foto © Salvatore Laporta
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Ennio Morricone, Partenope
Napoli, Teatro di San Carlo, 12 dicembre 2025
Cristina Voena è stata alla Partenope di Napoli. Ecco il suo resoconto.
Morricone lontano dal cinema: Partenope tra attese tradite e teatro immobile
Presentata come evento simbolo di Napoli Millenaria, l’unica opera di Ennio Morricone delude le attese. La scrittura d’avanguardia e la forma oratoriale spiazzano il pubblico, mentre la regia statica di Vanessa Beecroft riduce il mito di Partenope a un tableau immobile. Ne risulta uno spettacolo freddo, accolto con applausi di cortesia.
Doveva essere una grande occasione, una di quelle destinate a entrare nella memoria culturale di una città. Nell’ambito di Napoli Millenaria, il vasto contenitore di eventi pensato per celebrare i 2500 anni dalla fondazione di Neapolis, il cartellone del Teatro annunciava infatti un titolo dal forte valore simbolico: Partenope, l’unica opera lirica composta da Ennio Morricone. Un evento presentato come storico, impreziosito da un libretto firmato da due figure molto amate dal pubblico della musica colta, Sandro Cappelletto e Guido Barbieri, e caricato di un’aura quasi leggendaria dal fatto che lo spettacolo, nato nel 2008 per il Piccolo Festival di Positano e rappresentato allora in forma di concerto, non fosse mai stato realmente messo in scena. A suggellare l’operazione, una regia affidata a una personalità di grande notorietà come Vanessa Beecroft, artista che ha costruito la propria fama internazionale nel campo della performing art.
Anche sul piano degli interpreti, le premesse sembravano promettere un esito di alto profilo. La protagonista è affidata a una voce sdoppiata, incarnata da due autentiche “sirene” del canto contemporaneo: Maria Agresta, salernitana doc, e Jessica Pratt, australiana di nascita ma napoletana per scelta di vita e sensibilità artistica. A dare corpo e parola al mito in vernacolo è Mimmo Borrelli, attore, regista e drammaturgo profondamente radicato nella tradizione teatrale partenopea, mentre il tenore Francesco Demuro, il mezzosoprano Désirée Giove e il direttore Riccardo Frizza provengono dalla Medea di Cherubini allestita in contemporanea sullo stesso palcoscenico, creando un curioso cortocircuito produttivo e simbolico tra due mondi musicali diversi.
Dopo il saluto del sovrintendente e dei due librettisti, tuttavia, già alle prime battute musicali iniziano a manifestarsi le incertezze di una parte consistente del pubblico. Chi si aspettava il Morricone delle celebri colonne sonore cinematografiche, quello delle melodie immediatamente riconoscibili e della forza evocativa diretta, si trova di fronte tutt’altro compositore: l’autore d’avanguardia, l’allievo geniale di Goffredo Petrassi, il membro storico dell’ensemble Nuova Consonanza. È lo stesso Morricone a chiarire l’impianto della partitura: «Considerato l’argomento, Napoli e la mitologia classica, la partitura è organizzata tutta su due tetracordi discendenti e sei suoni. La modalità è la libertà assoluta». Una dichiarazione che rivendica con orgoglio la radicalità della scrittura, ma che contribuisce anche ad alimentare un senso di spaesamento tra gli spettatori meno preparati a questo versante della sua produzione. In sala, quasi impercettibile ma reale, inizia a serpeggiare una forma di panico.
Neppure l’impianto scenico viene incontro alle attese. Lo spettacolo assume infatti la forma di un oratorio: i cantanti restano perlopiù immobili a leggii disposti ai lati del palcoscenico; solo il narratore, e in un’unica occasione il tenore, si spostano verso il centro della scena per rivolgersi direttamente al pubblico. Il ruolo di Partenope è affidato simultaneamente ai due soprani, che recitano e cantano in contemporanea, come se il personaggio fosse costantemente scisso tra due nature, mentre Persefone è evocata esclusivamente attraverso la voce registrata del mezzosoprano, presenza lontana, sottratta allo sguardo, coerente con la sua condizione di prigionia negli Inferi.
La trama rielabora liberamente il mito del ratto di Persefone da parte di Ade, che la rinchiude nel regno dei morti. La sorella Partenope, animata da un amore assoluto, chiede agli dèi delle ali per andare alla sua ricerca e si trasforma in sirena. Nonostante il voto di castità, Dioniso le consente la discesa agli inferi solo attraverso il tramite del vino e della carne, elementi dionisiaci per eccellenza. La sirena sposa Melanio, che la vince nel canto, ma lo sposo viene ucciso dai pastori traci in preda all’ubriachezza. Disperata, Partenope decide di togliersi la vita; Dioniso interviene e la colloca in cielo, nella costellazione della Vergine. Ma il mito non si chiude qui: la fanciulla si getta in mare per continuare la ricerca di Persefone, e il suo corpo senza vita approda sulle coste della Campania, dove diventa la dea protettrice della città nuova, Neapolis.
Il testo poetico procede per allusioni, simboli e immagini liriche. Da un lato Partenope si trasfigura in una figura quasi mariana, vergine e madre insieme; dall’altro il narratore riporta il mito a una dimensione popolare, quotidiana, terragna. Il coro, composto esclusivamente da voci femminili, ha il compito di narrare e commentare la vicenda, ma la rarefazione del linguaggio e la densità simbolica rendono spesso difficile seguire con chiarezza il filo del racconto.
Il problema principale della serata, oltre al fraintendimento sul carattere della musica, si rivela però la sostanziale staticità della messa in scena di Vanessa Beecroft. Celeberrima per i suoi tableaux vivants basati sui corpi femminili, l’artista trasporta in palcoscenico uno dei suoi dispositivi più riconoscibili, “poltrona fantasma” inclusa. L’apertura del sipario è indubbiamente suggestiva: la graduale apparizione del coro e delle performer, mentre una nebbia luminosa si dirada, crea un’immagine di forte impatto visivo. Ma, di fatto, l’azione sembra esaurirsi lì.
Luci fisse, cantanti immobili, movimenti del coro ridotti al minimo; una ballerina che accenna pochi gesti coreografici, un paio di ali divise tra due figuranti come unico elemento scenico realmente leggibile. Il teatro, però, è altra cosa rispetto alla performing art e richiede almeno un minimo di sviluppo drammatico. Così i 55 minuti complessivi di durata finiscono per apparire molto più lunghi. Allestito in un piccolo festival, come previsto in origine, o inserito in una stagione concertistica, lo spettacolo avrebbe probabilmente incontrato il suo pubblico naturale. In questo contesto, invece, l’esito è stato un’accoglienza fredda, stemperata solo da qualche applauso di cortesia in un teatro strapieno.
⸪
