foto © Gianluca Pantaleo
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William Shakespeare, Riccardo III
regia di Antonio Latella
Firenze, Teatro della Pergola, 4 dicembre 2025
Il bianco che acceca: il Riccardo III di Latella e la seduzione del male
Antonio Latella rilegge Riccardo III vestendo di bianco il male e privando il protagonista della storica deformità, scelta che però indebolisce il fascino tragico del personaggio. Forte la scenografia simbolica e l’idea del Custode onnipresente. Meno riuscito l’uso dei microfoni. Marchioni domina un cast diseguale in uno spettacolo suggestivo ma teoricamente sbilanciato.
È il bianco il colore del male? A giudicare dal nuovo Riccardo III di Antonio Latella, parrebbe di sì. Il regista ribalta l’immaginario cromatico e trasforma uno dei personaggi più spietati della cultura occidentale in una figura vestita di un candore accecante: un bianco che non assolve, ma smaschera; non purifica, ma corrode. Bianche sono le rose della casa di York, dunque bianchi i fiori del giardino in cui Latella ambienta la vertiginosa scalata del monarca sanguinario: un giardino non di delizie, ma di nequizie. Qui il male germoglia nella bellezza, non nella bruttezza: Dostoevskij direbbe che la bellezza salva il mondo; Latella gli risponde che può anche rovinarlo.
A esplicitare la chiave di lettura è lo stesso interprete protagonista, Vinicio Marchioni: «In genere si è portati a pensare che il male stia soltanto nella deformità e nella bruttezza. […] Da sempre nella storia dell’umanità c’è stata la necessità di trovare un capro espiatorio e nel caso del Riccardo III il personaggio si adatta perfettamente a questa esigenza rassicurante. […] Il vero problema, però, è quando il male diventa affascinante e narcisistico, quando riesce a convincere gli altri di non esserlo ed esprime tutta la sua potenza ammaliatrice». Parole che chiariscono l’intenzione del regista: cancellare l’ombra della deformità fisica e consegnarci un Riccardo tutt’altro che repellente, anzi seducente, attraente. È qui, però, che l’operazione inciampa.
Privato della sua storica storpiatura, Riccardo perde quel paradossale magnetismo che Shakespeare gli ha cucito addosso: l’abilità di ammaliare nonostante l’aspetto ripugnante. Il fascino disturbante di figure come lo straordinario Ian McKellen nella celebre versione teatrale e poi cinematografica diretta da Richard Loncraine nasceva proprio dal conflitto fra repulsione e carisma, fra deformità e lucidissima intelligenza. Latella rinuncia a questo cardine drammaturgico, e con esso rinuncia a una parte essenziale dell’impianto tragico: il personaggio, così, rischia di non irradiarsi più nelle sue contraddizioni, e le premesse teoriche — per quanto interessanti — rimangono sulla carta, senza trasformarsi in necessità scenica. Lo spettacolo parte lentamente, poi il ritmo aumenta, ma la costruzione del protagonista resta sbilanciata: elegante, sì, ma depotenziata.
La scenografia di Annelisa Zaccheria è dominata da un tronco d’albero cavo, varco attraverso il quale Riccardo fa il suo primo ingresso. È l’utero maledetto da cui la madre Elisabetta rimpiange di aver generato un tale figlio; è la porta d’accesso a un mondo naturalistico eppure innaturale, dove al cinguettio degli uccelli si intreccia il sibilo del serpente, e con essi l’ombra del cinghiale e del rospo — animali da sempre legati all’immaginario del personaggio. Sul fondo, teli traslucidi separano l’aldilà dal regno dei vivi, evocando un oltremondo pronto a inghiottire chi cade vittima della sua ambizione. Ai lati del palcoscenico, gli attori attendono in vista la loro entrata, nei costumi settecenteschi di Simona D’Amico: una scelta suggestiva, ma che indulge a un eccesso didascalico quando veste di rosso Richmond, come a precisare a ogni costo la sua appartenenza alla casata della rosa rossa.
In questo impianto visivo volutamente statico, scolpito dalle luci implacabili di Simone de Angelis, a emergere è la parola shakespeariana, restituita nella sciolta traduzione di Federico Bellini. Il testo diventa la materia incandescente dello spettacolo: i monologhi, a cominciare da quello celeberrimo in cui Riccardo enuncia il suo “scontento”, funzionano come confessioni a cuore aperto di un uomo che parla direttamente allo spettatore. Mentre i duetti sono spesso un corpo a corpo emotivo: sconvolgente la scena con Anna, a cui Riccardo ha appena ucciso il marito ma che riesce comunque a sedurre; lacerante il confronto con la madre, dove il rancore familiare diventa destino.
Dove Latella convince di più è nella figura del Custode della Torre: un personaggio potenziato, trasformato in assistente onnipresente del protagonista. È lui a predisporre materialmente gli orrori, a segnare verbalmente («Muori!») il momento del trapasso delle vittime, fino a diventare il fulcro del colpo di scena finale. Una scelta felice, che conferisce compattezza all’intelaiatura narrativa e offre al pubblico un angelo (o demone) della morte sempre in agguato. Peccato che il giovane interprete, pur convincente, abbia una dizione talvolta impastata.
A complicare ulteriormente il quadro c’è poi l’uso dei microfoni, che appiattisce le timbriche e rende le voci quasi indistinguibili — un problema non secondario in una tragedia che vive di parola, ritmo e vocalità. Accanto alla presenza magnetica di Vinicio Marchioni, che alterna scatti d’ira a un’insinuante cortesia, si muove un cast numeroso e diseguale: Silvia Ajelli, Anna Coppola, Flavio Capuzzo Dolcetta, Sebastian Luque Herrera, Luca Ingravalle, Giulia Mazzarino, Candida Nieri, Stefano Patti, Annibale Pavone e Andrea Sorrentino offrono una prova complessivamente solida ma con momenti alterni, per intensità e tenuta drammatica.
Lo spettacolo, coprodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria e dal LAC Lugano Arte Cultura, dopo lo Strehler di Milano approda ora a Firenze. Da qui proseguirà un fitto percorso che lo porterà già questo mese al Carignano di Torino, poi al Duse di Bologna, al Piccinni di Bari e al Mercadante di Napoli.
⸪