Concerto

Stagione Sinfonica RAI

Bernard Herrmann, Vertigo. Suite
Prelude – The Nightmare – Scène d’amour

Igor Stravinskij, Le baiser de la fée. Divertimento. Suite sinfonica dal balletto

Pëtr Il’ič Čajkovskij, Sinfonia n. 6 in si minore, op. 74, “Patetica”
Adagio – Allegro non troppo…
Allegro con grazia – Con dolcezza flebile
Allegro molto vivace
Finale. Adagio lamentoso – Andante

Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, Juraj Valčuha direttore

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 12 dicembre 2025

Dal thriller alla fiaba, fino alla tragedia: la geometria emotiva di una serata con Juraj Valčuha e l’OSN RAI

La Stagione dei Concerti dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI prosegue le esplorazioni nel repertorio cinematografico. Dopo l’originale trittico inaugurale dedicato al cinema muto, il settimo appuntamento si apre con una delle partiture più paradigmatiche del rapporto fra immagine e suono nella storia del cinema: le musiche composte da Bernard Herrmann per Vertigo (La donna che visse due volte, 1958) di Alfred Hitchcock. Chiamarla “colonna sonora” risulta qui quasi riduttivo: è difficile immaginare l’impianto drammaturgico del film senza la sua componente musicale, che ne costituisce non un semplice commento, ma una indispensabile matrice psicologica.

Formatosi come direttore d’orchestra, Bernard Herrmann (1911–1975) muove i primi passi nella radio accanto a Orson Welles e approda al cinema con Citizen Kane. Nella collaborazione con Hitchcock trova il proprio terreno elettivo, imponendosi come uno dei più radicali innovatori del linguaggio musicale per il cinema: la sua scrittura non illustra l’azione, bensì la scava, la anticipa, la disarticola. Le sue partiture, caratterizzate da ossessioni cicliche e soluzioni timbriche ardite, disegnano stati mentali più che situazioni visive; non stupisce che la sua ultima fatica, completata poco prima della morte, sia la partitura di Taxi Driver, anch’essa costruita come un ritratto sonoro della psicologia del protagonista.

Tra le creazioni più alte di Herrmann, Vertigo si configura come una vera e propria spirale musicale: l’immagine ricorrente di questo motivo geometrico, già dominante nei titoli di testa, trova un esatto corrispettivo nelle volute orchestrali, negli impasti cromatici, nelle oscillazioni armoniche che proiettano lo spettatore in una dimensione di desiderio inappagato e di ossessione crescente. L’orchestra non accompagna l’immagine: la interiorizza e la riemette trasfigurata. Nella Suite, i nuclei emotivi della partitura vengono ricomposti in un arco sinfonico compatto. Il Prelude, celebre e vorticoso, oppone la liquidità dell’arpa ai clangori degli ottoni, prima che gli archi impongano la loro cifra spiraliforme, immediata epifania dell’ossessione che pervade il film. Seguono i temi lirici di Madeleine, la misteriosa protagonista, figure melodiche sospese, modellate su progressioni armoniche fluttuanti. Scène d’Amour amplia il registro espressivo fino a un culmine estatico, quasi wagneriano, in cui desiderio e illusione confluiscono in un unico slancio emotivo. Le sezioni conclusive recuperano i motivi dell’inseguimento e della vertigine, alternando trasparenze diafane e blocchi sonori minacciosi. Nel suo insieme, la Suite funziona come un poema sinfonico dell’ossessione: un percorso circolare in cui ogni ritorno tematico non è che un avvitamento ulteriore nel labirinto emotivo del film.

A dirigere questa pagina, tanto celebre quanto coinvolgente, è Juraj Valčuha, Direttore Principale dell’OSN dal 2009 al 2016. Ogni suo ritorno sul podio torinese è salutato da un affetto non sopito, e anche in questa occasione il gesto combinato di rigore tecnico, sensibilità timbrica e comunicazione limpida permette al direttore – oggi alla guida della Houston Symphony – di mettere in luce la sorprendente autonomia sinfonica della musica herrmanniana, nata per il cinema ma pienamente autosufficiente nella sala da concerto.

Analoga attenzione alla microstruttura del suono caratterizza anche la pagina successiva, dedicata questa volta al balletto: Le baiser de la fée, composto da Igor Stravinskij nel 1928 per i Ballets Russes e rielaborato in forma di suite nel 1934, quindi nuovamente rivisto nel 1949. L’idea, annota l’autore, affonda le radici nel 1895, durante il suo primo soggiorno svizzero: un arco temporale quindi insolitamente esteso, che fa di Le baiser de la fée una delle sue opere di più lunga incubazione.

La trama della fiaba di Hans Christian Andersen è ridotta all’essenziale: una fata, bianca e glaciale, marca con un bacio un bambino destinato, ormai adulto, a essere sottratto al mondo umano. Stravinskij trasforma questo nucleo narrativo in un omaggio a Čajkovskij e al balletto tardo-romantico, inscrivendo la vicenda nel più ampio archetipo – riconoscibile da Les Sylphides a Giselle – dell’artista diviso tra realtà e trascendenza, tra ordine domestico e impulso alla fuga. La “bellezza che uccide”, incarnata dalle creature eteree del repertorio romantico, ritorna qui come figura ambigua e irresistibile, analoga alle Willi, o alla Regina della Montagna di rame del Fiore di pietra di Lavrovskij su musica di Prokof’ev.

Non stupisce che, a distanza di diciassette anni, qualche residuo dell’irriverenza di Petruška sembri affiorare qua e là nella nuova partitura, pur in forma addolcita, mentre l’orchestrazione mantiene la sua consueta brillantezza. Valčuha ne mette in risalto la complessità grazie all’impegno partecipe dei professori d’orchestra.

Dopo l’intervallo, il programma propone la Sesta Sinfonia di Pëtr Il’ič Čajkovskij, evocato poco prima da Stravinskij: la Patetica, pagina di enorme popolarità ma mai esaurita nella sua enigmatica profondità. L’impatto visivo dell’orchestra, ora drasticamente ridotta rispetto alla prima parte del concerto – legni dimezzati, percussioni limitate, assenza di tastiere – segnala immediatamente il ritorno a un organico romantico, misurato ma intenso. La lettura di Valčuha sembra voler sottrarre piuttosto che aggiungere: mai l’attacco del primo movimento è apparso così desolato, con l’Adagio introduttivo immerso in una sonorità scurissima, tenuemente oscillante tra pianissimo e piano. L’Allegro non troppo che segue introduce una sequenza di cambi di tempo – Adagio, Andante, Moderato mosso, Andante, Moderato assai, Allegro vivo, Andante come prima, Andante mosso – che assume quasi il carattere di una fluttuazione patologica.

Sebbene il secondo e il terzo movimento sembrino, in apparenza, offrirsi come spazi di sollievo, un’inquietudine sotterranea incrina i motivi di valzer dell’Allegro con grazia e il moto perpetuo del rondò-sonata dell’Allegro molto vivace, il cui tema di marcia – ancora una volta – provoca applausi intempestivi. A sovvertire ogni aspettativa è poi il quarto movimento, l’Adagio lamentoso, con cui il compositore sembra accomiatarsi dal mondo appena nove giorni prima della morte.

Citazioni tratte dalla liturgia funebre ortodossa ricorrono sia nel primo che nell’ultimo tempo di una sinfonia sorprendente per la struttura – il movimento lento, comunemente al secondo posto, qui è il tempo finale – e l’agogica, con dinamiche che vanno dal pianissimo (pppppp) al fortissimo (ffff). Elementi che dovettero lasciare sgomenti gli ascoltatori presenti alla prima pietroburghese del 16 ottobre 1893.

Sebbene molti direttori accentuino fino all’esasperazione il carattere cupamente disperato del finale, Valčuha opta per un approccio più misurato, esaltando la trasparenza della scrittura, le dinamiche controllate, i colori pastello, le ansanti pulsazioni ritmiche – eccellente, in particolare, la prova del timpanista Biagio Zoli. Ne scaturisce un Čajkovskij sorprendentemente poco romantico e più prossimo a una sensibilità mahleriana, quasi proto-novecentesca: un Čajkovskij, in definitiva, più moderno.

Vedi anche su iltorinese.it

I Concerti del TRT

Pëtr Il’ič Čajkovskij, Francesca da Rimini fantasia sinfonica in mi minore op.32
Andante lugubre – Allegro vivo

Johannes Brahms, Schicksalslied (Canto del destino) op. 54
I. Lento e con espressione
II. Allegro
III. Postludio. Adagio

Arrigo Boito, “Prologo in cielo” dal Mefistofele
I. Preludio e coro
II. Scherzo strumentale
III. Intermezzo drammatico
IV. Scherzo vocale
V. Salmodia finale

Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Regio Torino

Andrea Battistoni direttore, Erwin Schrott basso

Torino, Teatro Regio, 18 ottobre 2025

Dall’Inferno al Paradiso con l’orchestra del Teatro Regio

È questo il viaggio che ci propone il concerto inaugurale della stagione sinfonica del Teatro Regio di Torino, “Abissi”. Ci guida Andrea Battistoni, che dopo la Francesca da Rimini di Zandonai con cui è iniziato il cartellone lirico, ci ripropone la stessa figura nell’omonima “fantasia sinfonica” composta da Čajkovskij nel 1876 e ispirata al celebre episodio del V canto dell’Inferno. Suggestionato dal dramma dei due amanti travolti dalla passione e puniti per l’eternità nella bufera infernale, il compositore traduce in suoni la potenza poetica e tragica del racconto. L’introduzione orchestrale, oscura e minacciosa, evoca l’ingresso di Dante e Virgilio nel cerchio dei lussuriosi, tra venti impetuosi e clamori disperati. Quando l’orchestra tace, il clarinetto intona un tema lamentoso: è la voce di Francesca che ci racconta la sua triste storia. L’episodio che segue, con quel tema melodico di struggente bellezza affidato ai legni e agli archi, rappresenta l’amore dei due protagonisti con la passione che si accende progressivamente fino a trasformarsi in un turbine sinfonico di straordinaria energia. Dopo l’apice drammatico, la musica si spegne in un epilogo mesto, segnato dalla pietà e dalla desolazione. Con Francesca da Rimini, Čajkovskij coniuga pathos operistico, virtuosismo orchestrale e introspezione psicologica, offrendo uno dei vertici del suo sinfonismo romantico e una delle più vibranti trasposizioni musicali di Dante. A memoria e con gesto ampio ed espressivo Battistoni ricrea la travolgente pagina con grande partecipazione, grazie all’impegno dei professori d’orchestra e, in primis, del clarinetto di Antonio Capolupo.

La meta finale del Paradiso è rappresentata in questo programma dal “Prologo in cielo” che apre il Mefistofele di Arrigo Boito, una delle pagine più originali e visionarie dell’opera italiana ottocentesca e fonte inesauribile di guilty pleasure. Ispirato al “Prolog im Himmel” del Faust di Goethe, mette in scena il dialogo tra Dio e Mefistofele, che si offre di tentare l’anima di Faust per dimostrare la corruttibilità dell’uomo. Boito trasforma questo momento filosofico e teologico in un affresco sonoro di straordinaria potenza, ma in equilibrio precario tra teatralità e puro kitsch. Ascoltandolo per l’ennesima volta non può non venire alla mente la realizzazione visiva che ne fece Robert Carsen nel suo geniale spettacolo del 1989 visto anche a Torino nel 2002, con un Paradiso che aveva l’aspetto di un teatro rococò con tanto di palchetti dorati e angeli dai boccoli d’oro in volo tra i panneggi dell’arco scenico. Nella direzione di Battistoni, peraltro precisa ed efficace, avremmo preferito una vena più ironica, che sottolineasse lo stile enfatico, retorico, eccessivo di Boito. In questa esecuzione in forma di concerto, invece, la musica forse viene presa fin troppo sul serio. Mancando l’aspetto visivo e scenico, anche all’intervento di Erwin Schrott, pur vocalmente pregevole Mefistofele, difetta quella dimensione mattatoriale che il basso uruguayano è solito portare in scena. Orchestra in formazione mastodontica quella schierata sul palcoscenico del teatro: ben quattro percussionisti, nove ottoni in scena e altri nove fuori scena, organo, due arpe. Determinante il ruolo del coro del teatro diretto come sempre con maestria da Ulisse Trabacchin mentre Claudio Fenoglio si occupa di quello di voci bianche, formato in massima parte da voci femminili (solo cinque su 34 i maschietti) – la tradizione dei cori maschili di voci bianche è pressoché sconosciuta nel nostro paese, mentre è ben salda in quelli di lingua inglese o tedesca, con Domspatzen, Sängerknaben o Knabenchor in ogni città dell’Austria e della Germania. La qualità dell’esecuzione e il finale in fortissimo strappano immancabilmente applausi entusiastici al pubblico.

E il Purgatorio? La stazione intermedia qui prende a modello il sublime Schicksalslied (Il canto del destino). Il lavoro di Brahms del 1871 per coro e orchestra. Certamente il brano meno spettacolare, ma il culmine estetico ed etico del concerto, una pagina di straordinaria intensità emotiva ispirata all’omonima poesia di Friedrich Hölderlin tratta da Hyperion in cui vengono contrapposti due mondi: quello sereno e luminoso degli dèi e quello tormentato degli uomini, soggetti al dolore e alla caducità. Brahms traduce questo contrasto in una musica che è un capolavoro di equilibrio tra forma classica e sentimento romantico, incarnando la tensione tra bellezza ideale e realtà dolorosa. La prima parte è una contemplazione estatica: gli dèi vivono “in luce eterna”, liberi da pena e tempo, sospesi in una purezza sonora che Brahms rende in un linguaggio corale limpido, classico, quasi apollineo, introdotto da una sezione strumentale dove archi e fiati, perfettamente assimilati, fluttuano in un’atmosfera eterea punteggiata dai sobri ma un po’ inquietanti battiti dei timpani. La seconda parte irrompe invece con un violento contrasto: l’uomo è segnato da destino crudele, la sua condizione “gettata da roccia a roccia come acqua che precipita”. Qui l’orchestra si fa tempestosa, la scrittura corale drammatica, la tonalità instabile. Il breve epilogo orchestrale riporta in forma trasfigurata la serenità iniziale: un gesto musicale che apre uno spiraglio alla consolazione, anche se il testo non la prevede. In questo senso, Brahms supera Hölderlin, sostituendo al pessimismo del poeta una speranza di riconciliazione attraverso la musica – l’arte – stessa. Il Direttore Musicale del Teatro Regio ne offre una lettura che accentua i contrasti emotivi del lavoro, con un primo movimento pieno di tenerezza estatica, una sezione centrale che esplode in un pathos quasi wagneriano e un epilogo orchestrale carico di serena malinconia.

Dal vortice infernale di Čajkovskij alla luce problematica ma redentrice di Brahms, fino alla sfida metafisica di Boito, il concerto disegna un itinerario dantesco che non promette salvezza ma consapevolezza. Un percorso “negli abissi” dell’animo umano, da cui si esce forse non purificati, ma più lucidi, più vivi. E grati alla musica per averci accompagnati.

Vedi anche su iltorinese.it

Stagione Sinfonica RAI

Leoš Janáček, Lašské tance (Danze Lachiane)
1. Starodávný (L’antica)
2. Požehnaný (La benedetta)
3. Dymák [fumoso]
4. Starodávný II (L’antica II)
5. Čeladenský [dal villaggio di Čeladná]
6. Pilky (Le seghe)

Béla Bartók, Il Mandarino meraviglioso suite da concerto, BB 82a, SZ 73b
Allegro
Maestoso
Tempo di valse

Ludwig van Beethoven, Sinfonia n. 2 in re maggiore, op. 36
Adagio – Allegro con brio
Larghetto
Scherzo. Allegro – TrioFestoso
Allegro molto

Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, Kirill Petrenko direttore

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 16 ottobre 2025

Attesissimo, come sempre, il ritorno di Kirill Petrenko alla RAI

Non è facile trovare un fil rouge che colleghi i brani musicali del secondo concerto della stagione sinfonica della Rai. Ma che importa: la folla che ha riempito l’Auditorium Toscanini di via Rossini è venuta per lui, Kirill Petrenko, che per l’ottava volta, più di vent’anni dopo la prima, ritorna a dirigere l’Orchestra Sinfonica Nazionale, quella da lui più frequentata tra le formazioni italiane. La folla sarebbe accorsa anche se in programma ci fosse stato Fra Martino campanaro: tale è il carisma del direttore siberiano stabilitosi in Occidente. Quella con l’OSN è poi un’intesa fuori del comune, come si è dimostrato ancora una volta ieri sera.

Nella prima parte del concerto figuravano due nomi del Novecento apparentemente molto diversi, ma accomunati da uno stesso intento: sia Janáček sia Bartók affrontarono il folklore musicale senza i connotati nazionalistici con cui si erano mossi invece Smetana e Dvořák, che nei canti popolari da loro rivisitati avevano esaltato il consolante e sicuro sistema diatonico. Per il moravo e per l’ungherese, invece, è la struttura armonicamente insolita del patrimonio musicale popolare dei loro rispettivi paesi a destare interesse. Un modo per superare la crisi della tonalità – e anche dei valori ottocenteschi – che in quegli stessi anni i compositori della Seconda scuola di Vienna (Schönberg, Berg, Webern) affrontavano in modo più radicale.

Le Danze lachiane sono il primo frutto maturo di Leoš Janáček. Iniziate nel 1888 dal compositore trentaquattrenne, furono rimaneggiate nel 1925 e pubblicate nel 1928, pochi mesi prima della sua morte. Fonte d’ispirazione sono melodie e ritmi della regione della Valacchia (Valašsko) in Moravia, poi ribattezzata Lachia (Lašsko). Nei sei pezzi, Janáček combina temi popolari autentici con armonie originali, anticipando già il suo stile personale, più asciutto e rustico rispetto alle Danze slave di Antonín Dvořák, a cui si ispirano. Petrenko ricrea amorevolmente il tono pastorale della prima, il tenero lirismo della seconda, il ritmo marcato della terza, con il martellare del fabbro nella sua fumosa officina; nella quarta, il carattere arcaico della prima danza è ripreso in modo più intimo; la quinta è dominata da un ritmo frenetico che allude al movimento alternato delle seghe o al lavoro collettivo; infine, la sesta esplode in una coda trionfale che celebra il paesaggio e la vitalità popolare. Il tutto reso impeccabilmente da un’orchestra in serata di grazia.

Dall’atmosfera bucolica della campagna si passa bruscamente al sordido paesaggio urbano della suite da concerto tratta da Il mandarino meraviglioso di Béla Bartók, musica per una “pantomime grotesque” messa in scena con grande scandalo all’Opernhaus di Colonia il 27 novembre 1926. Basata sul racconto di Melchior Lengyel A csodálatos mandarin (Il mandarino miracoloso), narra una scabrosa vicenda criminale di sesso, denaro e morte, che la musica del compositore magiaro evidenzia con lividi toni post-espressionistici. «Un’orgia di rumori che dà sui nervi», fu definita allora, e il sindaco della città, quel Konrad Adenauer che sarà cancelliere della Germania Ovest dal 1949 al 1963, ne proibì le repliche. Il mandarino meraviglioso poté essere rappresentato solo ventisei anni dopo. Le armonie dissonanti, la ricca politonalità e i cromatismi estremi, che rappresentano l’angoscia urbana e la brutalità dei personaggi, sono resi in modo lucidissimo dalla direzione di Petrenko, che esalta il virtuosismo dell’orchestrazione e i contrastanti piani sonori. Il suono barbarico, però, conserva una sua qualità “musicale” pur nell’estremizzazione dei livelli sonori e timbrici. Sotto la sua bacchetta, armonia e orchestrazione diventano chiare metafore emotive: il desiderio (i temi del clarinetto), la violenza (ottoni e percussioni), la trasfigurazione finale, dopo la morte del Mandarino, quando i suoni dissonanti si dissolvono in accordi luminosi, simbolo di redenzione.

È necessario il tempo di un intervallo per smaltire la tensione accumulata con il lavoro di Bartók e passare a tutt’altro mondo: quello della Seconda sinfonia di Ludwig van Beethoven. Qui anche il gesto di Petrenko si fa più controllato, pur restando sempre ricco di significato per i professori d’orchestra, che diventano la proiezione delle intenzioni del direttore. La precisione e l’intensità del suo gesto dovrebbero essere oggetto di studio per chi intende intraprendere la carriera di direttore d’orchestra o di direttore musicale di qualche importante istituzione.

Nonostante il momento doloroso che stava attraversando il compositore – il manifestarsi della sordità, la decisione di abbandonare la carriera concertistica e una delusione sentimentale che lo avevano condotto a scrivere il doloroso “Testamento di Heiligenstadt” il 6 ottobre 1802 – la luminosa tonalità di re maggiore irradia tutto il primo tempo, che, dopo una straordinaria introduzione lenta, si apre nell’Allegro con brio con spunti melodici e ritmici sempre nuovi, capaci di sorprendere le abitudini d’ascolto del pubblico di allora. «L’opera guadagnerebbe se venissero accorciati alcuni passi e sacrificate molte modulazioni strane», sentenziava la Allgemeine Musikalische Zeitung. La quantità di idee che si stipano nella pagina è in preda a un vero entusiasmo costruttivo, quello stesso che si trova nell’ouverture delle Nozze di Figaro.

Lo spirito di Mozart sembra infatti aleggiare su questa sinfonia: la struttura aderisce al modello formale mozartiano, con la sua chiarezza tematica e i contrasti ben definiti e proporzionati; la scrittura è luminosa e dialogica, i legni dialogano in modo cameristico e timpani e corni restano vicini al linguaggio classico; la grazia melodica di molti temi richiama quella del genio di Salisburgo e la sua cantabilità. Anche lo Scherzo, che sostituisce il Minuetto, ha un carattere di ironia e leggerezza che si può far risalire alla gioiosità di Mozart. Poi però compaiono già gli elementi caratteristici del Beethoven più maturo, dove il discorso è costruito a partire da piccole cellule motiviche sviluppate con logica stringente. Tutto ciò emerge con chiarezza nell’esecuzione di Petrenko: la nitidezza dei temi e delle modulazioni, il fraseggio espressivo, l’attenzione alle linee melodiche, l’articolazione ritmica chiara e precisa, i momenti lenti trattati con cura e spazio per il respiro, ma senza languore, la messa in evidenza delle diverse famiglie orchestrali sempre magistralmente equilibrate e, al loro interno, l’individuale peculiarità dei singoli strumentisti.

Alla fine, all’entusiasmo al calor bianco del pubblico si affianca l’applauso riconoscente dei professori d’orchestra, grati di aver vissuto un’esperienza tanto intensa.

Vedi anche su iltorinese.it

I concerti dell’Unione Musicale

Valentyn Syl’vestrov, 8.VI.1810… per la nascita di R.A. Schumann per 2 violoncelli “quasi violoncello solo”
Elegia
Serenata
Minuetto

Jacques Offenbach, Duetto in mi maggiore op. 54 n. 2
Allegro
Andante
Polonaise

Valentyn Syl’vestrov, 25.X.1893… in memoria di P.I. Čajkovskij per 2 violoncelli “quasi violoncello solo”
Preludio (Nascita della Melodia)
Ninna Nanna
Serenata

Giovanni Sollima, Dove finisce l’erba

Alexander Knaifel, Lux Æterna for two psalm singers

Mario Brunello violoncello, Giovanni Sollima violoncello

Torino, Conservatorio Giuseppe Verdi, 15 ottobre 2025

Due violoncelli “quasi violoncello solo” per l’Unione Musicale

Per l’inaugurazione della sua stagione l’Unione Musicale ha puntato sulla presenza di due violoncellisti ai vertici del panorama musicale mondiale: Mario Brunello e Giovanni Sollima, uno veneto l’altro siciliano, due personalità diverse e in qualche modo complementari. Unendo rigore e creatività, profondità e leggerezza, è almeno dal 2021 che danno vita a uno straordinario connubio di talento, estrosa fantasia, vigore interpretativo e spontanea forza comunicativa.

(il seguito su lesalonmusical.it)

Lingotto Musica

foto © Mattia Gaido

Carl Maria von Weber, Ouverture da Der Freischütz

Ludwig van Beethoven, Concerto per pianoforte e orchestra n° 3 in do minore op. 37
Allegro con brio
Largo
Rondò. Allegro

Johannes Brahms, Sinfonia n° 4 in mi minore op. 98
Allegro non troppo
Andante moderato
Allegro giocoso
Allegro energico e passionato

Die Deutsche Kammerphilharmonie Bremen, Riccardo Minasi direttore, Beatrice Rana pianoforte

Torino, Auditorium Agnelli, 2 ottobre 2025

Tra chiarezza e passione: il Lingotto si apre con Brahms e Beethoven

«Dei quattro movimenti della Quarta sinfonia di Brahms, il primo possiede almeno l’apparenza di vitalità, ma come gli altri tre è caratterizzato dal vizio inveterato di Brahms: una profonda mancanza di idee». Così scriveva il “New York Post” il 13 dicembre 1886. Poco dopo rincarava la dose il “Musical Courier” quando il 19 gennaio 1887 affermava: «In questa Quarta sinfonia troviamo davvero poco da raccomandare al pubblico amante della musica. L’orchestrazione è, come nella maggior parte dei lavori di Brahms, di una certa monotonia, piuttosto spessa e appiccicosa come il caucciù. A Brahms evidentemente mancano l’ampiezza e la forza proprie dell’invenzione che sono così necessarie per la realizzazione di un lavoro sinfonico davvero grande»…

(il seguito su Le Salon Musical)

MITO

Dmitrij Šostakovič, Sinfonia n° 13 “Babij Jar” in si bemolle minore op. 113 per basso, coro maschile e orchestra
1. Babij Jar (Adagio)
2. Yumor (Humour, Allegretto)
3. V magazinye (All’emporio, Adagio)
4. Strakhi (Paure, Largo)
5. Karyera (Carriera, Allegretto)

Orchestra e Coro del Teatro Regio Torino, Enrico Calesso direttore, Alexander Roslavets basso

Torino, Auditorium Giovanni Agnelli, 17 settembre 2025

Il grido di Babij Jar: Šostakovič chiude MiTo tra memoria e denuncia

MiTo SettembreMusica, che aveva aperto i battenti a Torino sulle note danzanti del Valzer n. 2 di Dmitrij Šostakovič, ha scelto di chiudere il cerchio ancora con lui, con il volto cupo e imponente della Sinfonia n° 13, la “Babij Jar”. Una scelta che non è solo musicale, ma anche politica, morale, perfino filosofica. Perché questa sinfonia, prima eseguita a Mosca il 18 dicembre 1962 sotto la bacchetta di Kirill Kondrašin, resta una delle pagine più controverse e dirompenti della musica del Novecento. Solo due mesi prima, la crisi dei missili di Cuba aveva portato il mondo sull’orlo dell’apocalisse nucleare. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica si erano fronteggiati a colpi di minacce, e l’intero pianeta aveva trattenuto il fiato. La Guerra fredda era al suo apice, e il clima di paura, tensione, propaganda si rifletteva in ogni gesto culturale, in ogni parola scritta, in ogni nota musicale. Šostakovič, artista da sempre in bilico tra adesione e ribellione, tra fede nel socialismo e disperata esigenza di libertà, scelse di farsi eco della voce del poeta Evgenij Evtušenko. Ne musicò cinque poesie, trasformandole in una sinfonia corale che fonde strumenti e canto, come farà anche nella successiva Sinfonia n° 14. Era una sfida aperta, un atto di coraggio, quasi una dichiarazione di guerra all’ipocrisia del potere sovietico.

Le ovazioni alla conclusione della prima esecuzione da parte di Kirill Kondrašin non risparmiarono però le critiche dei giornali sovietici. Non era certo la prima volta che Šostakovič finiva nel mirino dei censori. Nel 1930, già con l’opera satirica Il naso, il regime lo aveva bollato come formalista e decadente. Sei anni dopo, Lady Macbeth del distretto di Mtsensk fu liquidata con l’epiteto di “caos anziché musica” per il suo linguaggio dissonante e il libretto troppo audace. Nel 1945, laSinfonia n° 9 irritò Stalin con il suo tono leggero e ironico, ben lontano dalla retorica eroica che ci si aspettava. La Sinfonia n° 13 colpì ancora più a fondo perché affrontava un tabù assoluto: la questione ebraica in URSS. Nella poesia “Babij Jar”, che apre la sinfonia e le dà il titolo, Evtušenko denunciava l’assenza di ogni commemorazione ufficiale per il massacro di 34.000 ebrei, giustiziati dai nazisti a Kiev nel settembre 1941. Un orrore sepolto sotto la retorica patriottica, un crimine che il potere sovietico aveva scelto di dimenticare.

Il primo movimento si apre con un coro che intona parole agghiaccianti: «Non monumenti a Babij Jar: solo un burrone è la sua rozza tomba». Un Adagio solenne, tragico, in cui la malinconia si mescola a sonorità aspre, taglienti, come ferite ancora aperte. Poi entra la voce del basso solista, che dichiara: «Adesso sembra a me di essere ebreo». Da lì si susseguono rimandi e citazioni: il ritmo inesorabile della Sinfonia n° 7 “Leningrado”, un lampo dal Sacre du printemps di Stravinskij, l’ironia corrosiva che era marchio di fabbrica del compositore. Il culmine arriva quando il coro proclama: «Noi siamo la Nazione Russa!», e il solista ribatte: «E a me sembra di essere Anna Frank!». L’immedesimazione raggiunge un pathos lancinante: «Io stesso sono ogni vecchio fucilato. Io stesso ogni bimbo massacrato». Che un brivido percorra la schiena del pubblico del Lingotto accorso a questo ultimo concerto di MiTo Settembre musica al sentire queste parole dimostra ancora una volta il potere di denuncia dell’arte e della sua attualità.

Dopo tanto dolore, il secondo movimento, “Humour” (Allegretto), cambia registro. Ma non illudiamoci: qui l’umorismo è un’arma affilata. In forma di Scherzo danzante, mette alla berlina zar, imperatori, potenti di ogni nazione. Tutti possono guidare parate militari, ma nessuno può comprare l’umorismo del popolo – ma si può mettere a tacere, come sta avvenendo in questi giorni in quella che era la più grande democrazia del mondo…

Il terzo movimento, “All’emporio” (Adagio), evoca la difficile vita delle donne alle prese con i quotidiani problemi di sopravvivenza. Nell’orchestra i suoni cupi dei contrabbassi sono contrappuntati da quelli del coro maschile che conclude il pezzo quasi con un amen liturgico sulle parole «riguardo con amore, | fredde e stanche dalle borse | quelle mani bianche».

Il quarto movimento, “Paure” (Largo), torna cupissimo. La tuba, la grancassa, le campane evocano un’atmosfera da incubo. Qui Šostakovič racconta il clima repressivo del periodo staliniano, la paura di pensare, di parlare, di esprimersi. E il pensiero corre inevitabilmente a tutti i regimi che ancora oggi si nutrono di silenzi forzati.

Infine “Carriera”, il quinto movimento. Un Allegretto pungente che mette alla berlina il carrierismo cinico, contrapposto alla dignità di chi non tradisce le proprie idee. La conclusione è sorprendente: non un’esplosione, ma un progressivo spegnersi. I rintocchi distillati dalla celesta si dissolvono nel silenzio, quasi a lasciare sospesa la domanda: e ora, che cosa resta?

Al Lingotto, questo capolavoro difficile e scomodo ha trovato interpreti all’altezza. Il direttore Enrico Calesso ha guidato con mano ferma l’orchestra del Teatro Regio di Torino, riuscendo a mantenere un equilibrio perfetto tra timbri e dinamiche in una partitura che non concede distrazioni. Ogni livello sonoro, ogni tempo, ogni accento è sembrato frutto di una scelta meditata. Straordinario il basso russo Alexander Roslavets, chiamato a sostenere un ruolo che non concede respiro: per un’ora e più la sua voce profonda e scura ha intessuto dialoghi col coro, mantenendo sempre proiezione, bellezza timbrica, uniformità e intensità drammatica. Una prova da incorniciare. Il coro maschile del Regio, preparato come sempre da Ulisse Trabacchin, ha dato corpo e sostanza a pagine che richiedono precisione e potenza, ma anche la capacità di farsi sussurro, preghiera, ironia.

Così si è chiuso MiTo SettembreMusica: non con leggerezza, non con il repertorio più rassicurante, ma con una delle sinfonie più difficili e scomode del Novecento. Una scelta che vale come dichiarazione d’intenti: la musica non è solo intrattenimento, è coscienza, memoria, presa di posizione. Il pubblico ha risposto con applausi lunghi, commossi, ma anche con quel silenzio carico che precede lo scoppio finale. Perché le ultime note della Babij Jar non si limitano a riecheggiare nella sala: restano dentro, continuano a interrogare. MiTo non poteva chiudere meglio: ricordandoci che la musica è, prima di tutto, un atto di verità.

MITO

Thomas Dausgaard e Liv Redpath

Rued Langgaard, Rabbia, quartetto per archi n° 3, orchestrazione di Thomas Dausgaard 
1. Poco allegro rapinoso
2. Presto scherzoso artifizioso
3. Tranquillo

Hans Abrahamsen, Let me tell you, 7 canti per soprano e orchestra
Part I
1. Let me tell you how it was
2. O but memory is not one but many
3. There was a time I remember
Part II
4. Let me tell you how it is
5. Now I do not mind
Part III
6. I know you are here
7. I will go out now

Carl Nielsen, Sinfonia n. 4 op. 29 “L’inestinguibile”
1. Allegro
2. Poco allegretto
3. Poco adagio quasi andante
4. Allegro

Orchestra Sinfonia Nazionale della RAI, Thomas Dausgaard direttore, Liv Redpath soprano

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 12 settembre 2025

Tre voci dalla Danimarca: la rabbia, la lotta e il canto di Ofelia

Concerto interamente danese quello che MiTo Settembre Musica ha portato all’Auditorium RAI “Arturo Toscanini” di Torino. Una serata che ha avuto il pregio di comporre un mosaico del Novecento musicale scandinavo, intrecciando tre voci distanti nel tempo ma unite da un’identità culturale comune: Rued Langgaard, Carl Nielsen e Hans Abrahamsen. Tre modi diversi di raccontare la condizione umana attraverso il linguaggio orchestrale, in un percorso che dal tormento romantico arriva alla rarefazione poetica contemporanea.

Il pezzo più conosciuto del programma è la Sinfonia n. 4 di Carl Nielsen, accanto a Grieg e Sibelius, uno dei capisaldi della musica nordica tra Otto e Novecento. Composta fra il 1914 e il 1916, negli anni bui della Prima guerra mondiale, è la partitura che consacrò Nielsen alla notorietà internazionale e rimane tutt’oggi la più celebre e rappresentativa del suo catalogo. Non a caso porta un sottotitolo emblematico, ”Det Uudslukkelige” (L’inestinguibile). Nella prefazione il compositore spiega con chiarezza il senso di quella parola: non un programma narrativo né un’allegoria, ma l’affermazione pura e semplice di un principio vitale: «La musica è vita e, come la vita, è inestinguibile». Quella di Nielsen è dunque una dichiarazione di vitalismo in forma sonora, una lotta per la sopravvivenza che si traduce in energia ritmica, in contrasti timbrici, in una tensione continua tra luce e ombra. In quattro movimenti fusi senza soluzione di continuità, la Sinfonia segue a prima vista le coordinate del tardo romanticismo, ma se ne distacca per impeto e originalità. Già nel tema iniziale i timpani si impongono come autentici protagonisti, con un impulso martellante che percorre l’intera partitura fino al travolgente finale. Lì Nielsen immagina un vero duello tra i due timpanisti, collocati ai lati opposti dell’orchestra per sottolineare l’effetto teatrale del confronto. A Torino la disposizione non ha seguito alla lettera le indicazioni del compositore, ma la veemenza dei percussionisti ha reso ugualmente l’idea, scatenando l’entusiasmo del pubblico in una chiusura di pura energia.

Se Nielsen incarna la piena maturità del sinfonismo danese, il concerto si era aperto con una pagina di Rued Langgaard, figura eccentrica e marginale, spesso ignorata dalla critica ufficiale del suo tempo. Nato nel 1893, dunque della generazione successiva a quella di Nielsen, Langgaard rimase per lungo tempo isolato e considerato fuori moda perché troppo visionario. Oggi la riscoperta dei suoi oltre trecento lavori restituisce il profilo di un autore inquieto, capace di anticipare sensibilità moderne. A Torino si è ascoltata la trascrizione orchestrale – realizzata dallo stesso direttore Thomas Dausgaard – del Quartetto per archi n. 3, intitolato “Raseri” (Rabbia), un titolo che non lascia dubbi sull’intonazione del brano: tre movimenti frastagliati, segnati da improvvisi cambi di tempo e dinamica, in cui la musica sembra rispecchiare l’instabilità interiore e l’irrequietezza dell’autore. L’orchestrazione di Dausgaard amplifica la materia originaria fino a trasformarla in una sorta di poema sinfonico, ricco di colori accesi e di contrasti fragorosi. I passaggi più tumultuosi non scivolano però mai nel caos, ma vengono controllati con misura dall’orchestra, che restituisce al pubblico l’immagine di un compositore visionario, capace di convogliare la sua rabbia in una forma musicale potente e suggestiva. La riscoperta di Langgaard, seppur tardiva, trova in esecuzioni come questa la sua piena giustificazione.

A completare il trittico, una pagina radicalmente diversa: Let me tell you di Hans Abrahamsen, commissionata nel 2013 dai Berliner Philharmoniker e dedicata al soprano Barbara Hannigan. Abrahamsen, nato nel 1952 – proprio nell’anno in cui moriva Langgaard – appartiene a una generazione che guarda al passato con distacco e reinventa il linguaggio orchestrale con leggerezza e modernità. Il ciclo di sette liriche prende spunto dal romanzo omonimo di Paul Griffiths, costruito sulle 480 parole che Shakespeare mette in bocca a Ofelia nell’Amleto: un esercizio di stile che diventa poesia, e che nella musica di Abrahamsen si trasforma in una confessione delicata e struggente. L’impervia scrittura vocale, pensata per la Hannigan, è caratterizzata da una dissonanza mai aspra, da momenti lirici di rara intensità e accompagnata da un’orchestrazione scintillante, fatta di sfumature microtonali e trasparenze timbriche. L’interpretazione torinese ha avuto come protagonista il soprano Liv Redpath, chiamata a raccogliere l’eredità di una collega che aveva reso il brano celebre fin dalla sua prima esecuzione. Il compito non era semplice, ma la giovane cantante inglese lo ha assolto con sensibilità e precisione, restituendo un canto ora teso e appassionato, ora quasi sospeso, rarefatto. Una prova di altissimo livello che ha saputo mettere in luce la qualità di un lavoro ormai considerato tra i più significativi del nuovo secolo.

La risposta del pubblico dell’Auditorium Toscanini è stata calorosa: applausi convinti, tributati tanto alla solista, quanto al direttore e all’orchestra. Consapevoli di aver assistito a un momento raro: in un’unica serata, MiTo ha offerto un viaggio nel cuore della musica danese, dalle inquietudini di Langgaard al vitalismo di Nielsen, fino alla modernità poetica di Abrahamsen. Tre prospettive diverse che, accostate, compongono un quadro di sorprendente coerenza: quella di un paese che, pur piccolo, ha saputo lasciare un’impronta profonda nella storia della musica europea.

MITO

Karl Jenkins

Karl Jenkins, The Armed Man: A Mass for Peace
1. L’homme armé (Su testo francese del XIII–XIV secolo); 2. Call to prayers (Adhaan); 3. Kyrie eleison; 4. Save me from the bloody men (dai Salmi 56 e 59); 5. Sanctus; 6. Hymn before action (Rudyard Kipling); 7. Charge! (John Dryden, Jonathan Swift); 8. Angry flames (Tōge Sankichi); 9. Torches (dal Mahābhārata); 10. Agnus Dei; 11. Now the guns have stopped (Guy Wilson); 12. Benedictus; 13. Better is peace (Thomas Malory, Alfred Tennyson, Libro delle rivelazioni)

Orchestra Teatro Regio Torino, Nicolò Umberto Foron direttore, Coro Valdese di Torino, Coro dell’Istituto Musicale “Arcangelo Corelli” di Pinerolo, Walter Gatti maestro del coro, Giulia Bolcato soprano, Annunziata Vespri mezzosoprano, Lorenzo Martelli tenore, Stefano Marchisio basso

Torino, Conservatorio Giuseppe Verdi, 10 settembre 2025

Quando la musica racconta la guerra per invocare la pace

Londra, 25 aprile 2000. Nella solenne cornice della Royal Albert Hall va in scena la prima assoluta di The Armed Man: A Mass for Peace, una composizione destinata a entrare nella storia della musica contemporanea. A firmarla è il gallese Karl Jenkins, classe 1944, uno dei compositori britannici più eclettici e popolari degli ultimi decenni. Jenkins non è soltanto un autore classico: il suo percorso artistico attraversa i confini tra generi, dalla musica sinfonica al rock psichedelico – negli anni Settanta ha fatto parte dei Soft Machine – fino alla world music e alle sonorità pop. Una versatilità che si riflette pienamente in questa “messa per la pace”, una delle sue opere più emblematiche. Commissionato dalle Royal Armouries, il più antico museo d’Inghilterra, The Armed Man nasce come celebrazione del nuovo millennio e come monito contro i disastri della guerra. Il progetto prende le mosse da una tradizione musicale antichissima: la chanson tardo medievale L’homme armé, anonima, la cui melodia ha attraversato i secoli ispirando decine di messe rinascimentali. «L’uomo armato lo si deve temere», recita il testo originario, una frase che Jenkins trasforma in spunto drammatico e poetico per l’intera composizione.

La messa è costruita in tredici movimenti, con una struttura ibrida: accanto ai brani dell’Ordinario cattolico – Kyrie, Sanctus, Agnus Dei, Benedictus – si susseguono testi poetici, liturgici e storici in diverse lingue e culture. Una partitura che fonde elementi sacri e profani, occidentali e orientali, per riflettere sull’universalità della violenza bellica e sull’anelito umano alla pace. L’apertura è affidata proprio al tema de L’homme armé, intonato dal coro in modo solenne e minaccioso, quasi a evocare l’ombra della guerra che incombe sull’umanità. Ma Jenkins, fedele alla sua cifra stilistica, non si limita alla citazione dotta: il suo linguaggio musicale è accessibile, diretto, quasi “pop” nella sua immediatezza. I timpani scandiscono il ritmo della marcia, gli ottoni rinforzano l’atmosfera marziale, mentre flauti e ottavini tagliano l’aria con suoni acuti, carichi di tensione.

La messa si apre al mondo già nel secondo movimento: Call to Prayers, un autentico richiamo alla spiritualità islamica, è affidato alla voce del muezzin Amir Ubrahim Younes. L’invocazione precede il Kyrie, e stabilisce sin da subito l’intenzione ecumenica del lavoro: la guerra è un male universale, la pace una speranza condivisa. Segue un Sanctus percussivo e incalzante, anticipato dalla lettura dei Salmi 56 e 59, che invocano la misericordia di Dio in tempo di guerra. Jenkins alterna continui cambi di registro, portando l’ascoltatore in un percorso emotivo ed estetico attraverso epoche e culture. Uno dei momenti più significativi è l’inserimento di Hymn Before Action, scritto da Rudyard Kipling nel 1896, in un’epoca segnata dalla tensione tra le grandi potenze coloniali. I suoi versi – «La terra è piena di ira, i mari sono oscuri di collera…» – anticipano l’esplosione del patriottismo e la retorica bellica che Jenkins rafforza nel brano Charge!, in cui echeggiano le parole di Dryden, Horace e Swift. Il fragore degli ottoni e il battito incessante delle percussioni rendono quasi tangibile la furia del combattimento.

Ma è nella parte centrale della messa che Jenkins abbandona l’epica per dare voce al dolore. Angry Flames, del giapponese Tōge Sankichi, sopravvissuto a Hiroshima ma morto per le radiazioni pochi anni dopo, è un grido di sofferenza che dilania l’ascoltatore. Il testo, tradotto in musica con una sensibilità quasi cinematografica, descrive le fiamme della bomba atomica che avvolgono corpi e città. Segue Torches, tratto dal Mahābhārata, che racconta l’incendio della foresta di Khandava dal punto di vista degli animali, vittime innocenti e inconsapevoli della distruzione. È un momento di intensa commozione, in cui la musica si fa carezza e denuncia. La messa prosegue con l’Agnus Dei, altro momento di raccoglimento, che apre la strada a Now the Guns Have Stopped, testo firmato da Guy Wilson, all’epoca direttore delle Royal Armouries. Qui è il reduce di guerra a prendere la parola, con una confessione disarmante: «Sono sopravvissuto a tutto, io che sapevo che non ce l’avrei fatta… Tornerò a casa, da solo , e cercherò di vivere come prima». Jenkins veste queste parole con una musica sospesa, trattenuta, quasi incapace di consolare. Il Benedictus, celebre per il suo assolo di violoncello, rappresenta un momento di struggente bellezza e offre uno spiraglio di speranza. Ma è nel finale, Better is Peace, che la composizione si chiude con una visione luminosa: le parole tratte da Thomas Malory, Alfred Tennyson e dal Libro dell’Apocalisse («Dio asciugherà ogni lacrima») si intrecciano in un crescendo corale che invita al superamento del conflitto.

The Armed Man ha riscosso un successo straordinario: più di 3000 esecuzioni in tutto il mondo. È stato scelto per commemorare eventi drammatici come l’anniversario degli attentati dell’11 settembre a New York e il centenario della fine della Prima Guerra Mondiale a Berlino. In termini di popolarità, è il secondo brano di musica classica più eseguito al mondo, superato solo dal Concerto n. 2 di Rachmaninov ma davanti alla Nona di Beethoven! Un dato che impone una riflessione: la sua presa sul pubblico non può essere liquidata con la sola “facilità” della scrittura. Certo, Jenkins utilizza un linguaggio diretto, a volte persino prevedibile, la sua scrittura strumentale è di grande efficacia, non banale, e attinge a piene mani da influenze diverse: dalla polifonia veneziana all’Orff dei Carmina Burana, fino al musical e alla musica pop. Ma la sua capacità di coinvolgere e di rendere accessibile un tema tanto tragico è parte del suo merito artistico, anche se più che l’emozione qui sembra prevalere la capacità ad adattarsi a una musica di circostanza che sa compiacere l’ascoltatore. E alla fine mostra la distanza tra il risultato musicale e il tema in sé, la follia e la tragicità della guerra. Qui manca l’abisso emotivo di capolavori come A Survivor from Warsaw di Schönberg, il War Requiem di Britten, o la Sesta Sinfonia di Šostakovič. Comunque, The Armed Man rimane un’opera importante, soprattutto per il suo potere comunicativo.

L’esecuzione al Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino nell’ambito del festival MiTo Settembre Musica, ha dimostrato comunque ancora una volta la forza di questo lavoro. Nonostante le limitazioni logistiche – il grande organico orchestrale del Teatro Regio e quello corale sono stipati come “sardine” sul piccolo palcoscenico dove i contralti hanno il fiato sul collo del timpanista e la tromba solista per il suo intervento fuori scena deve pestare i piedi agli strumentisti per uscire – l’esecuzione ha raggiunto momenti di grande intensità. Merito anche del giovane direttore Nicolò Umberto Foron, già lanciato a livello internazionale e votato alla musica contemporanea (ha diretto oltre 50 prime mondiali), che ha guidato orchestra e cori con energia e controllo. In scena, due cori – il Coro Valdese di Torino e quello dell’Istituto Musicale “Arcangelo Corelli” di Pinerolo –, preparati da Walter Gatti, hanno offerto una prova intensa, pur con qualche incertezza nella dizione dell’inglese. Tra i solisti – Giulia Bolcato soprano, Annunziata Vespri mezzosoprano, Lorenzo Martelli tenore, Stefano Marchisio basso – spiccano la limpidezza di Giulia Bolcato e l’espressività di Annunziata Vespri, particolarmente toccante nei brani più drammatici.

Il pubblico ha risposto con entusiasmo, chiedendo il bis del finale e lasciando la sala solo dopo l’ultima nota. The Armed Man continua a parlare al cuore delle persone, al di là di ogni accademismo. Le “Rivoluzioni” di MiTo proseguono, ma quella di Jenkins – musicale, culturale, emotiva – resta una delle più sorprendenti.

Ottavio plus

Henry Purcell
“If music be the food of love” Z 379a
“Music for a while” da Œdipus, King of Thebes Z 583
Suite n° 2 in sol Z 661 (Prelude – [Almand] – Corant – Saraband – [Jig ZD 233])
Suite n° 7 in re Z 668 (Almand – Corant – Hornpipe)
“Fairest isle” da King Arthur or the British Worthy Z 628
“Sweeter than roses” da Pausanias, the betrayer of his country Z 585
“Now that the Sun hath veil’d his light” Z193 da Harmonia sacra or Divine hymns and dialogues
“What power art thou” (“Cold Song”) da King Arthur or the British Worthy Z 628

Georg Friedrich Händel
“Nel dolce tempo” Cantata für Alt e basso continuo HWV 135b
Suite n° 5 in Mi HWV 430 (Prélude – Allemande – Courante – Air double 1-5)
“Vedendo amor” Cantata für Alt e basso continuo HWV 175

Andreas Scholl controtenore, Ottavio Dantone clavicembalo

Innsbruck, Haus der Musik, 30 agosto 2025

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Il glorioso Settecento inglese con Scholl e Dantone

Due compositori inglesi, i più grandi dell’epoca barocca, per l’ultimo concerto delle Settimane di Musica Antica di Innsbruck. Uno, Henry Purcell, nato a Londra nel 1695, l’altro nato dieci anni prima a Halle, ma cittadino britannico dal 1727 quando Georg Friedrich Händel (Germania) diventa George Frideric Handel.

Sulla pedana, un po’ scricchiolante, piazzata nella sontuosa Spanischer Saal di Schloss Ambras, prendono posto al clavicembalo Ottavio Dantone, il direttore musicale del festival, e Andreas Scholl, storica voce di controtenore. Due sommi specialisti del repertorio settecentesco che per la seconda volta si mettono insieme per una serata di musica da camera alla vigilia della finale del Concorso Cesti.

La prima parte è dedicata a Purcell di cui si ascolta il song “If music be the food of love” su una poesia di Henry Heveningham basata su un verso di Shakespeare: le gioie dell’amore della musica sono espresse con la tenera melodia di un arioso che segue un breve recitativo. Tratto invece dalle musiche per Œdipus, King of Thebes è invece “Music for a while”, un song su versi di John Dryden dove si celebra il potere lenitivo della musica: «Music for a while shall all your cares beguile» (La musica per un po’ ti distoglierà da tutte le tue preoccupazioni) e il timbro soave di Scholl e l’accompagnamento prezioso dello strumento di Dantone fanno di tutto per confermare l’affermazione. Ancora di Dryden è “Fairest isle”, tratto dalla semi-opera King Arthur dove viene cantata dalla dea Venere in lode dell’isola inglese. Qui è il controtenore a dipanare una linea di canto di grande bellezza. Famoso è il seguente “Sweeter than roses” su versi d Richard Norton e tratto dalle musiche per Pausanias, the betrayer of his country, una delicata melodia per le parole «Sweeter than roses, or cool evening breeze | On a warm flowery shore, was the dear kiss» (Più dolce delle rose o della fresca brezza serale su una calda spiaggia fiorita, fu il caro bacio). Su un livello spirituale è invece “Now that the Sun hath veil’d his light”, un ‘evening hymn’ del vescovo William Fuller, un cullante invito a pregare durante le ore del riposo.

La Suite n° 2 in sol del 1696 e la Suite n° 7 in re sono i brani strumentali scelti da Dantone per far riposare la voce di Scholl. I quattro movimenti della n° 2 mettono in luce la maestria dell’esecutore, che sottolinea il carattere malinconico del secondo tempo (Almand) per poi lasciarsi andare al ritmo di danza del quarto (Saraband) con un fluido gioco di note.

L’ultimo pezzo della prima parte è il celeberrimo “Cold song” («What power art thou»), ancora da King Arthur, dove il cantante rende con virtuosismo il tremore e i balbettamenti del Genio del freddo risvegliato da Cupido.

Morto a soli 36 anni, Purcell ha lasciato libero il campo musicale inglese a Händel, di cui nella seconda parte si ascolta la Suite n° 5 in Mi HWV 430. Formidabile esecutore alla tastiera lui stesso, Händel aveva sfidato Scarlatti in una gara di virtuosismo quand’era a Roma in casa del cardinale Ottoboni e il risultato fu pari: l’italiano vinse al cembalo, il sassone all’organo. La raccolta delle otto “pièces pour le clavecin” fu stampata a Londra nel 1720 e quella in Mi è in cinque movimenti che sembrano voler condensare lo spirito musicale del tempo: dopo il breve Prélude, la precisa Allemande e la pimpante Courante, il quarto movimento è costituito da un Air in 5 variazioni su un tema detto “the harmonious blacksmith” (il fabbro armonioso) che ebbe molto successo come pezzo a sé nell’Ottocento e di cui Dantone rende con gusto e tecnica formidabili il sorprendente crescendo delle variazioni, fino ad arrivare al parossismo della quinta con quelle rapidissime volate di biscrome. Una performance che ha entusiasmato il pubblico.

Nelle vesti di accompagnatore di lusso, il direttore si è nuovamente affiancato al cantante in due cantate composte da Händel in Italia negli anni 1707-08: la prima, Nel dolce tempo HVW 135b, a Napoli; la seconda a Roma, Vedendo amor HVW 175. Ancor più che in Purcell qui Scholl dimostra la sua raffinatissima tecnica esecutiva, dove il gioco dei fiati, i trilli tenuti all’infinito, i passaggi di registro sono finalizzati a un’espressività raffinata. Sorprendente soprattutto la seconda cantata dove quattro recitativi sono intercalati da tre arie di cui una, «Camminando lei pian piano», risveglia precise reminiscenze nell’ascoltatore: si tratta infatti della prima redazione di un’aria che diventerà una delle più famose del Giulio Cesare in Egitto: «Va tacito e nascosto». Ed è proprio questo fuori programma offerto dal cantante alla fine di questo memorabile concerto.

Così si conclude l’edizione 2025 delle Festwochen der alten Musik che l’anno prossimo arriveranno al traguardo dei 50 anni.

 ⸪

Monteverdi e Cavalli

foto © Lorenzo Gorini

Claudio Monteverdi, dall’opera L’Incoronazione di Poppea, SV 308:
Sinfonia (versione di Napoli)
“Signor, deh non partire”
“Speranza tu mi vai”
“Come dolci signor”

Andrea Falconieri, Sonata Folias echa para mi Señora Doña Tarolilla de Carallenos dal Primo libro di canzone, sinfonie, fantasie, capricci, brandi, correnti, gagliarde, alemane, volte

Claudio Monteverdi, “Ohimé, dov’è il mio ben, dov’è il mio core?”, SV 140, romanesca a due voci dal Settimo Libro de Madrigali a 1, 2, 3, 4, et 6 voci, con altri generi

Claudio Monteverdi, “Signor, signor oggi rinasco” dall’opera L’Incoronazione di Poppea

Francesco Cavalli, dall’opera Veremonda l’amazzone di Aragona, ossia Il Delio:
Sinfonia
Prologo

Francesco Cavalli, dall’opera Il Ciro:
“O rigor d’iniqua stella”
“Amanti fuggite”

Francesco Cavalli, Sinfonia dall’opera Veremonda l’amazzone di Aragona, ossia Il Delio

Claudio Monteverdi
Chiome d’oro, SV 143, canzonetta a due voci, concertata da due violini, chitarrone o spinetta dal Settimo Libro de Madrigali a 1, 2, 3, 4, et 6 voci, con altri generi

Francesco Cavalli, dall’opera Il Ciro:
“In mezzo le schiere”
“Ai sospiri d’Arpago”

Apolline Raï-Westphal soprano, Thaïs Raï-Westphal soprano, Christophe Rousset  direttore, Les Talens Lyriques

Cremona, Auditorium G. Arvedi del Museo del violino, 28 giugno 2025

Due veneziani a Napoli

Il festival cremonese volge al termine e l’ultimo appuntamento nella preziosa scatola lignea dell’Auditorium G. Arvedi del Museo del violino vede un ricco programma in cui Monteverdi è affiancato al suo più illustre allievo Francesco Cavalli e un altro compositore coevo, Andrea Falconieri. La parte del leone è comunque quella del il Divino Claudio presente con quasi tutti i duetti de L’incoronazione di Poppea eseguiti mirabilmente dalle sorelle Apolline Raï-Westphal e Thaïs Raï-Westphal, entrambi soprani ma con un timbro leggermente differente, più caldo quello di Thaïs che infatti interpreta i ruoli en travesti di Nerone in “Signor, deh non partire” dall’atto I, scena 3; “Come dolci, signor” dall’atto I, scena 10 e “Signor, signor, oggi rinasco” dall’atto III, scena 5; di Arnalta in “Speranza tu mi vai”, dall’atto I, scena 4; di Valletto in “Sento un certo non so che” dall’atto II, scena 4. La voce più chiara di Apolline è invece l’ideale per Poppea e per Damigella, ma è l’intrecciarsi sapiente delle due voci a destare ammirazione per l’elegante linea vocale in perfetto equilibrio tra ingenuità e passione..

Come a mettere a confronto maestro e allievo, il programma prevede pagine teatrali di Francesco Cavalli dalla sua opera Il Ciro, “drama per musica” del 1654, di cui, ora singolarmente e in duo, le due cantanti ci fanno ascoltare quattro momenti: “O rigor d’iniqua stella” dall’atto I, scena 3; “Amanti fuggite” dall’atto I, scena 8; “In mezzo le schiere” dall’atto I, scena 7 e “Ai sospiri d’Arpago” dall’atto III, scena 10, una ricca antologia di affetti interpretati con stile ed espressività.

Appartenente invece al Settimo Libro di madrigali del 1619 di Monteverdi sono la romanesca a due voci  – dove in quattro strofe di Bernardo Tasso («Ohimé, dov’è il mio ben, dov’è il mio core? Chi m’asconde il mio core: e chi me ‘l toglie? Dunque ha potuto sol desio d’onore Darmi fera cagion di tante doglie? Dunque ha potuto in me più che l’amore Ambitiose, e troppo lievi voglie? Ahi sciocco mondo e cieco, ahi cruda sorte Che ministro mi fai de la mia morte») vengono declinate in musica le perenni pene d’amore – e la deliziosa canzonetta «Chiome d’oro bel tesoro Tu mi leghi in mille modi Se t’annodi se ti snodi» in cui le voci sembrano imitare l’annodarsi e lo snodarsi delle chiome.

Dopo alcune pagine puramente strumentali in cui si ammira ancora di più la bellezza del suono della smilza compagine formata da Gilone Gaubert e Benjamin Chénier (violini), Emmanuel Jacques (violoncello) e Karl Nyhlin (arciliuto e chitarra) e condotta al clavicembalo e all’organo da Christophe Rousset, specialista indiscusso di questo repertorio, l’impaginato prevede brani del compositore Andrea Falconieri, cronologicamente tra Monteverdi e Cavalli, napoletano ma attivo anche in Spagna di cui si ascoltano una Sonata folias… e la sonata a tre L’Eroica ambedue influenzate dallo stile iberico con temi di danza inseriti in un discorso musicale sorprendentemente originale.

Grande il successo della serata e i seguito agli insistenti applausi vengono regalati due bis: uno quello di “Chiome d’oro” e poi un secondo che non poteva mancare dopo la sequenza di duetti dell’Incoronazione di Poppea, ossia quella straordinaria pagina che è il duetto tra Poppea e Nerone nel finale “Pur ti miro”, di paternità discussa – Monteverdi? Cavalli? Benedetto Ferrari? – e uno dei momenti più sensuali del teatro in musica.

  ⸪