Concerto

Palestrina’s Requiem

foto © Giulio Solzi Gaboardi

Claudio Monteverdi,

Claudio Monteverdi, Lauda Jerusalem (II), mottetto per cinque voci e basso continuo SV 203

Giovanni Pierluigi da Palestrina, Missa pro defunctis cum quinque vocibus
Kyrie – Offertorium – Sanctus – Agnus Dei – Libera me, Domine – Kyrie

Claudio Monteverdi, da Messa a quattro voci et salmi  […]  Messa in Sol minore SV 190
Claudio Monteverdi, Laudate, pueri, Dominum (III) SV 196

Peter Phillips direttore, Tallis Scholars

Cremona, Chiesa di San Marcellino, 26 giugno 2025

La gloriosa polifonia italiana

Ancora un titolo in inglese per uno dei concerti più attesi del Monteverdi Festival di Cremona che non solo ripropone le gemme musicali del passato, ma ne fa riscoprire di nuove e offre esecuzioni critiche alla luce degli ultimi studi.

È il caso della  Missa pro defunctis che Giovanni Pierluigi da Palestrina compose per la romana Cappella Giulia il cui organico prevedeva una parte di Cantus (voce di soprano), una di Altus (contralto), due di Tenor e una di Bassus, assolutamente conforme quindi alle abitudini del compositore, soprattutto nell’ultimo periodo della sua produzione, il lavoro è infatti del 1588 e Palestrina morirà sei anni dopo. Oltre alla revisione critica, l’esecuzione prevede l’inserimento del Libera me, Domine dopo la sequenza canonica Kyrie, Offertorium, Sanctus, Agnus Dei e prima del Kyrie finale, un responsorio ritenuto per molto tempo di dubbia attribuzione e solo recentemente ristabilito con autorevolezza nella sua autenticità da Riccardo Pintus. Un bel modo di celebrare il compositore a 500 anni dalla nascita.

La pagina, che unisce i profili del “cantus firmus’ liturgico con l’intreccio polifonico delle diverse parti, viene eseguita dai Tallis Scholars, l’ensemble il cui nome si riferisce al compositore inglese cinquecentesco Thomas Tallis,  fondato nel 1973 da Peter Phillips che ora li dirige con gesto sobrio ma efficace, lasciando alle sole voci interconnesse nel sapiente intreccio la magia di ricreare questa testimonianza di fede. Dieci i cantanti presenti: Amy Haworth, Victoria Meteyard (soprani), Caroline Trevor, Elisabeth Paul (contralti), Steven Harrold, Simon Wall, Jonathan Hanley e Tom Castle (tenori), Tim Scott Whiteley, Rob Macdonald (bassi), voci perfettamente fuse eppure chiaramente individuabili in certi passaggi solistici. Un’armonia vocale che riflette quella del messaggio religioso del testo.

Nella sua città natale non poteva mancare Monteverdi, che incornicia il piatto forte di Palestrina: il concerto inizia infatti con il suo Lauda Jerusalem (II), mottetto per cinque voci e basso continuo, opera pubblicata nel 1650, sette anni dopo la morte dell’autore. Il basso continuo  qui non è presente, in scena ci sono solo le voci, a meno che non si consideri basso continuo l’unz-unz sparato dalle casse in piazza Stradivari, neanche tanto vicina, dove la festa di inizio estate dei dj richiama fino a oltre mezzanotte la gioventù cremonese stordita dai decibel invece che dalla polifonia barocca. Mai come in questo caso si può dire che è tutt’altra musica… Sul testo del Salmo 147, «Lauda, Jerusalem, Dominum; lauda Deum tuum, Sion», i dieci interpreti vocali fanno a meno della tiorba, che abitualmente nelle registrazioni di questi sei minuti di musica fornisce il basso continuo, riempiendone lo spazio con un suono pulito ma denso e intonazione perfetta quanto la dizione.

Il gioco delle voci si fa più mosso nella Messa in Sol minore a quattro voci, con due tenori in meno quindi, anch’essa pubblicata nel 1650. Sono passati alcuni decenni dalla messa di Palestrina e la luce di Venezia sembra rendere i colori più vividi e brillanti, gli interventi delle voci più “teatrali”. L’«incarnatus est» del Credo è cantato dai contralti con un’intensità inusuale, marcatamente dolorosa è quella del «crucifixus», il Sanctus e il Benedictus sono particolarmente gioiosi.

Conclude il programma ancora Monteverdi col suo Laudate, pueri, Dominum, mottetto per cinque voci e basso continuo dalla stessa Messa a quattro voci et salmi  a 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 et 8 voci, concertati, e parte da capella, et con le letanie della B. V. Qui tornano in scena i due tenori per completare l’ensemble che al termine suscita gli applausi entusiastici dal pubblico che ha gremito la chiesa e che ottiene un ghiotto fuori programma, il Regina Cœli lætare del compositore fiammingo Nicolas Gombert, qui nella versione a dieci voci.

Care gemme

Claudio Monteverdi, “Vi ricorda, o bosch’ombrosi” dall’opera L’Orfeo

Claudio Monteverdi, “Son rubini amorosi” dall’opera L’incoronazione di Poppea

Francesco Cavalli, “La bellezza è un don fugace” dall’opera Xerse

Bernardo Pasquini, Sinfonia dall’oratorio Il martirio dei santi Vito, Modesto e Crescenzia

Alessandro Melani, “O quanto è soave” dall’opera Il carceriere di sé medesimo

Agostino Steffani, “Ogni core può sperar” dall’opera Servio Tullio

Domenico Sarro, “Miei guerrieri” dall’opera Il Vespasiano

Alessandro Scarlatti, Sinfonia dalla serenata Clori, Dorino e Amore

Antonio Vivaldi, “Deh ti piega” dall’opera La Fida Ninfa

Domenico Sarro, Introduzione in Re maggiore (Sinfonia) dall’opera Partenope

Giovanni Alberto Ristori, “Ah, fermate il pianto” dall’opera Temistocle

Georg Friedrich Händel, “Fatto inferno… Pastorello d’un povero armento” dall’opera Rodelinda, Regina de’ Longobardi

Laurence Kilsby tenore, Alessandro Quarta direttore, Concerto Romano

Cremona, Aula Magna dell’Università del Sacro Cuore, 25 giugno 2025

Non solo controtenori

Una vera lezione di canto barocco quella fornita dal concerto del Monteverdi Festival che ha messo in campo uno dei maggiori interpreti vocali di questo repertorio. Per una volta non si tratta di un controtenore, bensì di un tenore, quel Laurence Kilsby che tre anni fa aveva vinto il primo premio del Concorso Cesti, uno dei tanti premi mietuti in una carriera folgorante che l’ha visto passare da voce bianca della Tewkesbury Abbey Schola Cantorum ai BBC Proms ai più importanti ruoli sulle scene internazionali quando la voce si è trasformata in quella di un adulto.

Sul piccolo palco dell’Aula Magna dell’Università del Sacro Cuore salgono gli strumentisti del Concerto Romano diretti dal suo fondatore Alessandro Quarta, un ensemble specializzato nel repertorio italiano, e più in particolare di quello romano, dei secoli XVI, XVII e XVIII. Gli undici archi, completati da tiorba/chitarra e clavicembalo, eseguono anche pagine strumentali quali la Sinfonia dall’oratorio Il martirio dei santi Vito, Modesto e Crescenzia di Bernardo Pasquini, la Sinfonia dalla serenata Clori, Dorino e Amore di Alessandro Scarlatti e l’Introduzione in Re maggiore (Sinfonia) all’opera Partenope di Domenico Sarro, quest’ultima in prima esecuzione assoluta. La pagina del Pasquini è del 1687 e dimostra l’abilità del suo autore a gestire il passaggio da musica sacra a musica per la scena a fine Seicento, mentre le altre due, rispettivamente del 1702 e 1722, sono intrise della evidente teatralità dell’opera napoletana e romana. Con un gesto espressivo e coinvolgente Alessandro Quarta, direttore artistico del Festival Internazionale Urbino Musica Antica e presidente della Fondazione Italiana per la Musica Antica, dirige una compagine che risponde con un suono pieno, preciso e brillante nei ritmi di queste pagine introduttive. Ineccepibile è poi l’accompagnamento del solista in una sequenza di pezzi musicali che da Claudio Monteverdi a Giovanni Alberto Ristori, vogliono declinare l’enorme varietà dell’aria barocca.

Non si può non iniziare dal primo capolavoro operistico, L’Orfeo, di cui Kilsby rende con vivacità ed eleganza la scena “Vi ricorda, o bosch’ombrosi” del II atto, in cui Orfeo rende merito a Euridice del suo amore poco prima che la Messaggera entri in scena ad annunciarne la morte. Qui si ammirano la dizione da manuale e la perfetta gestione da parte del cantante delle insidiose armonie disseminate in questa “facile” pagina del 1607. Ancora l’amore, ma inteso in maniera molto più sensuale, è il soggetto della successiva aria monteverdiana, “Son rubini amorosi” da L’incoronazione di Poppea (1643), un’altra delle “care gemme” a cui è dedicata la serata.

Coevo di Monteverdi, di Francesco Cavalli, ascoltiamo “La bellezza è un don fugace” dall’opera Xerse (1655), la cinica affermazione dell’eunuco Eumene qui resa con elegante nonchalance da Kilby che nella successiva “O quanto è soave” introduce il musicista Alessandro Melani e la sua opera Il carceriere di sé medesimo, qui siamo nel 1681. Il Melani è un compositore recentemente riscoperto, è suo infatti il sorprendente L’empio punito, un Don Giovanni antecedente di oltre un secolo di quello di Mozart! La tenerezza di “O quanto è soave” è messa a confronto con l’irresistibile tono danzante di “Ogni core può sperar” dall’opera Servio Tullio di Agostino Steffani (1686), compositore veneto formatosi con Cavalli e investito della porpora vescovile. Prolifico autore di opere e oratorii, fu attivo alla corte di Baviera ed è qui che debuttò il suo Servio Tullio per il matrimonio dell’elettore Massimiliano-Emanuele con l’arciduchessa Maria Antonietta d’Austria. Tutt’altra atmosfera è quella di “Miei guerrieri” dall’opera Il Vespasiano di Domenico Sarro. Siamo nel 1707 e le agilità sono un mezzo per esprimere i diversi sentimenti, gli “affetti” nel lessico musicale settecentesco, una retorica che in questo secolo costituirà il fondamento dell’opera seria. Qui la voce del tenore assume un’altra dimensione espressiva, ma è ancora una volta con Vivaldi che avviene il miracolo: era stato il pezzo con cui si era classificato primo al Concorso Cesti di Innsbruck del 2022 ed allora aveva incantato il pubblico e la giuria per la sapienza e intensità con cui aveva intonato “Deh ti piega”, l’aria del pastore Narete rapito assieme alle due figlie da un pirata nell’opera La Fida Ninfa (1732). Il pezzo è uno dei capolavori del Prete Rosso, il modello perfetto dell’aria barocca suddivisa nelle sue tre, o meglio, cinque parti: esposizione del tema sulla prima strofa A («Deh ti piega, deh consenti, | mira il pianto, odi i lamenti, | e ti muova oro, o pietà»); ripetizione variata A’; seconda strofa B («In sciagure sì infelici, | in disastri sì funesti | anche tu cader potresti. | Anche noi fummo felici, | ma sua sorte uomo non sa»); da capo A” e A”’. Non si pensava che potesse fare meglio di tre anni fa e invece Kilsby riesce ad andare oltre la perfezione: ogni ripresa è una cosa a sé, ogni parola viene ripetuta con intenzioni diverse in un itinerario espressivo di intensità sorprendente e una gara di musicalità tra voce e strumenti.

Ma il concerto non è finito qui. Un’altra prima esecuzione è quella di “Ah, fermate il pianto” dall’opera Temistocle di Giovanni Alberto Ristori, compositore bolognese attivo a Dresda nel cui bombardamento del 1945 andarono persi molti suoi lavori. Il Temistocle appartiene ai suoi ultimi anni e debuttò a Napoli nel 1738. Il lamento dell’ateniese qui assume una solenne nobiltà che la musica del Ristori e l’interpretazione di Kilsby esaltano al massimo. Fino a questo momento il programma vocale ha seguito un ordine strettamente cronologico e la esclusiva presenza di compositori italiani, ma non poteva mancare Georg Friedrich Händel con cui si fa un passo indietro nel tempo essendo del 1725 l’opera Rodelinda, Regina de’ Longobardi di cui viene eseguita la grandiosa scena sesta dell’atto III strutturata nel recitativo accompagnato «Fatto inferno è il mio petto» e nell’aria «Pastorello d’un povero armento» con cui il perfido Grimoaldo in preda a contrastanti affetti – gelosia, sdegno, amore, rimorso – invidia la serenità del pastorello che nonostante la povertà «pur dorme contento, | sotto l’ombra d’un faggio o d’alloro» Mentre lui «d’un regno monarca fastoso, | non trovo riposo, | sotto l’ombra di porpora e d’oro». Con questo omaggio alla patria del cantante e al genio teatrale del Sassone naturalizzato inglese, si conclude la parte ufficiale del concerto, ma gli applausi e l’entusiasmo del pubblico strappano due bis agli esecutori e si riascoltano così le gioiose arie di Steffani e Cavalli.

Dolce tormento

Dario Castello, Sonata Decima quinta à 4 per Stromenti d’arco,
da Sonate concertate in stil moderno, libro secondo

Claudio Monteverdi, “Ohimè ch’io cado, da Quarto scherzo delle ariose vaghezze

Giovanni Maria Trabaci, Gagliarda Prima a 4 detta il Galluccio; Gagliarda Terza a 4 detta la Talianella; Gagliarda Quarta a 4 detta la Morenigna
dal Secondo Libro de Ricercate, Canzone franzese, Capricci, Canti fermi, Gagliarde […]

Claudio Monteverdi, “Sì dolce è il tormentoda Quarto scherzo delle ariose vaghezze

Alessandro Scarlatti, Concerto grosso n. 5 in re minore dai Six Concertos in seven parts

Alessandro Scarlatti, “Caldo sangue”, aria dall’oratorio Il Sedecia, re di Gerusalemme

Antonio Vivaldi, Sinfonia in Sol maggiore detta Il Coro delle Muse RV 149

Antonio Vivaldi, “Gelosia, tu già rendi l’alma mia” dall’opera Ottone in villa RV 719

Geminiano Giacomelli, “Sposa, non mi conosci” dall’opera La Merope

Antonio Vivaldi, Concerto per violino in mi minore RV 273
Allegro non molto
Largo
Allegro

Georg Friedrich Händel, “Lascia ch’io pianga” dall’opera Rinaldo HWV 7, 

Georg Friedrich Händel, “Un pensiero nemico di pace” 
dall’oratorio Il trionfo del Tempo e del Disinganno HWV 46a

Maayan Licht controtenore, Ottavio Dantone direttore, Accademia Bizantina

Cremona, Auditorium G. Arvedi del Museo del violino, 16 giugno 2025

Il Barocco delle meraviglie

Se nel pomeriggio abbiamo ascoltato la voce femminile più grave, quella sontuosa del contralto Margherita Maria Sala, la sera, nel magico scrigno ligneo dell’auditorium del Museo del violino, il registro più acuto delle voci maschili è esemplificato da uno dei più grandi controtenori di oggi, Maayan Licht, accompagnato da uno dei migliori ensemble barocchi, l’Accademia Bizantina di Ottavio Dantone. Un’accoppiata stupefacente di cui si deve dare il merito ad Andrea Cigni, sovrintendente e direttore artistico del Teatro Ponchielli di Cremona e geniale impaginatore del festival. Un programma ricco di ben dodici pezzi musicali – che diventeranno quindici con i fuori programma! – scelti tra i tesori più fulgidi del teatro musicale e strumentale di Seicento e Settecento.

Lo spirito guida del festival, Claudio Monteverdi, dà il titolo al concerto, quel “Sì dolce è il tormentoda Quarto scherzo delle ariose vaghezze (Venezia, 1624) che ascoltiamo cantato con palpitante espressività e soavi accenti dal venticinquenne israeliano che in pochissimo tempo è diventato l’idolo di chi ama il canto barocco più flamboyant. Un’altra pagina tratta dalla stessa raccolta è “Ohimè ch’io cado”, intonata da Licht letteralmente tra il pubblico che ha così partecipato ancora più da vicino alle emozioni suggerite del testo ricco di metafore barocche di Carlo Milanuzzi: «Occhi belli, ah se fu | Sempre bella virtù | Giusta pietate! | Deh voi non mi negate | Il guardo e ‘l riso | Che mi sa la prigion | Per sí bella cagion | Il Paradiso». Qui si è notata la perfetta dizione e la cura per la parola dell’interprete.

Prima Ottavio Dantone aveva eseguito in apertura di serata una pagina di Dario Castello, la Sonata Decima quinta à 4 per Stromenti d’arco, con cui la compagine ha mostrato fin da subito le sue qualità esecutive, fatte di precisione, bellezza di suono e perfetto equilibrio tra le parti. Caratteristica che si è riscontrata anche nelle tre Gagliarde di Giovanni Maria Trabaci, compositore lucano grosso modo coetaneo di Monteverdi. La finezza strumentale qui riscatta il tono di danza popolare dei tre pezzi che così assumono una veste di ricercata eleganza.

Di Alessandro Scarlatti si ascoltano di seguito il Concerto grosso n° 5 in re minore, pagina in cui si ammira l’articolata tessitura strumentale e l’aria “Caldo sangue” da Il Sedecia, re di Gerusalemme, dove le forti emozioni sono rese con il linguaggio tipico della teatralità barocca. Le difficoltà della pagina sono affrontate e risolte con naturalezza dal cantante che lascia per altri momenti le ornamentazioni, puntando qui all’intensità dell’espressione.

E poi si passa a Vivaldi ed è come se nell’Auditorium Arvedi si accendesse una nuova luce: il suono dell’Accademia Bizantina assume una patina ancora più preziosa, i timbri diventano più ricchi, i colori più brillanti nella Sinfonia Il coro delle Muse e nello stupendo Concerto in mi minore RV 273 dove le arcate del Konzertmeister Alessandro Tampieri si distendono con straordinaria maestria musicale nei tre movimenti classici Allegro-Largo-Allegro. La pagina vocale che segue è quella di “Gelosia, tu già rendi l’alma mia”, l’aria di Caio Silio con cui termina il primo atto dell’Ottone in villa, la prima opera di Vivaldi. È un pezzo di brillante virtuosismo con cui Maayan Licht mette in evidenza la sua straordinaria tecnica e altrettanto stupefacente facilità a realizzare le impervie agilità richieste.

Non è di Vivaldi, bensì di Geminiano Giacomelli la successiva pagina vocale “Sposa, non mi conosci” dall’opera La Merope, ma l’aria è più conosciuta nella versione del Prete Rosso “Sposa, son disprezzata” utilizzata nel suo Bajazet, un caso di “imprestito” fra colleghi molto comune all’epoca. La tensione drammatica e le lunghe frasi in un solo fiato sono risolte con abilità e grande musicalità dal controtenore il quale termina il programma con due pagine händeliane fra le più popolari: “Lascia ch’io pianga” dall’opera Rinaldo e “Un pensiero nemico di pace” dall’oratorio Il trionfo del Tempo e del Disinganno. Due pagine diversissime che rendono conto dell’immenso senso teatrale del Sassone e hanno permesso al cantate di ostentare la sua straordinaria tecnica e sensibilità. Doti che hanno spinto il pubblico a chiedere dei fuori programmi generosamente concessi dagli interpreti: ecco allora la gioiosissima “Rejoice” dal Messiah di Händel e un altro Vivaldi, l’intenso “Vedrò con mio diletto” dal Giustino. 

Ma il pubblico non vuole andare via e gli applausi fanno ritornare in scena tutti i musicisti, che erano già usciti, per il bis di “Sì dolce è il tormento” ma questa volta con nuove piccole variazioni! Soltanto dopo l’ennesima standing ovation gli spettatori si decidono a uscire nella calda notte in cui è immersa la bassa padana.

Regine di cuori

Benedetto Marcello, Sinfonia dall’opera Arianna Abbandonata 

Claudio Monteverdi, Lamento d’Arianna

Henry Purcell, Sinfonia dall’opera Dido and Aeneas

Giovanni Battista Martini, Dido Infelice, Cantata per solo Alto con violini, 

Nicola Porpora, Sinfonia dall’opera Agrippina

Antonio Caldara, Medea in Corinto, Cantata per Alto, due violini e continuo

Margherita Maria Sala contralto, Thomas Chigioni direttore, Ensemble Locatelli

Cremona, Cortile di Palazzo Fodri, 16 giugno 2025

Regine di cuori

Il Monteverdi Festival di quest’anno si intitola Heroes, ma c’è anche una eroina: la Penelope de Il ritorno d’Ulisse in patria, il contralto Margherita Maria Sala, durante la prova generale si è infortunata a un un braccio ma ha continuato la prova imperterrita e non solo si è presentata come se nulla fosse alla prima e alla successiva recita, ma non ha neppure disertato il previsto concerto pomeridiano a Palazzo Fodri dove, incurante del  caldo, dei lontani rombi di tuono, delle porte che sbattevano per il vento, delle campane e del garrire delle rondini, ha intonato con voce sontuosa – e sempre con il braccio al collo – i lamenti di tre donne abbandonate: Arianna, Didone, Medea.

Messe duramente alla prova dall’umidità del pomeriggio estivo nella splendida corte, le corde in budello dei violini di Jérémie Chigioni e Ulrike Slowik, la viola di Nicola Sangaletti, il violoncello di Thomas Chigioni e la tiorba di Francesco Olivero dell’Ensemble Locatelli, hanno comunque retto nel compito di intonare le meravigliose note di lavori del Seicento e Settecento: tre sinfonie strumentali alternate ad altrettanti numeri vocali, tutti incentrati su donne dell’antichità classica e dall’infelice destino.

Inizia il concerto la sinfonia de l’Arianna abbandonata di Benedetto Marcello che nel 1727, sette anni dopo la pubblicazione del suo corrosivo pamphlet Il teatro alla moda, dedicava alla figura della sventurata donna abbandonata da Teseo questo “intreccio scenico musicale” intriso di un turgido linguaggio tardo barocco che contrasta fortemente con l’Arianna di un secolo prima, quella dell’opera perduta di Monteverdi, di cui la Sala canta con solenne compostezza l’unico reperto rimastoci, quel Lamento che oggi ascoltiamo per intero e non nella versione in salsa Liberty di Parisotti, tanto amata dal Vate da venire inserita nel suo romanzo Il fuoco. Qui non c’è bisogno del testo scritto perché le parole sono scandite con chiarezza e con sottili sfumature espressive dalla cantante vincitrice del Cesti 2020.

Unico compositore non italiano presente nell’impaginato del concerto è Henry Purcell, di cui non poteva mancare un’altra abbandonata, Didone. La versione per archi della sinfonia da Dido and Æneas che ci viene fornita dall’Ensemble Locatelli è essenziale ed elegantemente minimalista pur foriera della tragedia incombente. E ancora la regina di Cartagine è protagonista del brano vocale che segue, Dido infelice, cantata di Giovanni Battisti Martini, ritrovata nella Biblioteca di Bologna, qui in prima esecuzione mondiale. Strutturata in una lunga introduzione strumentale, recitativo, aria con da capo, aria con ricche fioriture rese con proprietà senza particolare sfoggio virtuosistico dal contralto.

In un solo tempo e dal ritmo particolarmente vivace è la Sinfonia dall’Agrippina di Nicola Porpora. Non abbandonata ma dal destino piuttosto tormentato è la madre di Nerone, protagonista della prima opera del maestro del Farinelli, del Porporino e dei maggiori castrati cantori dell’epoca. Pur con pochi mezzi mezzi la ricchezza tematica e timbrica del pezzo è efficacemente messa in risalto dai cinque virtuosi.

Conclude il concerto la figura di Medea con la cantata di Antonio Caldara anch’essa strutturata in introduzione e tre arie che esemplificano il sistema di “affetti” dell’opera barocca: essendo la prima una dolente aria di abbandono, la seconda un’aria di furore e la terza una ancora più agitata aria di vendetta con “vediamo” trasformare sotto i nostri occhi una triste amante in furia e poi in temibile maga. Con una mimica facciale molto contenuta, tutto è lasciato all’espressione della voce della cantante che mostra le sue qualità vocali in questa straordinaria sequenza.

Ma Margherita Maria Sala ci riserva ancora una sorpresa: agli insistenti applausi del pubblico regala un fuori programma che da solo valeva il concerto. Infatti dopo le minacce terrificanti della maga abbiamo la tenera ninna-nanna «Dormi, o fulmine di guerra” dall’Oratorio Giuditta di Alessandro Scarlatti, con cui si invita al sonno Oloferne. Qui tutto è sospeso: è il tempo dell’attesa dell’innamorato che verrà ingannato, ma anche il cullante regredire verso il ventre materno, il tempo di sospensione dalla violenza del mondo. Mai come in questa pagina è resa evidente la nozione del canto come seduzione. Le lunghissime arcate delle note tenute in fiati interminabili e i semplici ma allo stesso tempo raffinati passaggi armonici sono resi con olimpica maestà dalla calda voce del giovane contralto. Il pubblico alla fine, quasi in trance, non si decide ad andarsene.

Ariadne’s Echo

Claudio Monteverdi, “Lasciatemi morire” dal Lamento d’Arianna

Anonimo, “Mezza tra viva e morta” (Lamento d’Olimpia), cantata per soprano e basso continuo

Girolamo Frescobaldi, Tocata per la levatione

Luigi Rossi, “Potesti i lini sciogliere”, cantata da camera per soprano e basso continuo

Domenico Mazzocchi, “S’io mi parto o mio bel sole”, ciaccona, per flauto e basso continuo

Marco Marazzoli, “Abbattuto dal duolo”, cantata per soprano e basso continuo

Gaspar Sanz, “Marizápalos”, da Cifras sobre la guitarra Española, libro II

Anonimo, “O me infelice” (Falsirena disperata)

Roberta Mameli soprano, Andrés Locatelli direttore, Theatro dei cervelli

Cremona, Aula Magna dell’Università del Sacro Cuore, 14 giugno 2025

Lamenti barocchi

Con il titolo, chissà perché in inglese, di “Ariadne’s Echo”, il Festival Monteverdi utilizza per la prima volta l’aula magna della splendida Università Cattolica. In programma una sequenza di cantate inedite di area romana di metà Seicento in cui il lamento di una donna è il tema principale.

L’inizio è con le prime frasi del Lamento di Arianna, tratto dall’opera di Monteverdi andata perduta, cantate però nell’arrangiamento di Alessandro Parisotti che nel 1890 pubblicava Arie antiche, una raccolta di arie barocche armonizzate secondo il gusto del tempo o composte ex-novo in un esplicito caso di falsificazione musicale. Sulla base strumentale dell’ensemble Theatro dei Cervelli – formato dal direttore e flautista Andrés Locatelli, il cembalo di Guillaume Haldenwang, Leon Jänicke tiorba e chitarra, Ludovico Minasi violoncello, Flora Papadopoulos arpa – svetta la voce di Roberta Mameli, grande proiezione e temperamento ma strana dizione dove «Lasciatemi morire» diventa quasi «Losciotimi murire», il che, assieme all’infelice acustica della ex-chiesa e alla mancanza del testo scritto, rende problematica la comprensione delle parole dei successivi pezzi, al più sconosciuti.

A seguire, si ascolta infatti “Mezza tra viva e morta” (Lamento di Olimpia) di anonimo, dove la voce dialoga emotivamente con gli strumenti del basso continuo. Le continue variazioni di accento trovano grande realizzazione nella voce della cantante specializzata nel repertorio settecentesco. Di Luigi Rossi è invece “Potessi i lini sciogliere”, cantata da camera ancora più articolata dove si ammira il temperamento e l’espressiva recitazione dell’interprete di Poppea, Belinda o Didone. Sempre più drammatica la pagina di Marco Marazzoli “Abbattuto dal duolo”, cantata del compositore bergamasco autore di una decina d’opere rappresentate per la maggior parte a Palazzo Barberini nei decenni 1640-1660. Qui l’aspetto teatrale è messo in evidenza dalla grande presenza vocale del soprano romano che chiude la serata con un’altra pagina anonima “O me infelice” (Falsirena disperata) con cui si tocca l’estremo più teatrale del concerto.

Alternati alle composizioni vocali, lo smilzo ensemble mette in campo pezzi strumentali che evidenziano le qualità solistiche dei musicisti. È il caso della “Toccata per la levatione” di Girolamo Frescobaldi dalla “Messa della Madonna” dei Fiori musicali, in cui si fa fatica a scorgere l’aspetto liturgico in una musica fiorita di danze che Flora Papadopulous dipana con tecnica e sensibilità all’arpa barocca. Nonostante il titolo “S’io mi parto o mio bel sole” è una ciaccona per flauto e basso continuo di Domenico Mazzocchi eseguita con perfetto stile e celato virtuosismo da Andrés Locatelli. Un pezzo che con l’ostinato ritorno del tema della ciaccona risponde strumentalmente al lamento vocale degli altri in programma. Atmosfera iberica per la chitarra di Leon Jänicke nelle “Marizápalos” da Cifras sobre la guitarra española di Gaspar Sanz del 1675 dove non sono gli elementi folcloristici a dominare, ma la misura di una musica che anche nelle forme della danza mantiene un’elegante compostezza. Coinvolto, il pubblico ha risposto con generosi applausi.

Filarmonica TRT

Richard Wagner, Preludio e morte di Isotta

György Ligeti, Atmosphères

Richard Strauss, Also sprach Zarathustra op. 30
1. Einleitung (Introduzione); 2. Von den Hinterweltlern (Degli uomini che vivono in un mondo dietro il mondo); 3. Von der großen Sehnsucht (Del grande struggimento); 4. Von den Freuden und Leidenschaften (Delle gioie e delle passioni); 5. Das Grablied (Canto funebre); 6. Von der Wissenschaft (Della scienza); 7. Der Genesende (Il convalescente); 8. Das Tanzlied (Il canto della danza); 9. Das Nachtwandlerlied (Canto del sonnambulo)

Orchestra Filarmonica del Teatro Regio di Torino, Jukka-Pekka Saraste

 direttore

Torino, Teatro Regio, 9 giugno 2025

Atmosfere

Seguendo Rai e Lingotto, anche la terza stagione sinfonica torinese, quella del Regio, è giunta alla pausa estiva. Dopo Eleganza, Meditazioni, Armonia, Mondi… è la volta di Atmosfere per la Filarmonica del Teatro Regio, questa volta affidata alla sicure mani di Jukka-Pekka Saraste. In programma tre brani molto evocativi che da Wagner arrivano a Ligeti passando per Richard Strauss. Ma anche tre momenti cinematografici, perché tutti e tre i lavori sono diventati famosi presso il grande pubblico quali colonne sonore di grandi film.

È il caso ovviamente di Also sprach Zarathustra che Stanley Kubrik scelse per le prime immagini del suo 2001: A Space Odissey. Una fanfara epica ormai considerata come pezzo musicale a sé, ma che è invece la solenne introduzione al poema sinfonico con cui nel 1896 Richard Strauss rispondeva musicalmente all’omonimo testo di Friedrich Nietzsche, a sua volta in risposta alla crisi del pensiero occidentale causata dall’avanzare della scienza e al crollo della religione. Con il sottotitolo “Un libro per tutti e per nessuno”, nel 1885 il filosofo tedesco prendeva a modello la figura dello storico mistico iraniano Zarathustra che sceso dalla montagna portava il suo insegnamento all’umanità. In opposizione a Schopenhauer e al mondo di Richard Wagner, Nietzsche qui trattava i temi dell’eterno ritorno, la parabola della morte di Dio e la profezia dell’avvento dell’Übermensch (oltreuomo), concetti già introdotti nel suo precedente Die fröhliche Wissenscahft (La gaia scienza).

Ma che cosa c’è di tutto questo nel poema sinfonico di Strauss? Dopo l’introduzione, in cui si ascolta il solenne saluto al Sole nascente, il brano di sviluppa in otto sezioni in cui il compositore affronta l’arduo compito non di descrivere o narrare una storia, come aveva fatto nei suoi precedenti poemi sinfonici, ma di narrare in suoni un pensiero filosofico traducendo in forme musicali i concetti fondamentali del testo. Ecco allora che il tema dell’eterno ritorno qui diventa un rondeau dove un tema musicale ricorre più volte. Così gli altri due temi: “del grande anelito”, la terza sezione, e “delle gioie e delle passioni”, la quarta, mentre “della scienza” è una dotta fuga. Il direttore finlandese gestisce con maestria le masse sonore di questo poema sinfonico passando dalla grandiosa fanfare iniziale ai complessi momenti successivi, indugiando ne “il canto dei sepolcri” su quei malinconici ricordi e al loro girare girare a vuoto, o come ne “il canto della danza” quegli spunti di valzer serpeggianti nell’orchestra che anticipano quelli del Rosenkavalier. Nel lustro strumentale una parte a sé si ricavano il primo violino Lorenzo Gentili-Tedeschi e Nicola Patrussi, primo oboe della OSN. Nella lettura di Saraste diventa evidente lo struggente tono mahleriano dell’ultima sezione, “il canto del viandante notturno”, dalla timbrica rarefatta con cui si conclude un po’ ambiguamente la pagina.

Nello stesso 2001: A Space Odissey Kubrik aveva utilizzato Atmosphères, di György Ligeti, pezzo «per grande orchestra senza percussioni», come si legge in partitura, eseguito con lo schermo nero prima ancora della sigla del film. Questo per porre subito lo spettatore in una prospettiva senza confini. È il primo di una straordinaria sequenza di musiche – Richard Strauss, ancora Ligeti, Johann Strauss… – magistralmente utilizzate dal regista nel film del 1968 diventato poi di culto presso gli estimatori del genere fantascientifico, ma non solo. Nel 1961 a Donaueschingen il pezzo ebbe da subito un grande successo per la sua originalità: un brano stratificato, una ragnatela finemente tessuta in cui i tradizionali intervalli musicali si dissolvono in un unico intreccio complesso fatto di numerose voci dove non si sentono più singole armonie e singoli ritmi, ma un’unica massa filamentosa e brulicante. Una materia sonora ramificata e in perpetua trasformazione, un insieme di micropolifonie che fluisce senza inizio né fine, tendente all’infinito. Ed è straordinario vederlo suonato in orchestra: si stenta a credere che quei suoni arcani siano realizzati con strumenti tradizionalissimi, soprattutto gli archi, utilizzati però in maniera innovativa e geniale. Molto particolare l’utilizzo del pianoforte, così prescritto dal compositore: «La parte pianistica è costituita interamente da suoni emessi sfiorando le corde. Gli strumenti necessari sono: un paio di spazzole a filo (quelle usate dai batteristi jazz), panni spessi, morbidi e ovattati, e due paia di spazzole per ogni suonatore. Per le corde basse e medie è meglio usare grandi spazzole di pelo di cavallo, molto compatte e non morbide; per le corde più alte spazzole più piccole, per esempio spazzole per unghie piuttosto dure, la cui dimensione dipende dallo spazio disponibile nel pianoforte. I movimenti di spazzolamento devono essere eseguiti in modo da creare un suono morbido, completamente continuo ed equilibrato, senza alcun carattere di glissando e senza alcuna traccia di periodicità. Il modo migliore per ottenere questo risultato è il seguente: le corde vengono spazzate molto lentamente da entrambi gli esecutori contemporaneamente, in diagonale e con movimento contrario». Nello stesso film Kubrick inserì anche altri brani di Ligeti: il “Kyrie” dal Requiem (1963-65), Lux Aeterna (1966) e Aventures (1962), ma si ricordò di lui anche per The Shining (Lontano, 1967) e Eyes Wide Shut (Musica ricercata, 1950-53).

Il concerto si era aperto con le note del Preludio e morte di Isotta di Richard Wagner, anch’esse utilizzate in una pellicola di Lars von Trier, Melancholia, film in cui all’inizio la protagonista sogna un pianeta venuto dalle profondità dello spazio a intercettare la traiettoria della Terra e distruggerla. La collisione avviene al culmine del crescendo del preludio. Nessuna catastrofe si verifica nella sala del Regio, la direzione di Saraste è precisa ma un po’ fredda, non molto coinvolgente in questa prima parte e neppure la morte di Isotta tocca vette di grande emotività, ma il pubblico folto ed entusiasta, con molti giovani presenti, è soddisfatto e risponde con calorosi applausi.

Se la stagione dei concerti al Regio si conclude nel segno del cinema, anche quella della RAI a settembre inizierà con un omaggio alla decima musa: un ciclo di tre concerti dedicati alle musiche per famosi film muti.

Stagione Sinfonica RAI

Franz Schubert, Sinfonia n° 8 in si minore D 759 (Incompiuta)
I. Allegro moderato
II. Andante con moto

Anton Bruckner, Sinfonia n° 7 in Mi maggiore
I. Allegro moderato
II. Adagio. Sehr feierlich und sehr langsam
III. Scherzo. Sehr schnell
IV. Finale. Bewegt, doch nicht schnell

Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, Fabio Luisi direttore

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 5 giugno 2025

Maestosa chiusura della stagione RAI

Si può dire con certezza che la forma musicale dell’Ottocento è la Sinfonia. Non che nel secolo precedente siano mancati compositori di questo genere, basterebbero i nomi di Haydn e Mozart, ma è nel secolo romantico che la sinfonia assume un ruolo socialmente privilegiato e da divertimento aristocratico diventa una musica per le masse che affollano i concerti a pagamento.

All’inizio del XIX secolo, Beethoven aveva elevato la sinfonia da genere quotidiano prodotto in grandi quantità, a forma suprema in cui i compositori si sforzavano di raggiungere il massimo potenziale della musica in poche opere. Così dopo le 106 di Haydn o le 47 di Mozart si hanno le nove di Beethoven, le altrettante di Schubert, le cinque di Mendelssohn e le quattro di Schumann. Prima di essere un po’ messa da parte dal poema sinfonico di Berlioz e Liszt, dopo il 1870 si ha una seconda vita della sinfonia con quelle di Brahms, Čajkovskij, Saint-Saëns, Borodin, Dvořák, Franck… e Bruckner, anche lui fermo al fatidico numero nove.

Per la chiusura della stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI, il direttore emerito Fabio Luisi ha scelto appunto il suo compositore di elezione di cui esegue la Settima, la più nota di Anton Bruckner. Presentata la prima volta al Gewandhaus di Lipsia il 30 dicembre 1884, è la sinfonia più wagneriana: non solo perché composta a ridosso della morte del compositore, ma per la presenza in orchestra di quattro tube wagneriane, per le enormi dimensioni e per i temi musicali che qui hanno l’evidenza e la presenza di personaggi teatrali.

Enorme il successo di pubblico allora, con il compositore chiamato alla ribalta quattro o cinque volte dopo ogni movimento, ma un lavoro anche capace di  suscitare il velenoso giudizio di un critico come Eduard Hanslick, che  all’indomani della prima esecuzione viennese due anni dopo scriveva: «Ammetto senza giri di parole di non essere in grado di giudicare con equilibrio questa sinfonia di Bruckner, tanto mi sembra innaturale, rigonfia, malaticcia e putrescente. Come tutte le composizioni maggiori di Bruckner, anche la Sinfonia in Mi maggiore contiene intuizioni geniali, passi interessanti, persino belli – qui sei, là otto battute – tra questi lampi però si spalanca un buio impenetrabile, una noia pesante come piombo e un’eccitazione febbrile». Essendo defunto Wagner, gli antiwagneriani se la prendevano col povero Anton. 

Ma è vero che la Settima ha qualcosa di «sovreccitato e febbrile», un turgore e un senso di sensualità sofferente che spinse Luchino Visconti a sceglierla per la colonna sonora di Senso. Che poi la sinfonia sia stata dedicata a Ludwig II non sembra una combinazione: con le sue esaltazioni e fragilità il re di Baviera sembrava essere il modello di un lavoro in cui risalta la sproporzione tra tenerezza cameristica – da Siegfried-Idyll, per intenderci – e squarci di una grandiosità quasi malsana. 

Tutto è chiaramente esposto nella lettura di Luisi che tiene saldamente in pugno le macrostrutture con cui è scritto il lavoro, un’alternanza di imponenti blocchi tematici e motivi brevi ma iterati a lungo con sapienti transizioni armoniche. Qui quello che domina non  è lo sviluppo dei temi, spesso ridotti a cellule elementari, ma la monumentalità della massa sonora, un fiume in piena in cui vengono esaltati i timbri degli strumenti. Come nel famoso Adagio, il lungo addio di Bruckner a Wagner, un vero proprio corale per le tube wagneriane e il basso tuba, dove sacro e profano si incontrano, severità e misticismo. L’architettura di una cattedrale gotica. Luisi dipana con fluidità analizzando sapientemente le miniature sonore prima che vengano schiacciate dalle possenti e lunghe perorazioni, dai grandi crescendo,  dalle ondate di d’intensità progressiva fino al finale simmetricamente speculare all’inizio che si spegne nel silenzio. Un momento di grande emozione per il pubblico e per gli esecutori.

Nella prima parte della serata Luisi ha eseguito l’Incompiuta di Schubert con tempi particolarmente rilassati che hanno fatto apprezzare il lirismo di un’opera enigmatica di cui rimangono solo due dei quattro movimenti. Il manoscritto riporta la data del 30 ottobre 1822 e dopo la composizione dei primi due movimenti, Schubert si apprestava ad abbozzare lo Scherzo con il Trio, ma tutto rimase sospeso senza un’evidente ragione, certo non quella della morte. Ma neanche quella di un senso di inedaguatezza: «Chi potrà fare qualcosa di più, dopo Beethoven?» si chiedeva Schubert, ma il compositore avrebbe scritto sei anni dopo la Sinfonia in Do maggiore “La grande”.

Tenuta nascosta per più di quarant’anni, è dal 17 dicembre 1865 che l’“Incompiuta” ci conduce al cuore della poetica schubertiana, al suo nucleo di desolazione e confidenza con la morte.  

I concerti dell’Unione Musicale

Samuel Barber, Sonata in do minore op. 6
Allegro ma non troppo
Adagio – Presto
Allegro appassionato

Nadia Boulanger, Trois Pièces
Modéré
Sans vitesse et à l’aise
Vite et nerveusement rythmé

Claude Debussy, Sonata n° 1 in re minore per violoncello e pianoforte
Prologue. Lent, sostenuto e molto risoluto
Sérénade. Modérément animé
Finale. Animé, léger et nerveux

Gabriel Fauré, Sonata in sol minore op. 117
Allegro
Andante
Allegro vivo

Benjamin Britten, Sonata in Do maggiore op. 65
Dialogo. Allegro
Pizzicato. Allegretto
Elegia. Lento
Marcia. Energico
Moto perpetuo. Presto

Nicolas Altstaedt violoncello, Alexander Lonquich pianoforte

Torino, Conservatorio Giuseppe Verdi, 21 maggio 2025

Un Novecento cameristico chiude la stagione dell’Unione Musicale

Dopo Lingotto Musica anche l’Unione Musicale termina la sua stagione. In programma cinque compositori nati nella seconda metà del XIX secolo o agli inizi del XX, ma con pezzi composti tutti nel Novecento. Per questo tradizionale ensemble da camera Beethoven e Brahms hanno lasciato esempi mirabili ed è a quest’ultimo infatti che si pensa per l’attacco del primo tempo della Sonata che Barber scrisse nel 1932, con quel tema trascinante esposto dal violoncello. La stessa aria appassionata si respira nell’Allegro finale, mentre l’Adagio dà modo allo strumento ad arco di abbandonarsi a un canto malinconico. Intrisa di un intenso tardoromanticismo, quest’opera giovanile Barber è presto entrata per i suoi meriti nel repertorio violoncellistico ma qui è eseguita per la prima volta per l’Unione Musicale.

Più equilibrato verso il pianoforte è il lavoro di Nadia Boulanger, Trois pièces, del 1913. I primi due brani sono di tono crepuscolare, nel primo il violoncello è sostenuto dal dolce accompagnamento del pianoforte, nel secondo i due strumenti procedono su cammini che si sfiorano senza mai che uno prevalga sull’altro. Tutt’altra atmosfera quella del terzo, vivacissimo nel suo tono spagnoleggiante.

Il Debussy della Sonata del 1915 è quasi irriconoscibile: la Sonata in re minore doveva far parte di un insieme di sei composizioni cameristiche come risulta dalle dediche apposte sulle Sonate effettivamente composte e pubblicate («Les Six Sonates pour divers instruments sont offerts en hommage a Emma-Claude Debussy (p. m.) – Son mari – Claude Debussy»), ma il musicista ne completò solo tre – le altre due sono per flauto, viola e arpa (1915) e violino e pianoforte (1917) – a causa della malattia che lo minava, che lo avrebbe portato alla tomba nel 1918, e all’angoscia per la guerra. Inizialmente Debussy avrebbe voluto sottotitolarla “Pierrot faché avec la Lune” richiamandosi alla pittura di Watteau (Il Pierrot lunaire di Schönberg è comunque di tre anni prima), ma poi ci rinunciò lasciando alla sola musica il potere evocativo. Il Prologo è caratterizzato da brevi frasi melodiche trapassanti dall’uno all’altro registro, l’equivalente sonoro di un narcotico incanto lunare, mentre i pizzicati, che richiamano il timbro di chitarre e mandolini, suggeriscono il tono da Serenata del secondo movimento. Ma è il finale con la gara di velocità tra violoncello e pianoforte a stupire per il suo passo travolgente.

Con la seconda Sonata di Fauré, cinque anni dopo la prima, all’età di 77 anni il compositore francese dà una sorprendente dimostrazione di vitalità dell’idea romantica in musica, ma non come nostalgico rimpianto di una stagione ormai lontana nel tempo: la musica per lui «è una questione di gusto, di sottile equilibrio fra aspettative e sorprese, tale da lasciare all’ascoltatore il piacere dell’abbandono – di un ascolto parzialmente passivo – salvo poi solleticarlo con un tessuto armonico innovativo che attinge alle ricche sorgenti dell’ambiguità tonale e della modalità» (Giulio d’Amore). Nel gennaio 1921 Fauré aveva ricevuto dallo Stato francese l’invito a scrivere un brano per banda militare, destinato alla cerimonia commemorativa dei cento anni dalla morte di Napoleone, che si sarebbe svolta il 5 maggio agli Invalides, un invito insolito per un compositore normalmente incline all’intimismo e alla dimensione cameristica. Fauré in ogni caso accettò e scrisse un Chant funéraire regolarmente eseguito nell’occasione prevista, seppure la musica fosse sin troppo elevata per una cerimonia militare, tanto che il compositore prese la decisione di trascrivere il brano per violoncello e pianoforte facendolo diventare il movimento lento di una sonata. L’Andante mantiene il lento moto processionale del violoncello scandito dagli accordi funebri del pianoforte ed è incorniciato da un primo movimento Allegro di grande slancio con i due strumenti avvinti in un canone a distanza di una battuta e un Allegro vivo finale di grande effervescenza.

Conclude il programma Benjamin Britten con la sua Sonata in Do maggiore dedicata a Mstislav Rostropovič, che il musicista aveva conosciuto nel 1960 a Londra in occasione della prima esecuzione inglese del Concerto per violoncello di Šostakovič. La prima esecuzione ebbe luogo nella Jubilee Hall di Aldeburgh il 7 luglio 1961, ovviamente con il solista al violoncello e il compositore al pianoforte. Si tratta di una composizione in cinque movimenti dai titoli curiosi e lo stesso autore ha fornito una breve traccia per seguirne l’ascolto: «”Dialogo” (Allegro) è costituito da un piccolissimo motivo, un dialogo fra due intervalli di seconda, l’uno ascendente e l’altro discendente. Il motivo viene prolungato per creare un lirico soggetto secondario, che sale fino a una nota sonata in pianissimo, ottenuta con gli armonici, per poi ridiscendere. “Pizzicato” (Allegretto) è uno studio in pizzicato, che a volte ricorda la chitarra per la sua tecnica elaborata della mano destra. “Elegia” (Lento), contro un sottofondo cupo del pianoforte, il violoncello suona una lunga melodia cantabile. Questa viene sviluppata con l’impiego di corde doppie, triple e anche quadruple, giungendo a un grande punto culminante, per poi perdersi con una conclusione dolce e tranquilla; “Marcia” (Energico), il violoncello suona un basso turbolento sotto un motivo sussultante del pianoforte. Nel Trio si odono dei richiami simili a quelli di un corno, suonati al di sopra di un basso ripetuto in terzine. La marcia ritorna molto silenziosa, col basso che, suonando degli armonici, si trova ora nel registro acuto. “Moto perpetuo” (Presto), il tema “saltando” in 6/8 domina l’intero movimento, spesso mutando il suo carattere, a volte alto ed espressivo, a volte basso e brontolante, a volte allegro e spensierato». 

Per questo concerto finale l’Unione Musicale ha invitato per la prima volta il violoncellista Nicolas Alstaedt, che si esibisce a fianco dell’habitué Alexander Lonquich, per la 25esima volta sul palcoscenico del Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino. Le loro sono due personalità molto particolari che si compensano perfettamente. Assieme hanno registrato nel 2020 le musiche per violoncello e pianoforte di Beethoven di cui danno un assaggio nel primo bis, il secondo movimento della sua Sonata n°2 in sol minore.

Nicolas Alstaedt è un artista versatile – solista, direttore d’orchestra e direttore artistico – ed eccezionale interprete di musica moderna. Il suo violoncello è un Giulio Cesare Gigli del 1760 dal suono ricco di armonici che sotto le mani formidabili del virtuoso franco-tedesco diventa uno strumento ideale anche per il repertorio contemporaneo. Con la sua eccezionale tecnica e sensibilità Alstaedt riesce a ottenere dal suo violoncello suoni quasi inediti ma sempre nell’ambito di una totale musicalità. Di Alexander Lonquich c’è poco da aggiungere per il pubblico torinese che lo conosce benissimo. Qui c’è solo da notare la sua grandissima intelligenza e disponibilità a colloquiare in termini paritetici con l’altro strumentista pur mantenendo la sua peculiare personalità. Qualità apprezzate dal folto pubblico che con i suoi calorosi applausi ha ottenuto due bis, il brano beethoveniano di cui s’è detto e la ripetizione dell’ultimo movimento della sonata di Britten.

Lingotto Musica

foto © Mattia Gaido

Wolfgang Amadeus Mozart

Sinfonia n° 39 in Mi bemolle maggiore K 543
Adagio – Allegro
Andante con moto
Menuetto. Allegretto – Trio
Finale. Allegro

Sinfonia n° 40 in sol minore K 550
Allegro molto
Andante
Menuetto. Allegro
Menuetto I – Menuetto II

Sinfonia n° 41 in Do maggiore K 551
Allegro vivace
Andante cantabile
Menuetto. Allegretto – Trio
Molto allegro

Les Musiciens du Louvre, Marc Minkowski direttore

Torino, Auditorium Agnelli, 20 maggio 2025

Con Minkowski e le ultime sinfonie di Mozart si conclude gloriosamente la stagione di Lingotto Musica

Acqua, fuoco, terra. Come se fossero prove da superare, le ultime tre sinfonie di Mozart secondo Marc Minkowski riflettono la simbologia massonica che permeerà poi la Zauberflöte. Quella in Mi♭ per il suo limpido fluire, quella in sol per i tempi brucianti del primo movimento, quella in Do per la solare e olimpica tonalità…

(il seguito su Le Salon Musical)

Benjamin Appl

Gustav Mahler, “Lieder und Gesänge aus der Jugendzeit”, 1. Frühlingsmorgen; George Butterworth, “Six Songs from a Shropshire Lad”, I. Loveliest of Trees; Gustav Mahler, “Rückert-Lieder”, II. Ich atmet’ einen Linden Duft; George Butterworth, “Six Songs from a Shropshire Lad”, II. When I was one-and-twenty; Gustav Mahler; “Rückert-Lieder”; I. Blicke mir nicht in die Lieder!; George Butterworth, “Six Songs from a Shropshire Lad”, III. Look not in my eyes; Gustav Mahler, “Rückert-Lieder”, V. Liebst du um Schönheit; George Butterworth, “Six Songs from a Shropshire Lad”, IV. Think no more, Lad; Gustav Mahler, “Rückert-Lieder”, IV. Um Mitternacht; George Butterworth, “Six Songs from a Shropshire Lad”, V. The Lads in their hundreds; Gustav Mahler, “Rückert-Lieder”, III. Ich bin der Welt abhanden gekommen; George Butterworth, “Six Songs from a Shropshire Lad”, VI. Is my team ploughing?; Gustav Mahler, “Des Knaben Wunderhorn”, Revelge

Gustav Mahler, “Des Knaben Wunderhorn”, Aus! Aus!; Erich Wolfgang Korngold, “Zwölf Lieder ‘So Gott und Papa will'”, VI. Aussicht; Alma Mahler, Fünf Lieder, V. Ich wandle unter Blumen; Erich Wolfgang Korngold, Der Knabe und das Veilchen; Alma Mahler, “Fünf Lieder”, III. Laue Sommernacht; Erich Wolfgang Korngold, “Sechs einfache Lieder”, IV. Liebesbriefchen; Alma Mahler, “Fünf Lieder”, IV. Bei dir ist es traut; Gustav Mahler, “Des Knaben Wunderhorn”, Nicht wiedersehen; Anonimo, Terezin Song; Ilse Weber, Ade Kamerad; Adolf Strauss, Ich weiß bestimmt, ich werd’ dich wiedersehen; Ilse Weber, Ich wandre durch Theresienstadt; Ilse Weber, Wiegala; Gustav Mahler, “Des Knaben Wunderhorn”, Urlicht

Benjamin Appl baritono, James Baillieu pianoforte

Ginevra, Grand Théâtre, 15 maggio 2025

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Gustav Mahler & Co.

La stagione del Grand Théâtre di Ginevra comprende anche quattro recital di celebrati cantanti del momento: i soprani Lisette Oropesa e Aušrinė Stundytė, il controtenore Jakub Józef Orliński e il baritono Benjamin Appl.

Dopo gli esordi come giovane corista tra i Regensburger Domspatzen e specialista della musica di Bach, Appl è apprezzato in un vasto repertorio che spazia da Telemann a Luciano Berio, da Schubert a György Kurtág. Oltre all’attività concertistica, il cantante è frequentemente chiamato a interpretare musica oratoriale – oltre a Bach, Brahms, Haydn, Britten… – e personaggi d’opera, da Papageno nello Zauberflöte ad Arlecchino nella Ariadne auf Naxos. Appl ritorna a Ginevra per la terza volta dopo una Winterreise nel 2019 e una sostituzione improvvisa di Sir Simon Keenlyside nel 2023. Nel concerto odierno a Gustav Mahler affianca altri compositori della sua epoca.

Nella prima parte della serata, infatti, a Lieder tratti da diverse raccolte mahleriane si alternano songs di George Butterworth (1885-1916), compositore londinese collezionista di canti popolari e danzatore folk. Tra il 1911 e il 1912 Butterworth mise in musica undici poesie tratte da A Shropshire Lad di A. E. Housman, così come aveva anche fatto pochi anni prima Ralph Vaughan Williams. Ognuna dei sei songs qui scelti risponde idealmente a un titolo mahleriano: così al Frühlingsmorgen, della raccolta “Lieder und Gesänge aus der Jugendzeit” su testi di Richard Leander, segue Loveliest of Trees nella esaltazione della stagione primaverile e della gioventù. Qui al tiglio i cui rami battono alla finestra in Mahler, risponde il ciliegio fiorito di Butterworth. Lo stesso tiglio lo troviamo in Ich atmet’ einen Linden Duft dei “Rückert-Lieder” che ha la sua controparte in When I Was One-and-Twenty. E così via, con il gioco di sguardi del Blicke mir nicht in die Lieder e Look not in My Eyes, quello amoroso di Liebst du um Schöhnheit e Think no more, Lad. 

Con Um Mitternacht, contrapposto a The Lads in Their Hundreds, si evidenzia però la diversa statura dei due compositori: alle insondabili profondità del notturno canto mahleriano si contrappone la musicalmente semplice ballata di Butterworth dove ragazzi arrivano alla fiera di Ludlow prima di partire per la guerra «dove moriranno nella gloria e non diventeranno mai vecchi». Lo stesso avviene nel successivo Ich bin der Welt abhanden gekommen, sempre di Friedrich Rückert, dove lo straziante addio alla vita, appena consolato dal fatto di sopravvivere nell’amore e nel canto, ha la sua controparte nel più prosaico Is my team ploughing? dove l’amata si consola col migliore amico del fidanzato morto. Conclude la prima parte della serata Revelge, una musica beffarda che avrebbe potuto scrivere Kurt Weill, che però doveva ancora nascere all’epoca della composizione del ciclo de “Il corno magico del fanciullo”… Qui Benjamin Appl dimostra il temperamento che fino a quel momento non era stato così evidente: il baritono tedesco è un grande liederista, ma le sue interpretazioni, perfettamente intonate con fraseggio impeccabile, non commuovono, anche a causa di un timbro chiaro che manca di armonici nel registro basso, armonici di cui era ricca invece la voce di Dietrich Fischer Dieskau di cui Appl è stato allievo e a cui dedicherà il secondo bis, lo schubertiano Du holde Kunst. In Revelge esce finalmente il temperamento del cantante, che qui sfoggia una certa libertà ritmica e un’espressività che prima erano mancate. Anche l’accompagnamento pianistico di James Baillieu, pur correttissimo, è risultato un po’ freddo e ha fatto rimpiangere l’orchestrazione adottata poi da Mahler.

Molto meglio riesce la seconda parte del concerto. Dopo l’intervallo, i pezzi scelti sono di contemporanei di Mahler o di compositori che hanno trovato la morte nei campi di concentramento o sono fuggiti dal Nazismo, come Erich Wolfgang Korngold, di cui si ascoltano tre deliziosi lavori: Aussicht, dal ciclo op.5, un gioioso inno alla bellezza della vita; Der Knabe und das Veilchen, duetto tra un ragazzo e una violetta, pezzo dall’ineffabile tono di operetta, e Liebesbriefschen dall’op.6. Anche Alma Mahler fornisce il suo contributo a questa svagata sequenza di tenere e sognanti miniature introspettive con Ich wandle unter Blumen (su testo di Heinrich Heine), Laue Sommernacht (Gustav Falke), in cui si canta delle notti d’estate, e Bei dir ist es traut (Rainer Maria Rilke). Il tutto è incorniciato da due brani da “Des Knaben Wunderhorn” di Gustav, Aus! Aus! e Nicht wiedersen, che inneggiano all’amore che però finirà: «Im Mai blühn gar viel Blümelein! | Die Lieb ist noch nicht aus! Aus! Aus!» (A maggio i fiori nascono in quantità! L’amore non è ancora finito! Finito! Finito!). Con il suo tono un po’ salottiero in questi pezzi Appl dimostra l’eleganza del suo porgere con delicate sfumature espressive.

Ma è con la terza e ultima parte che si scende nell’oscurità di sentimenti dolorosi. Il cambiamento di tono è quasi inavvertibile, poiché nell’anonimo Terezin Song il ritmo allegro cela la tragedia che si consuma nella città fortezza di Terezín, 60 chilometri a nord di Praga, dove venivano internati i maggiori artisti ebraici. Esibito dalla propaganda nazista come insediamento esemplare, ghetto modello, in realtà era un campo di raccolta di intellettuali, pittori, scrittori, musicisti ebrei – e di tantissimi bambini – in attesa di essere smistati nei campi di sterminio di Treblinka e Auschwitz. Qui si faceva musica, si allestivano spettacoli teatrali e conferenze e di qui passarono anche Adolf Strauss e Ilse Weber. Di quest’ultima, infermiera e poetessa morta ad Auschwitz, si ascoltano tre brani che si distinguono per la loro semplicità e forza. Ade Kamerad è l’addio a un compagno che non vedrà mai più: l’indomani verrò portata via col “trasporto polacco”. In Ich wandre durch Theresienstadt la donna si arresta ai bastioni della fortezza e guarda con sgomento e nostalgia il mondo di fuori. Wiegala è una straziante ninna nanna dalla disarmante tenerezza cantata poco prima della morte: «Es stört kein Laut die süße Ruh, | schlaf, mein Kindchen, schlaf auch du. | Wiegala, wiegala, wille, | wie ist die Welt so Stille!» (Nessun rumore turbi il tuo sonno, dormi mio piccolino, dormi. Ninna nanna, ninna nanna, com’è silenzioso il mondo!).

Musicista attivo nel ghetto di Praga, Adolf Strauss fu deportato a Terezín prima di finire anche lui nelle camere a gas di Auschwitz. Appl presenta un suo lavoro che ha inciso sull’album “Heimat” del 2017 e che anche Anne Sofie von Otter aveva registrato dieci anni prima: Ich weiss bestimmt, ich werd dich wiedersehen (Sono certo che ci rivedremo) riporta un po’ di speranza dopo tanto dolore. Sulla stessa linea è il pezzo finale del recital, Urlicht, ancora dal “Corno magico del fanciullo”, dove un angelo viene a consolare con la sua luce «l’uomo prostrato nella più grande miseria, nel più grande dolore». 

Con compostezza e impeccabili mezzi vocali ed espressivi Benjamin Appl ha traghettato il pubblico attraverso questi abissi dell’anima. Agli insistenti applausi risponde con due bis. Prima della dedica a Fischer Dieskau di cui s’è detto, il baritono tedesco omaggia la sua nuova patria di adozione, la Gran Bretagna, con una canzone del 1936 molto popolare durante la Seconda Guerra Mondiale e che diede anche il titolo a un film del ’43, I’ll walk beside you, interpretata da Appl in modo tale da rivelare il suo amore per questo repertorio.