Giacomo Sacchero

Il furioso nell’isola di San Domingo

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Il furioso nell’isola di San Domingo

Bergamo, Teatro Donizetti, 16 novembre 2025

★★★

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Un Donizetti semiserio che però fa sul serio tra temi coloniali, adulterio e follia amorosa

Il Furioso nell’isola di San Domingo torna a Bergamo in una nuova edizione critica. Alessandro Palumbo dirige con eleganza e passione una partitura di grande raffinatezza; eccellenti Paolo Bordogna, Nino Machaidze e Santiago Ballerini. La regia visionaria di Renga, tra memorie e scenografie esotiche, mette in luce un’opera che ai suoi tempi  fu tra le più popolari per poi essere negligentemente trascurata. 

Dopo il tragico di Caterina Cornaro e il comico di Il campanello e Deux hommes et une femme, il Donizetti Opera Festival propone il semiserio Il furioso nell’isola di San Domingo, chiudendo così il trittico operistico. A Bergamo il titolo era già apparso nel 1987 e nel 2013, ma qui viene presentato nella nuova edizione critica curata da Eleonora di Cintio, che ripristina alcuni numeri dell’originale andato in scena il 2 gennaio 1833 al Teatro Valle di Roma.


A seguito del trionfo milanese de L’elisir d’amore, l’attesa per la nuova opera del compositore bergamasco — allora all’apice della carriera — era grande. Il soggetto deriva da un episodio del Don Chisciotte in cui il Cavaliere Errante, sulla Sierra Morena, incontra un uomo sconvolto dalla follia e rifugiatosi tra le gole montane per una delusione amorosa. Il libretto è affidato a Jacopo Ferretti, già autore per Donizetti di Zoraida di Granata, L’ajo nell’imbarazzo e Olivo e Pasquale, oltre che della Cenerentola rossiniana; più tardi scriverà anche il suo Torquato Tasso.

Atto I. Sulla riva di un’isola battuta dalla tempesta. Marcella esce dalla sua capanna per lasciare del cibo al “furioso”, Cardenio, naufrago impazzito che vaga tra le rocce. Suo padre Bartolomeo sospetta subito le sue reali intenzioni e, trovando il cibo nascosto, lamenta la compassione femminile verso i folli, pur riconoscendo la sofferenza dell’uomo. Giunge Kaidamà, il servo indigeno della fattoria, terrorizzato dalla violenza disordinata di Cardenio, che lo ha colpito ripetutamente. In una lunga aria comica esprime il timore che, se il folle non verrà fermato, sarà lui la prossima vittima. Bartolomeo lo costringe a tornare al lavoro, ma Kaidamà, impaurito, si nasconde. Cardenio entra in scena cantando un’aria disperata sul ricordo della donna amata e perduta. I presenti osservano con angoscia il suo oscillare tra desiderio di morte e nostalgia d’amore. Quando intravede Marcella, si ritrae e fugge fra le rocce. La tempesta cresce e gli isolani assistono al naufragio di una nave. Una donna, Eleonora, viene trascinata a riva; sconvolta e spaventata da Kaidamà, implora di essere lasciata morire. Confessa di aver tradito il marito, pur amandolo ancora, e si sente punita dalla sorte. Marcella la consola e la copre, mentre Bartolomeo vuole conoscerne l’identità. Intanto Cardenio riappare, delirante, ossessionato dal tradimento della moglie. Incontra Kaidamà, gli offre cibo, poi lo aggredisce chiedendo dove si trovi Eleonora. I due cantano un duetto che intreccia paura e furore; alla fine si separano con la fuga di Kaidamà. Una nuova nave approda: Fernando, fratello di Cardenio, sbarca deciso a ritrovarlo e convince Kaidamà ad aiutarlo. Nella capanna, Marcella porta Eleonora al riparo. Cardenio racconta la sua storia: un amore felice, un matrimonio ostacolato dalla rovina economica, un inganno che ha distrutto la giovane sposa e lo ha precipitato nella follia. Eleonora tenta di rivelarsi, ma è trattenuta. Quando Fernando si fa riconoscere, i fratelli si riabbracciano. Eleonora infine si getta ai piedi del marito, ma Cardenio la respinge, incapace di perdonarla. Nel finale d’atto, tutti esprimono il proprio dolore mentre Cardenio fugge ancora ed Eleonora cade svenuta.
Atto II. Sulla spiaggia. Kaidamà e i contadini cercano Cardenio senza successo. L’uomo, ancora in preda alla follia, ricompare invocando solitudine. Eleonora lo ode dalla capanna e desidera rivederlo. Appena lui riconosce la sua voce tenta di fuggire ma cade a terra, stremato e quasi cieco. Eleonora lo raggiunge e, vedendolo in quello stato, si accusa di averlo ridotto così. Cardenio, non vedendo nulla, chiede disperatamente aiuto: la donna gli offre il proprio sostegno, giurando che solo la morte potrà separarli. Lentamente l’uomo recupera la vista e le rivolge parole tenere, ma quando la riconosce come la moglie traditrice scoppia di nuovo il furore: afferra un bastone e sta per ucciderla. Fernando, accorso, lo ferma. Sconvolto, Cardenio corre verso il mare e si getta per annegare; Fernando si lancia dietro di lui e lo salva. Bartolomeo e gli isolani arrivano sulla riva, ansiosi. Kaidamà racconta quanto accaduto. Poco dopo, un gruppo riferisce che Cardenio sembra rinsavito. Fernando conferma: il fratello è profondamente cambiato, desidera tornare in patria e la pietà sembra riaprire in lui uno spiraglio all’amore. Al tramonto, Cardenio appare trasformato esteriormente, ma interiormente ancora tormentato. Ricorda il momento in cui aveva rivisto Eleonora, colpito dal suo dolore. Kaidamà arriva con due pistole: Cardenio lo sorprende e le reclama, dichiarando che solo una morte condivisa con Eleonora potrà chiudere la tragedia della loro storia. Fernando conduce Eleonora al cospetto del marito. Lei confessa di nuovo la sua colpa; Cardenio le consegna una pistola e la invita a ucciderlo, mentre lui farà lo stesso con lei. Ma l’arrivo degli isolani con torce rivela la verità: Eleonora non punta l’arma su di lui, bensì su se stessa. Colpito dalla sincerità del suo gesto estremo, Cardenio comprende finalmente la profondità del suo pentimento. L’equivoco svanisce, il dramma si scioglie, e i due si riconciliano nella gioia, accolti dagli abitanti dell’isola.

La vicenda viene trasportata dalla Spagna ai Caraibi, sullo sfondo di un ambiente coloniale che rifletteva l’allora scottante problema della schiavitù dei neri deportati dalle coste africane. Di questo tema resta traccia nel personaggio di Kaidamà, il servitore moro che, pur nel registro comico/grottesco, restituisce con crudezza la dinamica violenta del rapporto schiavo-padrone. L’elemento comico del personaggio, diviso tra il timore del frustino del padrone e le minacce del “matto furioso”,  non cancella la brutalità della condizione servile né la carica razzista ben presente nelle parole di Bartolomeo, guardiano degli schiavi. Il libretto affronta anche un’altra questione delicata: l’adulterio femminile: Eleonora, moglie di Cardenio — il “furioso” del titolo — si era lasciata sedurre da un impostore, poi condannato a morte. Solo nel finale, con il suo pentimento, ottiene il perdono e il ricongiungimento con il marito. Nonostante la materia spinosa, l’opera conobbe un successo enorme e rimase a lungo tra le più rappresentate, grazie soprattutto alla forza della musica.

L’opera si apre con una sinfonia bipartita — Larghetto in re minore e Allegretto in Re maggiore — che ne marca il carattere semiserio: drammatico e teso il primo tempo, brillante e spensierato il secondo. Che si ascolterà qualcosa di speciale è subito evidente nella direzione di Alessandro Palumbo, alla guida dell’Orchestra Donizetti Opera, con Hana Lee al fortepiano. Il giovane direttore mette in luce con raffinatezza la tersa eleganza della partitura, svelandone i diversi piani sonori e i colori di una scrittura quasi cameristica, dove le sezioni orchestrali sono trattate con equilibrio esemplare. Le dinamiche, generalmente contenute, sanno farsi trascinanti nei momenti cruciali, come nel magnifico sestetto del finale primo, pagina che nulla ha da invidiare ai migliori finali rossiniani. La lettura precisa e affettuosa di Palumbo trova risposta nel fraseggio dell’orchestra, lucido e prezioso nei timbri. Attento ed efficace il coro maschile dell’Accademia Teatro alla Scala, preparato da Salvo Sgrò.

Perfetto l’equilibrio tra buca e palcoscenico, dove si alternano voci di grande valore. Paolo Bordogna affronta un Cardenio che lo costringe ad abbandonare i suoi consueti toni umoristici: qui la scrittura è pienamente seria, con momenti di forte drammaticità. Il primo interprete fu Giorgio Ronconi — l’Enrico de Il campanello e il primo Nabucco — e la parte, complessa e impegnativa, richiede un baritono di vasta estensione, capace di spaziare dal registro grave del basso a quello acuto del tenore. Bordogna supera la sfida con tecnica solida e sicura sensibilità teatrale, senza mai cadere nella caricatura e risolvendo con misura gli sbalzi emotivi del personaggio.

Per la prima volta al festival, Nino Machaidze è un’Eleonora di grande nobiltà, con acuti luminosi, agilità precise e un bel fraseggio. La vena comica di Kaidamà trova in Bruno Taddia un interprete ideale: con il suo istinto scenico trasforma la maschera dello schiavo in una figura degna di Beckett o Ionesco, farsesca ma insieme amara e rassegnata. Valerio Morelli e Giulia Mazzola danno vita ai ritratti musicali di Bartolomeo e Marcella: misurato ed efficace il primo, sensibile e affettuosa la seconda.

Prima del vorticoso concertato del finale primo, colpisce l’ingresso di Fernando, interpretato dal tenore Santiago Ballerini, cui Donizetti affida una scena di grande spettacolarità. Secondo le didascalie «A vele spiegate si avanza un vascello da cui sbarcano molti marinai spagnoli, e quindi Fernando, che si pone subito a percorrere la scena esaminando al rupe». Al coro che canta «Ecco alfin l’onde tranquille», Fernando risponde con un recitativo («Sì, questo è il lido. O mio Cardenio»), aria («Dalle piume in cui giacea») e cabaletta («Ah! Dammi o ciel pietoso») con stretta e pertichini del coro («A quel suo cuore eguale | di figlio un cor non v’è»), ripresa con variazioni e acuto di tradizione. Una struttura di grande efficacia in cui il tenore argentino – già ammirato nella Zarzuela come nel Puccini de La rondine – dispiega un timbro glorioso, bel fraseggio, acuti luminosi e spavalda presenza scenica, dando così nobile spessore al suo personaggio.

Nella regia di Manuel Renga, Fernando non scende da un vascello ma esce da un armadio: l’effetto è comunque teatralmente efficace. Il regista bresciano evoca i Caraibi sulle pareti della scena unica — variata però con grande inventiva — ispirandosi alle decorazioni esotiche delle dimore settecentesche di Bergamo Alta. Palme, banani, felci, cactus, uccelli, tutti nei toni rosa, cilestrino e smeraldo, si rincorrono nella scenografia di Aurelio Colombo, che firma anche i costumi, divertenti e coloratissimi. La chiave di lettura è la memoria: il vecchio Cardenio rievoca il proprio passato, e passato e presente si intrecciano con fluidità, sospesi tra realtà e ricordo. Il suggestivo lighting design di Emanuele Agliati accompagna i mutamenti della scena con tocchi poetici e ironici. Indimenticabile il finale primo, dove nel bailamme “rossiniano” del concertato anche i mobili danzano sospesi: un momento di grande teatro che ha entusiasmato il pubblico, pronto a tributare calorose ovazioni a cantanti, direttore, regista e collaboratori. Uno spettacolo che meriterebbe di essere ripreso altrove.

Nel 1825 Donizetti non presentò alcuna opera nuova; per questo motivo quest’anno manca il titolo del bicentenario. L’anno prossimo, per la dodicesima edizione del festival, sarà la volta di Alahor in Granata (1826). Nel 2026 torneranno anche L’esule di Roma e Le convenienze ed inconvenienze teatrali.

Caterina Cornaro

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Caterina Cornaro

Bergamo, Teatro Donizetti, 14 novembre 2025

★★★

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Dal trono alla sala operatoria: Caterina Cornaro secondo Francesco Micheli

La nuova edizione critica di Caterina Cornaro inaugura il Donizetti Opera restituendo l’opera nella sua forma originale. Riccardo Frizza ne valorizza la scrittura orchestrale, sostenuto da un cast maschile eccellente e da una Carmela Remigio autorevole. La regia di Micheli introduce una Caterina contemporanea, soluzione visivamente efficace ma accolta con opinioni contrastanti.

Per una strana convergenza di interessi culturali e storici, nei primi anni ’40 dell’Ottocento tornò d’attualità la figura di Caterina Corner (1454-1510) costretta dal Consiglio dei Dieci di Venezia prima a sposare il re di Cipro e poi, alla morte del consorte, ad abdicare, sempre per ragioni politiche, ossia per lasciare il governo dell’isola direttamente alla Serenissima.

Dopo il ritratto coevo di Bellini e quelli postumi di Tiziano e Dürer, nel 1842 fu Francesco Hayez a restituirne un’immagine nell’allora dominante gusto romantico e orientalista. La regina, in un abito damascato dai ricchi panneggi, siede su un trono coperto di cuscini e di una pelle di leopardo; intorno a lei le ancelle, mentre di fronte le sta il fratello, inviato del Consiglio dei Dieci, che le indica oltre la finestra già aperta la bandiera di San Marco. Hayez toccava così un tema assai sentito nel clima pre-risorgimentale, quello dell’imperialismo veneziano e dell’oppressione del popolo cipriota.

Ma furono soprattutto le scene teatrali a popolarsi delle vicende drammatiche della sventurata Corner. Nel 1841 c’era stata la Reine de Chypre di Halévy e l’anno successivo Donizetti aveva iniziato la composizione della sua Caterina Cornaro su libretto di Giacomo Sacchero. Il lavoro fu interrotto dal Don Pasquale, ma l’opera risultò comunque pronta per il debutto a Vienna, dove però ne era andata in scena da poco un’altra, la Catharina Cornaro di Franz Lachner, compositore tedesco quasi dimenticato oggi ma assai reputato ai suoi tempi. La Caterina di Donizetti fu dirottata allora sul San Carlo di Napoli dove debuttò il 14 gennaio 1844 con scarso successo per la debole performance della cantante protagonista, il mezzosoprano Fanny Goldberg, ma non solo. Un fiasco previsto dallo stesso Donizetti: «Scrissi per un soprano, mi danno un mezzo! e Dio sa la censura qual macello ha fatto», si lamentava in una lettera pochi giorni prima del debutto. Per motivi di salute, il compositore non aveva infatti potuto presiedere personalmente alle prove e all’esecuzione: circostanza rischiosa, allora più che mai.

Dei due momenti nodali della vita della nobile veneziana, Donizetti e il librettista scelsero il primo, quello del matrimonio con Giacomo II di Lusignano, che costituisce il prologo dell’opera.

Prologo. Venezia. Il matrimonio fra Caterina e Gerardo viene interrotto inaspettatamente dall’ambasciatore Mocenigo, che comunica al padre della sposa che il Consiglio dei Dieci ha stabilito che Caterina dovrà sposare il re di Cipro Lusignano. Gerardo medita allora di rapire l’amata, ma Mocenigo terrorizza Caterina con la notizia che un’azione simile avrebbe avuto come conseguenza la condanna a morte di Gerardo: la donna non può far altro che mentire all’amato e dirgli che non lo ama più. Gerardo parte sconvolto.
Atto I. Nicosia. Il piano di Mocenigo prevede una rivolta per far sì che Venezia assuma il controllo dell’isola, e l’uccisione di Gerardo. Lusignano si è intanto reso conto che il suo matrimonio con Caterina non è altro che una mossa politica del Consiglio dei Dieci. Una banda di sgherri si prepara a tendere un’imboscata a Gerardo, che viene però salvato dall’intervento del re. Il giovane non riconosce subito il sovrano, e gli rivela i suoi sentimenti per Caterina e il suo dolore per il suo “tradimento”; poi però, quando viene a sapere che sta parlando col re in persona, si vergogna delle sue parole e chiede perdono. Lusignano e Gerardo si giurano amicizia, e Gerardo promette di proteggerlo contro la congiura. Lusignano, debole e ammalato, rivela a Caterina che ha saputo da Gerardo del suo passato; arriva proprio Gerardo, e i due innamorati possono chiarirsi. Caterina spiega al giovane perché, per ragioni politiche, ha dovuto rifiutarlo. Gerardo a sua volta informa Caterina della congiura per eliminare Lusignano, ma in quel momento arriva Mocenigo. L’ambasciatore vorrebbe che la stessa Caterina entri a far parte della congiura, ma interviene lo stesso Lusignano, che dichiara guerra a Venezia.
Atto II. Gerardo, fedele alla promessa data al re, ha scelto di schierarsi contro i Veneziani; le dame di corte, terrorizzate, assistono alla battaglia. Caterina è raccolta in preghiera, e riceve la lieta notizia della vittoria di Cipro; la sua gioia però dura poco: entra Lusignano, morente, sorretto da Gerardo. Il re muore, non prima però di aver affidato le sorti del popolo alla sposa. L’opera si conclude con un vibrante discorso patriottico di Caterina. In un finale alternativo Lusignano torna solo e morente e annuncia la morte di Gerardo che fino all’ultimo ha cercato di difendere il re.

La presenza di due finali alternativi indica il travaglio dell’opera massacrata dalla censura napoletana e dai cambiamenti all’ultimo minuto per adattarsi alla mediocrità degli interpreti. Quello che ora viene presentato ad apertura del Donizetti Opera di Bergamo, il festival della città che ha dato i natali al compositore, è frutto dell’elaborazione critica di Eleonora di Cintio che ha ripristinato il testo e la musica originali per restituire l’opera come l’aveva immaginata il suo autore.

La maggior differenza è nel finale, che abbandona il tono patriottico dell’ultima aria di Caterina rivolto ai compatrioti ciprioti – «voi sorgeste dai vostri dolori; | fur protette le giuste bandiere, | furon vinti i codardi oppressori» – per una conclusione più stringata e tragica dove la regina, alla notizia della morte di Lusignano, risponde: «Spirò! Ah, l’amaro calice | vuotato ancor non ho!». Così si conclude l’ultima opera scritta da Donizetti, prima della sua reclusione nel manicomio vicino a Parigi.

La struttura dell’opera è stranamente squilibrata, con un prologo particolarmente esteso formato da un’introduzione, un coro di gondolieri, una scena e aria di Caterina e successiva scena e duetto di Caterina e Gerardo. Il primo atto prevede un preludio, scena e cavatina di Mocenico, scena e romanza di Lusignano, coro di sgherri, scena e duetto Gerardo/Lusignano e finale primo. Brevissimo il secondo atto, con soli due “numeri”: scena e aria di Gerardo e finale.

Le intenzioni originali di Donizetti vengono per la prima volta realizzate dal direttore artistico del festival Riccardo Frizza che, alla guida dell’Orchestra Donizetti Opera, illumina la ricca scrittura orchestrale che evidenzia i contrasti su cui si regge la musica. I tempi sono precisissimi, forse fin troppo controllati – qualche “fiamma” in più avrebbe reso più coinvolgente l’ultimo lavoro del Bergamasco – e sempre ben calibrato l’equilibrio tra la buca e i cantanti. 

Il versante maschile del cast è di altissimo livello. Enea Scala offre un Gerardo impetuoso, cui Donizetti regala una cabaletta del secondo atto che potrebbe quasi sembrare del giovane Verdi e che il tenore affronta con il suo squillo luminoso e potentemente proiettato. Le oscillazioni romantiche del personaggio sono rese con grande abilità e con gli ampi mezzi vocali che gli si riconoscono. Vito Priante è un Lusignano ideale che nella pagina dell’arioso reintegrato, presente solo ora, dispiega i suoi accenti più nobili. Il perfido Mocenigo trova nella presenza elegante e tagliente di Riccardo Fassi un interprete difficilmente superabile.. Buoni anche lo Strozzi di Francesco Lucii e la Matilde di Vittoria Vimercati. 

Quanto alla protagonista, Carmela Remigio conferma la dedizione con cui affronta ogni figura femminile. Qui deve incarnare una donna che rinuncia all’amato sull’orlo dell’altare, mente per salvarlo, accetta il marito impostole, ne è fedele, lo accompagna la malattia e ne piange la morte portandone in grembo il figlio. Grazie alle sue capacità attoriali, la Remigio rende credibile la doppia Caterina voluta dalla regia, con tormenti e rassegnazione. Meno persuasiva la prova vocale: timbro un po’ appannato e qualche eccesso espressivo, sebbene meno vistoso del solito. Il pubblico l’ha comunque accolta calorosamente, come pure gli altri interpreti e il coro dell’Accademia del Teatro alla Scala.

Agli applausi scroscianti si sono affiancati però sonori dissensi all’ingresso del regista Francesco Micheli, l’ex direttore artistico del Festival, la cui messa in scena – destinata anche a Madrid – non ha convinto tutti.

Non imbarazzato dalla rarità del titolo – l’ultima produzione degna di nota rimane quella bergamasca del 1995 diretta da Gavazzeni, con le scene ispirate ai disegni ottocenteschi di Alessandro Sanquirico – Micheli affianca alla debole drammaturgia dell’opera una narrazione parallela ambientata nella contemporaneità. Accanto alla Caterina storica e a quella dell’opera, introduce una “Caterina di oggi”: una giovane in viaggio di nozze a Venezia, incinta di un marito malato, affascinata dalla figura della regina. Nei suoi “sogni”, il medico che tenta di salvare il marito assume le fattezze dell’amato Gerardo, dettaglio che rende ancora più sfaccettata la lettura registica. Con abilità consumata Micheli passa da un piano all’altro, aiutato dalla scenografia di Matteo Paoletti Franzato, che sulla piattaforma girevole alterna ambienti ospedalieri a un frontone rinascimentale; dalle luci di Alessandro Andreoli; dai sontuosi costumi di Alessio Rosati; e dal visual design di Matteo Castiglioni. Con la consulenza drammaturgica di Alberto Mattioli, le due storie scorrono con fluidità e qualche tocco ironico – i gesti stilizzati del coro, il pugnale (chiamato “stile” nel discutibile libretto di Sacchero) trasformato in bisturi… – che però non ha convinto una parte del pubblico.

Forse esisteva una via più semplice o più tradizionale per mettere in scena un lavoro così problematico e non del tutto compiuto come quest’ultimo Donizetti. Ma la lettura proposta, visualmente pregevole, si è rivelata intrigante e assolutamente non in contrasto con la musica. Il che non è poco.