foto © Andrea Macchia
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Dracula
testo di Fabrizio Sinisi dal romanzo di Bram Stoker
regia di Andrea de Rosa
Torino, Teatro Astra, 18 novembre 2025
Dracula: l’eternità che fa male
Dopo “Buchi neri”, “Cecità”, “Fantasmi”, il nuovo triennio del TPE, ancora con la direzione di Andrea de Rosa, si intitola “Persone” e nei prossimi tre anni verrà declinato come “Mostri”, “Guerra”, “Amore”. Quest’anno inizia appunto con “Mostri” e lo spettacolo di Andrea De Rosa trasforma il Teatro Astra in una cattedrale gotica immersiva. Federica Rosellini offre un vampiro simbolico e dolente, intrappolato in un’immortalità senza pace. La drammaturgia di Fabrizio Sinisi unisce lirismo e orrore in un’esperienza sensoriale totale, tra luci, suoni e visioni che riflettono le nostre paure più profonde.
Il TPE inaugura la stagione 2025/26 con un colpo di teatro che è anche un colpo al cuore: Dracula, una nuova produzione firmata dal regista Andrea De Rosa e dal drammaturgo Fabrizio Sinisi, liberamente ispirata al romanzo di Bram Stoker. Ma “liberamente” è dir poco: qui il mito del vampiro si scolla dalle sue tradizioni gotiche più consumate per trasformarsi in un’indagine lancinante sul desiderio d’immortalità, sulla carne che non muore e, proprio per questo, condanna chi la abita a un’esistenza interminabile e insopportabile. Dracula non è più solo il conte maledetto: è una forma di dolore che insiste, che torna, che non si estingue.
Entrare nel Teatro Astra equivale a oltrepassare la soglia del castello del Conte. De Rosa ha infatti trasformato lo spazio scenico – anzi, l’intero edificio – in una sorta di cattedrale spettrale. Il pubblico affronta un corridoio stretto, quasi un tunnel iniziatico, prima di spalancare una porta ed essere inghiottito da una sala alta, scura, vertiginosa. Le luci rasentano il nulla, i suoni – ferrigni, taglienti – arrivano da ogni lato come un assedio acustico: sopra, sotto, dietro, da punti impossibili da localizzare. È esattamente da questa perdita di orientamento che nasce il primo, potente effetto dello spettacolo: lo spaesamento. Un turbamento che non viene smorzato ma, al contrario, intensificato per tutto il corso della messinscena.
L’ombra di Nosferatu si allunga sulle finestre altissime; rumori sinistri scendono dal graticcio; parole disincarnate affiorano nel buio prima di aderire come ectoplasmi ai corpi in scena. Al centro dello spazio, tre tavoli autoptici, come in un obitorio fuori dal tempo. Su quello centrale, il corpo lattiginoso di una giovane donna; sopra di lei, sospeso a tubi traslucidi che somigliano a vene giganti, pulsa un enorme cuore. È in questo ambiente viscerale e rituale che fa la sua comparsa il Dracula di Federica Rosellini, interpretazione magnetica che tiene insieme ferocia e struggimento, inquietudine e pietà. Il suo vampiro non è un mostro che terrorizza, ma un essere che, non potendo morire, è condannato alla più radicale delle solitudini: quella di chi ama troppo per poter semplicemente svanire.
Sinisi, nella sua drammaturgia, abbraccia un ritmo quasi poetico: meno dialoghi, più monologhi che sanno di canto e di meditazione, flussi verbali che trascinano lo spettatore dal lirismo all’orrore fino a una sorta di vertiginosa lucidità finale. Dracula diventa una lunga lettera interiore, un ragionamento per immagini e sangue, un tentativo disperato di decifrare cosa significhi esistere ai margini della morte senza potervi precipitare del tutto.
Federica Rosellini compie un gesto quasi sacrale: restituisce il personaggio alla sua dimensione simbolica, trascendendo ogni riferimento di genere. Il suo Dracula è un’entità ferita che ha disimparato l’umanità, che non riconosce più i confini morali, affettivi, persino temporali dell’essere umano. Vive in una “luccicanza dannata”, sempre troppo tardi per amare, troppo tardi per redimersi, troppo tardi per rinunciare al desiderio che lo distrugge. In questo senso, il tema dell’immortalità si allarga a una riflessione universale: quante volte, anche noi, capiamo il senso di un amore, di un rapporto, di un gesto, quando l’orchestra ha già smesso di suonare? Dracula diventa un ammonimento: l’eternità è una condanna quando si ama fuori tempo massimo.
Nello spettacolo affiora anche un’altra chiave interpretativa: l’immortalità come risposta violenta alla paura di morire. E il Male – quello umano, quello storico, quello che attraversa guerre, massacri, violenze – emerge come figlio diretto di questa fame di permanenza, come se per sopravvivere fosse necessario sacrificare qualcun altro. Il mostro è dunque specchio dell’uomo: non fa male perché brutto, ma perché terribile. La bruttezza è innocua; la terribilità è devastazione pura.
Dracula, d’altronde, resta una figura unica nella letteratura mondiale: un personaggio che cerca la grazia attraverso la propria dannazione, che tenta – paradossalmente – una sorta di salvezza tramite il crimine commesso in nome dell’amore. La scelta di affidare il ruolo a un’interprete femminile non è un vezzo ma un’intuizione che restituisce al mito una universalità più ampia: il Male e il Mostro abitano chiunque, non hanno sesso, non hanno volto stabile.
Nella parte finale, lo spettacolo cambia tono: l’incontro tra Dracula e Mina, che lui crede la reincarnazione della moglie uccisa secoli prima, porta la regia verso un registro più diretto, quasi cinematografico. Le luci si aprono, il ritmo accelera, il sangue – fino a quel momento solo evocato – ora scorre esplicitamente, tingendo la scena. È un cambiamento spiazzante ma coerente: dopo l’incantamento iniziale, ecco il risveglio brutale della realtà.
Anche il Teatro Astra, spogliato delle sue sedute e riconfigurato in altezza e ampiezza, diventa una creatura viva: lo spazio si dilata per contenere un’esperienza totale, un viaggio nel cuore del gotico e della sua eredità più inquietante. Il tema della stagione è “Mostri” e questo Dracula non solo rispetta il titolo, ma lo incarna in ogni fibra.
Sinisi e De Rosa lavorano con determinazione sulla materia narrativa originaria, riaccendendo il fascino esotico e oscuro del romanzo di Stoker: leggende antiche, guerre sanguinarie, epidemie medievali, atrocità sospese nel tempo, tutto filtrato attraverso una scrittura che alterna lirismo e crudeltà, visioni e anatomie. Dracula non è mai semplice da affrontare: ogni epoca rilegge il vampiro secondo la propria ossessione, e questa produzione lo trasforma nell’archetipo di un’umanità che ha perso l’orientamento, che ha paura di finire e allo stesso tempo teme di restare troppo a lungo.
Accanto alla Rosellini e alla intensa Chiara Ferrara, meritano una menzione anche Michelangelo Dalisi, Marco Divsic e Michele Eburnea, che contribuiscono a creare un microcosmo emotivo disturbante e perfettamente calibrato. Di altissimo livello il lavoro sonoro di G.U.P. Alcaro, un paesaggio acustico che pare respirare, ringhiare, quasi vivere; e straordinaria la cura luministica di Pasquale Mari, che scolpisce le ombre come materiali fisici.
Nelle sue note di regia, De Rosa sintetizza la filosofia del progetto: Dracula è la storia di un uomo che non riesce a morire. Ed è anche la storia di un pubblico che accetta di guardare dentro questo desiderio impossibile. Il castello del vampiro diventa teatro d’apparizioni, spazio dove tempo e sogno si deformano, un altare spettrale in cui si celebra un rito antico e modernissimo. Tutto lo spettacolo, soprattutto nella sua prima parte, evoca con eleganza il cinema espressionista tedesco, il Nosferatu di Murnau, e il barocco visionario del film di Coppola del 1992. Poi, quando il mito si avvicina ai nostri nervi scoperti, la scena si fa più realistica: il sangue invade, la metafora si scioglie, resta la carne.
Ne esce un Dracula che non rassicura, non chiude, non consola. È uno spettacolo che inquieta, seduce, fa pensare, lascia dentro una vibrazione che continua a pulsare ben oltre la fine.
Da vedere assolutamente: al Teatro Astra fino al 30 novembre. Un viaggio dentro il buio che non si dimentica facilmente.
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