimo ha cercato di difendere il re.
La presenza di due finali alternativi indica il travaglio dell’opera massacrata dalla censura napoletana e dai cambiamenti all’ultimo minuto per adattarsi alla mediocrità degli interpreti. Quello che ora viene presentato ad apertura del Donizetti Opera di Bergamo, il festival della città che ha dato i natali al compositore, è frutto dell’elaborazione critica di Eleonora di Cintio che ha ripristinato il testo e la musica originali per restituire l’opera come l’aveva immaginata il suo autore.
La maggior differenza è nel finale, che abbandona il tono patriottico dell’ultima aria di Caterina rivolto ai compatrioti ciprioti – «voi sorgeste dai vostri dolori; | fur protette le giuste bandiere, | furon vinti i codardi oppressori» – per una conclusione più stringata e tragica dove la regina, alla notizia della morte di Lusignano, risponde: «Spirò! Ah, l’amaro calice | vuotato ancor non ho!». Così si conclude l’ultima opera scritta da Donizetti, prima della sua reclusione nel manicomio vicino a Parigi.
La struttura dell’opera è stranamente squilibrata, con un prologo particolarmente esteso formato da un’introduzione, un coro di gondolieri, una scena e aria di Caterina e successiva scena e duetto di Caterina e Gerardo. Il primo atto prevede un preludio, scena e cavatina di Mocenico, scena e romanza di Lusignano, coro di sgherri, scena e duetto Gerardo/Lusignano e finale primo. Brevissimo il secondo atto, con soli due “numeri”: scena e aria di Gerardo e finale.
Le intenzioni originali di Donizetti vengono per la prima volta realizzate dal direttore artistico del festival Riccardo Frizza che, alla guida dell’Orchestra Donizetti Opera, illumina la ricca scrittura orchestrale che evidenzia i contrasti su cui si regge la musica. I tempi sono precisissimi, forse fin troppo controllati – qualche “fiamma” in più avrebbe reso più coinvolgente l’ultimo lavoro del Bergamasco – e sempre ben calibrato l’equilibrio tra la buca e i cantanti.
Il versante maschile del cast è di altissimo livello. Enea Scala offre un Gerardo impetuoso, cui Donizetti regala una cabaletta del secondo atto che potrebbe quasi sembrare del giovane Verdi e che il tenore affronta con il suo squillo luminoso e potentemente proiettato. Le oscillazioni romantiche del personaggio sono rese con grande abilità e con gli ampi mezzi vocali che gli si riconoscono. Vito Priante è un Lusignano ideale che nella pagina dell’arioso reintegrato, presente solo ora, dispiega i suoi accenti più nobili. Il perfido Mocenigo trova nella presenza elegante e tagliente di Riccardo Fassi un interprete difficilmente superabile.. Buoni anche lo Strozzi di Francesco Lucii e la Matilde di Vittoria Vimercati.
Quanto alla protagonista, Carmela Remigio conferma la dedizione con cui affronta ogni figura femminile. Qui deve incarnare una donna che rinuncia all’amato sull’orlo dell’altare, mente per salvarlo, accetta il marito impostole, ne è fedele, lo accompagna la malattia e ne piange la morte portandone in grembo il figlio. Grazie alle sue capacità attoriali, la Remigio rende credibile la doppia Caterina voluta dalla regia, con tormenti e rassegnazione. Meno persuasiva la prova vocale: timbro un po’ appannato e qualche eccesso espressivo, sebbene meno vistoso del solito. Il pubblico l’ha comunque accolta calorosamente, come pure gli altri interpreti e il coro dell’Accademia del Teatro alla Scala.
Agli applausi scroscianti si sono affiancati però sonori dissensi all’ingresso del regista Francesco Micheli, l’ex direttore artistico del Festival, la cui messa in scena – destinata anche a Madrid – non ha convinto tutti.
Non imbarazzato dalla rarità del titolo – l’ultima produzione degna di nota rimane quella bergamasca del 1995 diretta da Gavazzeni, con le scene ispirate ai disegni ottocenteschi di Alessandro Sanquirico – Micheli affianca alla debole drammaturgia dell’opera una narrazione parallela ambientata nella contemporaneità. Accanto alla Caterina storica e a quella dell’opera, introduce una “Caterina di oggi”: una giovane in viaggio di nozze a Venezia, incinta di un marito malato, affascinata dalla figura della regina. Nei suoi “sogni”, il medico che tenta di salvare il marito assume le fattezze dell’amato Gerardo, dettaglio che rende ancora più sfaccettata la lettura registica. Con abilità consumata Micheli passa da un piano all’altro, aiutato dalla scenografia di Matteo Paoletti Franzato, che sulla piattaforma girevole alterna ambienti ospedalieri a un frontone rinascimentale; dalle luci di Alessandro Andreoli; dai sontuosi costumi di Alessio Rosati; e dal visual design di Matteo Castiglioni. Con la consulenza drammaturgica di Alberto Mattioli, le due storie scorrono con fluidità e qualche tocco ironico – i gesti stilizzati del coro, il pugnale (chiamato “stile” nel discutibile libretto di Sacchero) trasformato in bisturi… – che però non ha convinto una parte del pubblico.
Forse esisteva una via più semplice o più tradizionale per mettere in scena un lavoro così problematico e non del tutto compiuto come quest’ultimo Donizetti. Ma la lettura proposta, visualmente pregevole, si è rivelata intrigante e assolutamente non in contrasto con la musica. Il che non è poco.
⸪
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