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Bernard Herrmann, Vertigo. Suite
Prelude – The Nightmare – Scène d’amour
Igor Stravinskij, Le baiser de la fée. Divertimento. Suite sinfonica dal balletto
Pëtr Il’ič Čajkovskij, Sinfonia n. 6 in si minore, op. 74, “Patetica”
Adagio – Allegro non troppo…
Allegro con grazia – Con dolcezza flebile
Allegro molto vivace
Finale. Adagio lamentoso – Andante
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Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, Juraj Valčuha direttore
Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 12 dicembre 2025
Dal thriller alla fiaba, fino alla tragedia: la geometria emotiva di una serata con Juraj Valčuha e l’OSN RAI
La Stagione dei Concerti dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI prosegue le esplorazioni nel repertorio cinematografico. Dopo l’originale trittico inaugurale dedicato al cinema muto, il settimo appuntamento si apre con una delle partiture più paradigmatiche del rapporto fra immagine e suono nella storia del cinema: le musiche composte da Bernard Herrmann per Vertigo (La donna che visse due volte, 1958) di Alfred Hitchcock. Chiamarla “colonna sonora” risulta qui quasi riduttivo: è difficile immaginare l’impianto drammaturgico del film senza la sua componente musicale, che ne costituisce non un semplice commento, ma una indispensabile matrice psicologica.
Formatosi come direttore d’orchestra, Bernard Herrmann (1911–1975) muove i primi passi nella radio accanto a Orson Welles e approda al cinema con Citizen Kane. Nella collaborazione con Hitchcock trova il proprio terreno elettivo, imponendosi come uno dei più radicali innovatori del linguaggio musicale per il cinema: la sua scrittura non illustra l’azione, bensì la scava, la anticipa, la disarticola. Le sue partiture, caratterizzate da ossessioni cicliche e soluzioni timbriche ardite, disegnano stati mentali più che situazioni visive; non stupisce che la sua ultima fatica, completata poco prima della morte, sia la partitura di Taxi Driver, anch’essa costruita come un ritratto sonoro della psicologia del protagonista.
Tra le creazioni più alte di Herrmann, Vertigo si configura come una vera e propria spirale musicale: l’immagine ricorrente di questo motivo geometrico, già dominante nei titoli di testa, trova un esatto corrispettivo nelle volute orchestrali, negli impasti cromatici, nelle oscillazioni armoniche che proiettano lo spettatore in una dimensione di desiderio inappagato e di ossessione crescente. L’orchestra non accompagna l’immagine: la interiorizza e la riemette trasfigurata. Nella Suite, i nuclei emotivi della partitura vengono ricomposti in un arco sinfonico compatto. Il Prelude, celebre e vorticoso, oppone la liquidità dell’arpa ai clangori degli ottoni, prima che gli archi impongano la loro cifra spiraliforme, immediata epifania dell’ossessione che pervade il film. Seguono i temi lirici di Madeleine, la misteriosa protagonista, figure melodiche sospese, modellate su progressioni armoniche fluttuanti. Scène d’Amour amplia il registro espressivo fino a un culmine estatico, quasi wagneriano, in cui desiderio e illusione confluiscono in un unico slancio emotivo. Le sezioni conclusive recuperano i motivi dell’inseguimento e della vertigine, alternando trasparenze diafane e blocchi sonori minacciosi. Nel suo insieme, la Suite funziona come un poema sinfonico dell’ossessione: un percorso circolare in cui ogni ritorno tematico non è che un avvitamento ulteriore nel labirinto emotivo del film.
A dirigere questa pagina, tanto celebre quanto coinvolgente, è Juraj Valčuha, Direttore Principale dell’OSN dal 2009 al 2016. Ogni suo ritorno sul podio torinese è salutato da un affetto non sopito, e anche in questa occasione il gesto combinato di rigore tecnico, sensibilità timbrica e comunicazione limpida permette al direttore – oggi alla guida della Houston Symphony – di mettere in luce la sorprendente autonomia sinfonica della musica herrmanniana, nata per il cinema ma pienamente autosufficiente nella sala da concerto.
Analoga attenzione alla microstruttura del suono caratterizza anche la pagina successiva, dedicata questa volta al balletto: Le baiser de la fée, composto da Igor Stravinskij nel 1928 per i Ballets Russes e rielaborato in forma di suite nel 1934, quindi nuovamente rivisto nel 1949. L’idea, annota l’autore, affonda le radici nel 1895, durante il suo primo soggiorno svizzero: un arco temporale quindi insolitamente esteso, che fa di Le baiser de la fée una delle sue opere di più lunga incubazione.
La trama della fiaba di Hans Christian Andersen è ridotta all’essenziale: una fata, bianca e glaciale, marca con un bacio un bambino destinato, ormai adulto, a essere sottratto al mondo umano. Stravinskij trasforma questo nucleo narrativo in un omaggio a Čajkovskij e al balletto tardo-romantico, inscrivendo la vicenda nel più ampio archetipo – riconoscibile da Les Sylphides a Giselle – dell’artista diviso tra realtà e trascendenza, tra ordine domestico e impulso alla fuga. La “bellezza che uccide”, incarnata dalle creature eteree del repertorio romantico, ritorna qui come figura ambigua e irresistibile, analoga alle Willi, o alla Regina della Montagna di rame del Fiore di pietra di Lavrovskij su musica di Prokof’ev.
Non stupisce che, a distanza di diciassette anni, qualche residuo dell’irriverenza di Petruška sembri affiorare qua e là nella nuova partitura, pur in forma addolcita, mentre l’orchestrazione mantiene la sua consueta brillantezza. Valčuha ne mette in risalto la complessità grazie all’impegno partecipe dei professori d’orchestra.
Dopo l’intervallo, il programma propone la Sesta Sinfonia di Pëtr Il’ič Čajkovskij, evocato poco prima da Stravinskij: la Patetica, pagina di enorme popolarità ma mai esaurita nella sua enigmatica profondità. L’impatto visivo dell’orchestra, ora drasticamente ridotta rispetto alla prima parte del concerto – legni dimezzati, percussioni limitate, assenza di tastiere – segnala immediatamente il ritorno a un organico romantico, misurato ma intenso. La lettura di Valčuha sembra voler sottrarre piuttosto che aggiungere: mai l’attacco del primo movimento è apparso così desolato, con l’Adagio introduttivo immerso in una sonorità scurissima, tenuemente oscillante tra pianissimo e piano. L’Allegro non troppo che segue introduce una sequenza di cambi di tempo – Adagio, Andante, Moderato mosso, Andante, Moderato assai, Allegro vivo, Andante come prima, Andante mosso – che assume quasi il carattere di una fluttuazione patologica.
Sebbene il secondo e il terzo movimento sembrino, in apparenza, offrirsi come spazi di sollievo, un’inquietudine sotterranea incrina i motivi di valzer dell’Allegro con grazia e il moto perpetuo del rondò-sonata dell’Allegro molto vivace, il cui tema di marcia – ancora una volta – provoca applausi intempestivi. A sovvertire ogni aspettativa è poi il quarto movimento, l’Adagio lamentoso, con cui il compositore sembra accomiatarsi dal mondo appena nove giorni prima della morte.
Citazioni tratte dalla liturgia funebre ortodossa ricorrono sia nel primo che nell’ultimo tempo di una sinfonia sorprendente per la struttura – il movimento lento, comunemente al secondo posto, qui è il tempo finale – e l’agogica, con dinamiche che vanno dal pianissimo (pppppp) al fortissimo (ffff). Elementi che dovettero lasciare sgomenti gli ascoltatori presenti alla prima pietroburghese del 16 ottobre 1893.
Sebbene molti direttori accentuino fino all’esasperazione il carattere cupamente disperato del finale, Valčuha opta per un approccio più misurato, esaltando la trasparenza della scrittura, le dinamiche controllate, i colori pastello, le ansanti pulsazioni ritmiche – eccellente, in particolare, la prova del timpanista Biagio Zoli. Ne scaturisce un Čajkovskij sorprendentemente poco romantico e più prossimo a una sensibilità mahleriana, quasi proto-novecentesca: un Čajkovskij, in definitiva, più moderno.
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