Philippe Gille

Manon

foto © Daniele Ratti

Jules Massenet, Manon

Torino, Teatro Regio, 16 ottobre 2024

(cast alternativo)

La presenza di quattro nuovi cantanti è il pretesto per ritornare al bellissimo spettacolo della Manon del Regio per qualche osservazione in più sulla messa in scena, ma anche sui personaggi e sulla musica stessa di Massenet che si conferma di strepitosa sapienza orchestrale. Si pensi anche soltanto al ritmo incalzante che prelude alla scena del gioco nell’Hôtel de Transilvanie, nel quarto atto, su quelle figure pulsanti di clarinetto e fagotto sul pizzicato degli archi di cui forse si ricorderà Prokof’ev nel suo Giocatore tanti anni dopo.

La regia di Arnaud Bernard anche alla seconda visione si conferma riuscitissima, con alcune finezze che erano sfuggite la prima volta, come le immagini che accompagnano il preludio all’atto primo, dove l’Allegro moderato iniziale di tutta l’orchestra ricrea la folla che entra nell’aula del tribunale col suo brusio per poi passare all’Andante moderato quando, dopo un rallentando, entra il clarinetto in si♭solo con un tema lamentoso, che ritornerà come Leitmotiv nell’opera, prescritto in partitura «bien chanté et soutenu». E vediamo allora apparire la figura un po’ spaventata di Dominique, la ragazza accusata di omicidio, qui un’indimenticabile Brigitte Bardot ventiseienne in uno dei film più importanti della sua carriera.

Dei vari piani su cui si sviluppa la messa in scena di Bernard si apprezza la coerenza drammaturgica tra il film, che vediamo in ampi spezzoni, e quanto viene agito dal vivo nella scena divisa in due, con le sapide ma non distraenti controscene, come le reazioni dei magistrati in alto nei loro scranni a quanto viene “rivissuto”, come flashback della protagonista, nella parte bassa. Rispetto all’analoga opera di Puccini, qui il Settecento è meno ingombrante e infatti al regista riesce molto meglio la trasposizione in tempi moderni, come se Massenet ne rendesse più facile l’attualizzazione. Merito è certamente dei librettisti francesi che hanno lavorato con più serenità al testo ricavato da Prévost di quanto sia successo invece per l’affannato iter di quello italiano affidato a un numero inverosimile di mani.

La recita del 16 ottobre è l’unica in cui sono presenti quattro nuovi interpreti nelle parti principali. Avevamo già ammirato Martina Russomanno come principessa Eudoxie ne La Juive su questo stesso palcoscenico e ora ne ritroviamo la brillantezza del registro e le fluide agilità piegate a un ruolo più complesso, che Massenet e i suoi librettisti Meilhac e Gille trasformano in personaggio eterno. Alla sua prima esperienza in un ruolo eponimo, Russomanno dimostra la pienezza di un’interpretazione dalle mille sfaccettature, fin dalla sua prima apparizione in cui la giovane quindicenne che vede il mondo per la prima volta (« Je suis à mon premier voyage!») ne è stordita («Je suis… encor… tout étourdie…» ma anche affascinata («j’admirais, de tous mes yeux […] Les voyageurs… jeunes et vieux…»). La stessa ammirazione che avrà per le sue simili che non devono rinchiudersi in un convento («Combien ces femmes sont jolies!…») e soprattutto per le loro «riches toilettes»: la fascinazione per i gioielli è un carattere dominante nella personalità di Manon («ces parures si coquettes les rendaient plus belles encor!…») fino alla fine, quando anche in punta di morte rivela innocentemente la sua civetteria guardando una stella che si è accese nella sera: «Ah! le beau diamant!… Tu vois… je suis encore coquette!». Con grande sensibilità il soprano delinea il momento di riflessione della ragazza quando si piega alla triste realtà, «Voyons, Manon!… plus de chimères […] Laisse ces désirs éphémères à la porte de ton couvent!», pur tuttavia «combien ce doit être amusant… de s’amuser… toute une vie!…». Manon nel secondo atto intona uno struggente canto alle semplice gioie della vita, «Adieu, notre petite table», per poi nel terzo lanciarsi in un irrefrenabile inno alla gioia: «Profitons bien de la jeunesse, | Des jours qu’amène le printemps; | Aimons, rions, chantons sans cesse, | Nous n’avons encor que vingt ans!». Ed è ancora di Manon uno dei momenti più trascinanti dell’opera di Massenet, quel «N’est-ce plus ma main que cette main presse?» che sarà ripreso nel finale da Des Grieux.

In Armand Des Grieux si ascolta questa sera il tenore Andrei Danilov, artista che dopo il debutto al Teatro di Irkutsk (Russia siberiana) è diventato membro dell’ensemble della Deutsche Oper specializzandosi in ruoli brillanti quali il Duca del Rigoletto, Rinuccio nel Gianni Schicchi, Tamino nel Flauto magico ma anche più drammatici quali Edgardo in Lucia di Lammermoor o Paolo nella Francesca da Rimini. Dotato di squillo e grande proiezione, il suo timbro non è molto ricco di armonici e pur dotato di belle mezze voci tende a risolvere con interventi vocali dove domina la forza momenti in cui si preferirebbe una maggiore intimità. Riesce comunque a instaurare un bel rapporto con il soprano italiano e a rendere appassionati i duetti d’amore tra i due personaggi.

Il Lescaut blouson noir di Bernard trova in Maxim Lisiin una efficace caratterizzazione anche se sul piano vocale al giovane baritono gioverebbe un maggior controllo dei fiati e una sonorità più adatta a forare l’orchestra. Il Des Grieux padre di Massenet ha molte somiglianze col Germont padre di Verdi: stessa apparizione nella sala da gioco e prima, nel parlatorio di Saint-Sulpice, il suo «Épouse quelque brave fille» richiama infallibilmente «Di Provenza il mar, il suol», non nella musica ma nelle intenzioni. Il basso franco-italiano Ugo Rabec, già membro dell’Atelier Lyrique dell’Opera di Parigi, delinea con efficace autorevolezza il personaggio.

Davanti a una platea che numericamente equivaleva a quanti agivano in scena, i cantanti hanno dato il meglio e sono stati premiati dai convinti applausi dei pochi presenti. Ora si spera che questo bello spettacolo possa avere nuova vita in qualche altro teatro o possa essere ripreso in una futura stagione, magari proprio con gli interpreti che hanno avuto questa sola magra occasione.

Manon

 

foto © Daniele Ratti

Jules Massenet, Manon

Torino, Teatro Regio, 5 ottobre 2024

★★★★☆

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Manon in mille sfumature di grigio

Dopo un interessantissimo convegno al Teatro dal Verme a Milano su “Puccini in scena, oggi” organizzato dall’Associazione Nazionale Critici Musicali, seconda giornata dopo quella di Lucca, in cui l’argomento è stato discusso da tre compositori (tra cui Francesco Filidei che debutterà alla Scala con la sua nuova opera Il nome della rosa con la regia di Michieletto), tre sovrintendenti (compreso il nostro Mathieu Jouvin) e tre registi (tra cui Valentina Carrasco che qui al Regio sei mesi fa aveva messo in scena La fanciulla del West), si torna a Torino per la seconda puntata di “Manon Manon Manon”. 

È la volta del «coeur trois fois féminin» della Manon di Massenet, la “meno infedele” all’originale di Prevost, quella con cui si confronterà direttamente, nove anni dopo il debutto nel 1884, Puccini con la sua Manon Lescaut. L’ascolto ravvicinato delle due versioni permette di comprendere il diverso approccio dei due musicisti, accomunati da una felice vena melodica e proprio per questo fino a non molto tempo fa considerati, assieme a Čajkovskij, con mal celato sussiego da certa critica.

La Manon Lescaut di Puccini è il frutto di un compositore 35enne che dopo due tentativi non entusiasmanti trovava la sua strada. La Manon di Massenet era la 14esima opera in una carriera già affermata di un musicista insignito della onorificenza della Légion d’Honneur e rispettato professore di contrappunto che aveva superato il più anziano Saint-Saëns nell’elezione all’Institut de France. Invidie e incomprensioni non gli permisero di far mettere in scena a Parigi la sua Hérodiade, che prese la strada di Bruxelles e che debutterà nella capitale francese solo nel 1884, un mese dopo la prima di Manon la quale si risolse in un successo prodigioso. In questo i due lavori “gemelli” di Puccini e Massenet hanno qualcosa in comune: entrambi aprono definitivamente le porte al successo ai rispettivi autori. Il francese consoliderà la sua fama con Le Cid, Werther, Thaïs, Chérubin, Don Quichotte e nella sua prolifica carriera coprirà la maggior parte dei generi e sottogeneri dell’opera: il grand opéra, l’opéra comique, l’opéra romanesque, la comédie-lyrique, il conte de fées, la farce musicale, la comédie chantée, l’operetta.

Diversi sono i caratteri dell’eroina di Prévost messi in luce dai due compositori. In Puccini Manon è una ragazza ribelle, psicologicamente immatura e incapace di rinunciare, di affrontare il dolore di una perdita, ma nello stesso tempo la sua è la passione disperata di chi si sente irrimediabilmente solo. Probabilmente la Manon di Puccini è quella che più riflette i tormenti del suo autore. La Manon di Massenet incarna invece l’archetipo della femme fatale, volubile e priva di senso morale, continuamente oscillante tra frivolezza e nostalgia.

Su questi tratti si basa la scelta cinematografica di Arnaud Bernard nel secondo pannello del trittico che precede la stagione del Teatro Regio torinese. È infatti la figura iconica di Brigitte Bardot nel film La vérité (1960), anche questo di Henri Georges Clouzot, a fare da filo conduttore alla sua lettura registica. Vediamo infatti le prime immagini della pellicola in bianco e nero mostrarci il tribunale in cui la bella Dominique Marceau è accusata dell’omicidio di Gilbert Tellier, il suo ex fidanzato. Sotto gli sguardi ostili dei giurati e del pubblico, ha inizio il racconto della vita della giovane in numerosi flashback che vediamo rappresentati sul palcoscenico del teatro. Il triplice sipario nero scopre la scena che Alessandro Camera suddivide in due parti: in basso i vari ambienti della vicenda, in alto, sempre presenti, giudici e avvocati magistrati nella loro tribuna. 

Diciamo subito che questa volta l’interazione con il mezzo filmico è riuscita molto meglio, non solo non distrae dalla musica, infatti la precede, ma la completa in maniera molto efficace. L’immedesimazione della protagonista cantante con la figura dell’attrice francese è sorprendente e anche le scelte scenografiche sono azzeccate. Il cortile della locanda di Amiens del primo atto non è molto diverso da quello visto nell’analogo primo atto di Puccini, ma qui la molteplicità di personaggi e di scene non nuoce perché il regista prende a prestito dalla tecnica cinematografica il ralenti e il fermo immagine per isolare le azioni dei singoli personaggi mentre il resto rimane sospeso nel tempo. La scena che manca nella Lescaut italiana, ossia quella dell’intimità domestica dei due giovani, qui costituisce il secondo atto mentre il primo quadro del terzo atto, la passeggiata del Cours-la-Reine è genialmente reso dal regista ambientandolo in un atelier di moda con vetrine di abiti e accessori e una passerella per la sfilata dei modelli, uno dei quali indossato proprio da Manon. Gli eleganti costumi sono disegnati da Carla Ricotti utilizzando le infinite sfumature del grigio.

Molto riuscito è anche il quadro del parlatorio di Saint-Sulpice, dove le severe boiserie del tribunale qui rappresentano la sacrestia in cui Manon va e riprendersi il suo uomo, nel frattempo diventato abate. Nuovamente affollato e movimentato l’atto quarto che si apre sulla sala da gioco dell’Hotel de Transilvanie. Qui Guillot de Morfontaine, scaricato dalle tre ragazze Poussette, Javotte e Rosette si sfoga con Manon fino ad abusarne sessualmente e sarà questo il motivo, assieme all’accusa di barare al gioco, che spinge Manon a ucciderlo con una rivoltella – così come aveva fatto la Manon pucciniana con Geronte di Ravoir – copiando fedelmente quello che avviene nel film di Clouzot, dove vediamo BB in prigione in attesa di giudizio tagliarsi le vene del polso con un pezzo di specchio. L’ultima scena in teatro vede un lettino di ospedale con Manon in procinto di esalare l’ultimo respiro. Stavolta non ci sono più i giudici nella parte superiore, la scena è tutta per Manon e Des Grieux, il quale inutilmente cerca di rianimare la ragazza: «N’est-ce plus ma main que cette main presse?», la stessa frase che Manon aveva usato per strappare il giovane all’abito talare. E con questa frase struggente termina «l’histoire… De Manon… Lescaut!…». 

Questo non è il solo tema ricorrente nella partitura che Evelino Pidò rende con attenzione ai colori strumentali ma senza eccedere in esasperati languori, rispettandone comunque gli slanci passionali. I momenti lirici e quelli brillanti sono realizzati con grande equilibrio e senso del teatro e molto curata è l’attenzione alle voci, qui appartenenti a buoni cantanti che si impegnano con convinzione e coerentemente alle scelte drammaturgiche del regista con la figura della Manon di Ekaterina Bakanova fedelmente ricalcata su quella della Bardot. Vocalmente esordisce con una fresca «Je suis encore toute étourdie» con cui delinea felicemente la freschezza e ingenuità del personaggio unitamente alla sua iniziale rassegnazione a essere rinchiusa in un convento. Il canto si fa più sentimentalmente intenso nell’addio alla «petite table» del secondo atto, poi un po’ di fatica si insinua nei suoi interventi successivi quando la voce deve raggiungere le vette acute di un canto in bilico tra tono brillante e appassionato. Il tenore brasiliano Atalia Ayan parte con qualche lieve difficoltà, poi prende quota e riesce a gestire belle mezze voci espressive nei duetti con Manon, arrivando a delineare con autorevolezza il personaggio di Des Grieux grazie al bel timbro e alla proiezione della voce. Björn Bürger è un vivace Lescaut, così come Thomas Morris si dimostra efficace attore nella parte dell’odioso Guillot de Morfontaine, mentre Roberto Scandiuzzi è un Conte Des Grieux talmente nobile ed elegante da rasentare l’astrazione. Nelle altre parti minori sono impiegati proficuamente membri del coro del teatro che dimostra di aver fatto tesoro del coach fornito: la dizione del francese è incommensurabilmente migliorata negli ultimi tempi. Anche di questo dobbiamo rendere grazie al sovrintendente.

Pubblico non numerosissimo, ma estremamente prodigo di applausi e unanimi i giudizi raccolti tra gli spettatori: «Questa Manon è molto meglio dell’altra»…

Lakmé

   

Léo Delibes, Lakmé

★★★★☆

Parigi, Opéra-Comique, 6 ottobre 2022

(video streaming)

Lakmé ritorna all’Opéra-Comique

Non avrà molta profondità, ma quanto è piacevole la musica di Léo Delibes! Con Lakmé il compositore francese raggiunge il suo più grande successo, 500 rappresentazioni nei primi 25 anni. Nel 1960 la 1500esima era prevista per Mado Robin, che aveva registrato una Lakmé otto anni prima, ma è gravemente ammalata, morirà infatti nel dicembre di quell’anno, e viene sostituita da Mady Mesplé. Quello della protagonista è sempre stato il rôle fétiche dei soprani coloratura: oltre alle due citate e dopo Marie van Zandt, creatrice della parte il 14 aprile 1883 all’Opéra-Comique, ricordiamo almeno Lily Pons e Renée Doria negli anni ’40, Dame Joan Sutherland nei ’60. Dopo Natalie Dessay è Sabine Devieilhe la nuova voce indiscussa di questa comédie lyrique che ha la struttura di un opéra-comique per la presenza dei dialoghi recitati, ma si emancipa dai canoni tradizionali dell’epoca per il melodismo e l’utilizzo dei motivi conduttori che ritornano frequentemente nell’opera.

Come Les pêcheurs de perles di Bizet (1863) o Le roi de Lahore di Massenet (1877), anche la Lakmé di Delibes è imbevuta di gusto per l’orientalismo in un momento in cui la Francia raggiunge il suo massimo sviluppo coloniale. Sono francesi infatti l’Indocina (attuali Vietnam, Laos e Cambogia), molta parte dell’Africa, delle Antille e delle isole del Pacifico. L’India della Lakmé è ovviamente quella colonizzata dalla Gran Bretagna e inglesi, nonostante gli accenti acuti del libretto di Gille e Gondinet, sono quindi i militari Gérald e Frédéric e le donne che scortano in questo viaggio.

Come è per Don José e Pinkerton, è soprattutto il fascino dell’esotico femminile a far presa su Gérald. Fin dal primo momento vediamo il giovane inglese incantato dal paese, «un pays enchanteur puisqu’on y peut mourir en mordant une fleur» – spoilerando così il finale dell’opera… – ma più che dalla persona umana in sé, Gérald è ammaliato dal mistero che emana: prima ancora di averla vista, egli si costruisce nella mente una visione della figlia del bramino che risponde alla sua idea di bellezza esotica, «Une idole qu’on divinise. Et qui jamais ne s’humanise». E poiché «partout les femmes sont toujours les mêmes», questa idealizzazione si concentra sulla estatica visione dei gioielli lasciati dalla ragazza, dal bracciale d’oro, dalla collana «de sa personne encore toute embaumé», espresso nell’aria «Fantaisie aux divins mensonges», una dei pezzi più fascinosi della musica francese, cavallo di battaglia dei grandi tenori del Novecento, prima i francesi Georges Thill, Alain Vanzo, Charles Burles, ma successivamente anche Nicolai Gedda, Alfredo Kraus, Jerry Hadley (il migliore?), Gregory Kunde, Juan Diego Flórez…

In questa produzione dell’Opéra-Comique il ruolo di Gérald è affidato al tenore Frédéric Antoun di presenza prestante e timbro maschio che però manca delle sottigliezze e dell’agio negli acuti e nei pianissimi che abbiamo sentito negli interpreti citati. Philippe Estèphe è un vivace Frédéric, ma è in Stéphane Degout che troviamo l’eccellenza di questa produzione: l’autorevolezza indiscussa dei mezzi vocali e l’espressività rendono il suo Nilakantha non un crudele vendicatore assetato di sangue, ma un padre amorevole che si rivolge alla figlia per proteggerla (è il suo unico bene) con grande tenerezza, espressa in maniera mirabile in «Lakmé, ton doux regard se voile». Un altro momento di grande commozione della serata è l’unico intervento importante di Hadji in cui François Rougier esprime con grande delicatezza la sua assoluta fedeltà – forse addiruttura amore nascosto – per Lakmé.

Di Sabine Devieilhe non si può che ripetere quanto già ammirato in questa parte spesso frequentata dal soprano di Caen. Con lei il personaggio della figlia del bramino acquista la vita e la sensibilità che talora mancano a certe performance meccaniche e fredde e l’“air des clochettes” non risulta un’arida esibizione di acuti, trilli, picchettati, roulades, anche se sono tutti impeccabilmente resi con sfoggio di pianissimi, filati e perfetta intonazione. Ma è nei duetti con Gérald che la Devieilhe esprime la massima intensità e la ripresa di «tu m’as donné le plus doux rêve» fa venire i brividi. Nel “duet des fleurs” trova un’ottima partner nella Mallika di Ambroisine Bré. Il trio delle inglesi è capeggiato da una divertente Mireille Delunsch (Mrs Bentson) mentre convincono Elisabeth Boudreault (Ellen) e Marielou Jacquard (Rose), grazie anche alla regia di Laurent Pelly che si allontana dal folklore di un contesto esotico che spesso sfocia nel kitsch e cancella il più possibile ogni riferimento all’India e all’induismo, per creare un mondo leggero, «come le pagine di un racconto». Tale è infatti la poetica scenografia di Camille Dugas con i suoi leggeri pannelli di carta che delimitano le diverse fasi della vicenda: l’idea di foresta del primo atto, con la gabbia in bambù in cui è “protetto” quell’uccellino canterino che è Lakmé; i veloci pannelli semoventi che rendono l’atmosfera febbrile del mercato del secondo atto; il cielo col sole al tramonto e il tappeto di fiori bianchi del terzo. Il tutto illuminato dal bel gioco luci di Joël Adams. Il contrasto tra i due mondi è soprattutto nei costumi, disegnati da Pelly stesso: gli indù sono in bianco, anche il viso e i capelli, e scalzi; gli inglesi nei loro rigidi abiti anni anni ’10 declinati nei toni del grigio.

Alla guida dell’Ensemble Pygmalion, Raphël Pichon legge la partitura di Delibes con grande vivacità e senso dei colori, i suoi finali sono fulminanti e teatralmente molto efficaci. Ottima performance anche quella del coro formato da voci giovani. Membri del coro Pygmalion sono anche i personaggi secondari.

Il video dello spettacolo è attualmente disponibile su Arte.

Manon

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Jules Massenet, Manon

★★★★☆

New York, Metropolitan Opera House, 26 ottobre 2019

(diretta streaming)

Al MET il felice ritorno di Manon

La produzione di Manon di Laurent Pelly del 2012 (quella con Anna Netrebko) è ripresa al MET con uno dei soprani più acclamati dal suo pubblico, Lisette Oropesa. La affianca come Des Grieux un altro loro beniamino Michael Fabiano. Entrambi sono accolti in scena dagli applausi dei 4000 spettatori e la serata si conclude tra le acclamazioni.

Lo spettacolo li merita comunque, a iniziare dalla messa in scena di Laurent Pelly che ambienta la vicenda ai tempi della composizione (1882), una Parigi Belle Époque da pittura impressionista – soprattutto quella nitida di Gustave Caillebotte, la più influenzata dalla fotografia, e di Edgar Degas, con una ballerina in tutù che attraversa il Cours la Reine – ma guarda già a certo cubismo, con i piani in sbieco dell’Hôtel de Transilvanie o della cappella di Saint-Sulpice. Il disegno scenografico di Chantal Thomas è tutt’altro che cartolinesco e non tende ad addolcire la cruda vicenda, anzi, le colonne pendenti della chiesa e la tetra illuminazione del quinto atto della strada di Le Havre gettano una luce sinistra sul tratto discendente della parabola di Manon Lescaut.

Nella lettura di Pelly è ben sottolineato il ruolo degli uomini nella rovina della donna: questi si muovono in branchi come animali predatori e il loro costume formale – vestono rigorosamente in redingote e frac e hanno il cappello a cilindro – non ne nasconde la libidine, sia quella sfrontata di Guillot de Morfontaine, sia quella più ipocrita di Monsieur de Brétigny o quella travolgente del Chevalier Des Grieux.

La freschezza e l’eleganza del soprano cubano-americano sono i punti di forza di un’interpretazione che ben delinea il personaggio: la giovanile ingenuità e innocenza che diventano seducente civetteria e il tono tragico del finale sono ottenuti con sottigliezza, per sottrazione e più che «sphinx étonnant» è la «charmante personne» che viene in mente nel suo caso. Vocalmente si ammirano il timbro luminoso, la impeccabile dizione e l’agilità. Solo a tratti c’è un quasi impercettibile sbandamento nell’intonazione degli acuti. Non delicato, ma energico e testosteronico il Des Grieux di Michael Fabiano. Mezze voci e ricerca di colori si affiancano a un’intensità espressiva che non si riscontra spesso in questo personaggio. Dei due è lui quello più emotivamente compromesso e in fin dei conti teatralmente più efficace. Apparentemente affabile ma crudelmente calcolatore e spietato il fratello Lescaut trova in Artur Ruciński un interprete efficace ma a scapito di una pessima dizione. Carlo Bosi come Guillot de Morfontaine dimostra la sua proverbiale presenza scenica, Brett Polegato e Kwanchul Youn, rispettivamente Brétigny e Comte Des Grieux, completano un cast di grande livello. La concertazione di Maurizio Benini pone in primo piano la bellezza delle melodie e la preziosità della strumentazione. Coro come sempre inappuntabile quello del Metropolitan.

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Manon

Jules Massenet, Manon

★★★☆☆

Vienna, Staatsoper, 6 giugno 2019

(live streaming)

Un debutto che segna una svolta nella carriera di Flórez

Ambientato nella Parigi tra le due guerre, il “film noir” di Andrei Șerban è un classico dell’Opera di Stato viennese che viene ancora riproposto dopo dodici anni. L’idea che sta dietro a questa ambientazione continua a essere non del tutto convincente però: la Manon di Massenet è più settecentesca nello spirito di quella pucciniana e il ritiro in convento e la partenza per le lande sperdute del Nuovo Mondo faticano a trovare collocazione al Moulin Rouge o tra le «comédiennes» del Cours-la-Reine con le banconote nella giarrettiera.

Nella scenografia di Peter Pabst, dopo la stazione del primo atto ci spostiamo nella stanzetta con vista sulla Tour Eiffel, un manifesto de La comtesse aux pied nus (il film con Ava Gardner e Humphrey Bogart è però del 1954!) identifica il quadro del Cours-la-Reine, un rosone e una vetrata gotica per il quadro in chiesa, un bancone da bar per il quadro del gioco. Curiosa l’idea di utilizzare sagome di legno per alcuni personaggi e relegare il coro in buca.

Dopo aver debuttato nella parte in forma di concerto a Parigi al Théâtre des Champs Élysées, Juan Diego Flórez porta Des Grieux in scena a Vienna. Sappiamo quanto il tenore peruviano prepari i suoi ruoli e anche questa volta non fa eccezione: la voce ora è più scura e l’intensità drammatica se ne avvantaggia, ma manca lo spirito da opéra-comique con il suo particolare codice idiomatico, che invece si ritrova nel Lescaut di Adrian Eröd e nei comprimari Michael Laurenz e Clemens Unterreiner, rispettivamente Morfontaine e Brétigny, la cui presenza attoriale è una sfida non del tutto vinta per Flórez. Ma questo non significa nulla per il pubblico viennese che non la smette di acclamarlo confortandolo sulla sua scelta di muovere a un repertorio meno belcantistico. Felice serata anche per Nino Machaidze, Manon sensuale e avvenente, dal timbro chiaro ma non troppo leggero. La dizione è piuttosto approssimativa, soprattutto nei recitativi, ma glielo si perdona. Direzione brillante quella di Frédéric Chaslin con tempi talora sorprendenti.

Manon

  1. Pérez/McVicar 2007
  2. Barenboim/Paterson 2007

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★★★★★

1. Un Settecento poco rococò

L’Histoire du chevalier des Grieux et de Manon Lescaut, romanzo di Antoine François (abbé) Prévost, uscì in Francia nel 1731, ma ne fu vietata la pubblicazione per i controversi contenuti, una fanciulla sottratta al convento tanto per incominciare. (Un altro religioso, Lorenzo da Ponte, turberà le coscienze dei benpensanti di lì a poco.) Forse per questo motivo fu subito popolare e ci furono varie edizioni clandestine. Nell’edizione ufficiale del 1753 Prévost eliminò alcuni dettagli scandalosi della storia ed è questa la versione che venne nelle mani dei librettisti Henri Meilhac e Philippe Gille, i quali approntarono per Massenet un’opera in cinque atti che debuttò a Parigi nel 1884 con grande successo e che da allora rimane la più popolare delle 25 opere liriche del compositore francese. (1)

Non era la prima volta che la vicenda di Prévost ispirava un’opera in musica. C’era già stata la Manon Lescaut di Auber (1856) e non sarà l’ultima – Puccini (1893), Henze (Boulevard Solitude, 1952) – per non parlare delle versioni come balletto.

Questa registrazione viene dalla produzione del 2007 del Gran Teatre del Liceu di Barcellona con la direzione di un valido e intelligente Víctor Pablo Pérez, che ci restituisce una partitura quasi senza tagli e una messa in scena che è tra le migliori di David McVicar. Il suo settecento non ha nulla dello zuccheroso rococò, la sua è una Francia decadente, fumosa, corrotta e perversa, più Marquis de Sade che Fragonard.

I costumi sono d’epoca ma realistici, ispirati nei colori alle tinte sommesse delle tele di Chardin. La scena di Tanya McCallin comprende un anfiteatro, quasi una plaza de toros da cui comparse osservano la vicenda: è la società la causa della rovina di Manon. Solo nello straziante finale i due innamorati sono finalmente e desolatamente soli.

Con Nathalie Dessay ancora una volta si realizza il miracolo della finzione artistica: un’interprete che impersona in maniera del tutto convincente un personaggio che è trent’anni più giovane, grazie alle sue grandissime doti interpretative che riescono a compensare qualche piccola imperfezione negli acuti. La sua è una voce che comunque sa ancora offrire gioielli come gli abbellimenti di «Profitons bien de la jeunesse», salutato da un uragano di applausi dal pubblico, o gli accenti struggenti di «Adieu, notre petite table». Da goffa ragazzina intabarrata in un cappotto maschile di alcune taglie più grandi, ad amante civettuola, ad avida cortigiana, a rassegnata detenuta, le sue trasformazioni non cessano di meravigliare. Tanto la Dessay è sottile e introversa, quanto Villazón è passionale ed estroverso, un Des Grieux che non conosce mezze voci e sfumature, ma rende comunque in modo mirabile l’aria «En fermant les yeux». La sua dizione francese è un po’ approssimativa, così come quella di Ramey, Des Grieux padre, la cui voce è tristemente invecchiata e pericolosamente oscillante.

Come extra un lungo (anche troppo) film sulle prove dello spettacolo. Due dischi per tre ore di musica, tre tracce audio, sottotitoli anche in italiano. A corredo della confezione due misere paginette.

(1) Atto I. L’azione si svolge in Francia, nel 1721. Manon, giovane e avvenente fanciulla, appena quindicenne, dal carattere volitivo, ribelle ed ambizioso, ma destinata dai suoi alla vita monastica, giunge ad Amiens dove si imbatte nel giovane Des Grieux. Fra loro scocca l’amore, decidono quindi di fuggire insieme a Parigi.
Atto II. Nel loro appartamento in rue Vivienne vivono giorni felici. Ben presto però la vita a due si rivela un’esperienza fallimentare e in Manon subentra la noia. Mentre Des Grieux continua a essere innamorato della fanciulla, al punto di scrivere al padre una lettera per comunicare la propria intenzione di sposarla, Manon non disdegna le attenzioni di uomini facoltosi, nella speranza di coronare il sogno di un’esistenza agiata. Fra i suoi corteggiatori figura il ricco Signor De Brétigny, che induce la ragazza a seguirlo abbandonando il giovane Des Grieux. Mentre Manon pensa al momento del distacco, Des Grieux le riconferma tutto il proprio amore.
Atto III. Una sgargiante festa nel lussuoso appartamento di Cours-la-Reine. Manon conferma di essere cambiata, ora ha 20 anni ed è disposta a tutto pur di godersi la vita senza privazioni. Nel corso della serata viene a sapere dallo stesso Dex Grieux padre che il figlio sta per prendere i voti nel convento di Saint Sulpice. Nella chiesa di Saint Sulpice, Des Grieux ha un incontro con il padre che cerca di convincerlo a lasciare i voti e a crearsi una famiglia. Des Grieux rimane turbato dal colloquio e cerca di allontanare da sé il ricordo di Manon. I ricordi dell’appassionato amore giovanile inducono Manon a raggiungere Des Grieux a Saint Sulpice e a sedurlo nuovamente, convincendolo a fuggire con lei.
Atto IV. Ritroviamo i due giovani, a corto di denaro all’Hotel de Transilvanie, ritrovo equivoco e malfamato ove si gioca d’azzardo. Dex Grieux si rende conto di essere irresistibilmente condizionato da Manon e si lascia convincere a tentare la fortuna al gioco con ottimo profitto; ma il suo avversario Guillot, indispettito per la facilità con cui il giovane riesce a vincere ma ancor più per gelosia (ha ravvisato in Manon la sua amante di un tempo), accusa Dex Grieux di barare aiutato da Manon. I due vengono arrestati; ma, mentre Dex Grieux ottiene ben presto la libertà, Manon, riconosciuta colpevole di esercitare la prostituzione, viene condannata all’esilio nella lontana America. Atto V. Porto di Le Havre. Le condannate all’esilio stanno per essere imbarcate. Il giovane tenta invano di farla fuggire, corrompendo le guardie e organizzando una sommossa che però non ha luogo per la diserzione degli stessi uomini che aveva corrotto. Riesce solamente a rivedere la fanciulla che, spossata dagli stenti del carcere, muore fra le sue braccia.

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★★★★☆

2. Manon a Hollywood

Vincent Paterson, coreografo e regista di video musicali e pubblicitari è per la prima volta impegnato nella messa in scena di un’opera lirica. Nel 2007 alla Staatsoper Unter den Linden di Berlino e proveniente da Los Angeles va in scena la Manon di Jules Massenet con l’esplosivo duo Netrebko/Villazon. Al culmine della loro relazione artistica e sentimentale i due cantanti forniscono una prova elettrizzante nell’interpretazione della coppia di innamorati del romanzo di Prévost. La presenza sul podio di Daniel Barenboim aggiunge interesse a questo allestimento immortalato su un DVD della Unitel Classica e Deutsche Grammophon.

Un sipario dorato stile show di Las Vegas dà da subito il tono della lettura registica. Durante l’ouverture vediamo Manon sulla panca di legno di un treno di terza classe sfogliare una rivista di cinema, la stazione di posta è infatti una stazione ferroviaria e siamo negli anni ’50. La regia è tutta centrata sul personaggio titolare, una Manon tra Gina Lollobrigida e Marilyn Manon che vive la sua vita come una star del cinema e con un finale da film hollywoodiano. La voce di velluto dell’artista russa sembra fatta apposta per il ruolo e la sua presenza scenica è innegabile. Se proprio si vuole trovare un difetto in tanta maestria è una certa freddezza soprattutto se confrontata con la contemporanea prova della Dessay e ai suoi struggenti accenti nell’allestimento di Barcellona. Qui come là Des Grieux è un incontenibile Rolando Villazón. All’ombra di questi due animali di palcoscenico gli altri interpreti risultano comunque accettabili, ma anche per loro la pronuncia del francese è spesso un ostacolo. Unico di lingua madre è Rémy Corazza, classe 1933, e ancora in carriera.

Si fa fatica a credere che Daniel Barenboim sia arrivato a sostituire all’ultimo momento Bertrand de Billy, il direttore originariamente delegato, tanta è la dimestichezza e l’autorevolezza con cui affronta la partitura, sembra per la prima volta.

Immagine cristallina, sottotitoli anche in italiano ed extra interessanti.

  • Manon, Chaslin/Șerban, Vienna, 6 giugno 2019
  • Manon, Benini/Pelly, New York, 26 ottobre 2019
  • Manon, Pidò/Bernard, Torino, 5 ottobre 2024
  • Manon, Pidò/Bernard, Torino, 16 ottobre 2024 (cast alternativo)

Lakmé

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★★★★☆

«L’Inde est abominable!»

Nella lontana Australia, così come in Italia, non sono ancora arrivate le innovazioni del Regietheater. Assistiamo dunque a questa messa in scena della Lakmé di Delibes senza preoccuparci di attualizzazioni, problemi di colonialismo, multiculturalismo o razzismo.

Sul palcoscenico dell’opera di Sydney nel settembre 2011 si dipana uno spettacolo con tutti i crismi della tradizione: fondali naturali che sembrano usciti da uno dei quadri del Douanier Rousseau, un coro schierato simmetricamente con i sontuosi costumi colorati e scintillanti che ci aspettiamo, processioni pittoresche e personaggi stereotipati: inglesi ingenui e induisti fanatici.

Il libretto di Edmond Godinet e Philippe Gille è tratto da Rarahu ou Le mariage di Pierre Loti, lo scrittore gran viaggiatore e amante di scenari esotici.

Atto primo. In India, durante il dominio inglese. La bellissima Lakmé è la figlia del bramino Nilakantha, al quale gli inglesi hanno proibito di professare la propria religione, costringendolo così a vivere in un rifugio segreto ai margini della giungla. Gli indù stanno andando a svolgere i loro riti in un tempio dal sommo sacerdote Nilakantha. Lakmé e la sua serva Mallika si sono attardate per scendere al fiume a raccogliere fiori. Prima di entrare in acqua, Lakmé si toglie i gioielli e li appoggia sulla riva del fiume. Due ufficiali britannici, Frédéric e Gérald, arrivano nelle vicinanze per un pic-nic insieme a due ragazze inglesi ed alla loro governante. Le ragazze vedono i gioielli indiani e Gérald ne fa alcuni disegni a matita. Poco dopo Gérald vede Lakmé e Mallika tornare e si nasconde. Mallika lascia Lakmé da sola per un po’ e Lakmé vede Gérald. Per la paura dello straniero grida aiuto. Tuttavia è incuriosita da quell’uomo in divisa e così Lakmé rimanda via Mallika quando accorre per le urla. Lakmé e Gérald si innamorano. Gérald entra a casa di Lakmé quando il padre è via. Quando il sommo sacerdote Nilakantha rientra, Lakmé, per nasconderlo, fa fuggire Gérald, ma ormai è troppo tardi: il padre lo ha visto ed è deciso ad ucciderlo.
Atto secondo. Per scoprire chi sia l’audace che ha osato violare il loro rifugio, Nilakantha, travestito da mendicante, costringe Lakmé a cantare davanti alla guarnigione inglese. In tal modo egli pensa di scoprire il profanatore e quando Gerald accorre in soccorso di Lakmé, che al colmo dell’emozione sta per svenire, il bramino lo ferisce con un pugnale.
Atto terzo. Lakmé, aiutata dal fido Hadji, ha trasporato Gerald in un luogo segreto della foresta. Lo cura amorevolmente e riesce a guarirlo; per benedire la loro unione, Lakmé si reca ad attingere acqua alla vicina fontana dell’amore eterno, ma al suo ritorno crede che Gerald voglia abbandonarla per riunirsi al suo reggimento. Comprendendo che se egli restasse con lei sarebbe per sempre infelice, la fanciulla di nascosto si avvelena. E quando Gerald, fra il dovere e l’amore, sceglie quest’ultimo bevendo l’acqua sacra, spira felice tra le sue braccia.

L'”Air des clochettes” non è l’unica perla di quest’opera che risponde al desiderio d’esotismo nella Francia Secondo Impero. Il duetto dei fiori di Lakmé e Mallika, l’aria di Gérald, tutti i duetti dei due giovani amanti fanno di questa una delle opere più piacevoli e orecchiabili del repertorio francese. La vivacissima e fulminea scena del mercato a inizio del secondo atto sembra poi anticipare di una dozzina d’anni l’allegro bailamme organizzato del Café Momus della Bohème, ma tutto il lavoro di Delibes è costruito con grande abilità e con un uso sapiente dei motivi conduttori.

Dopo il debutto nel 1883 con Marie van Zandt, molte grandi prime donne si sono cimentate nel ruolo di Lakmé: Mado Robin, Joan Sutherland, Mady Mesplé, Natalie Dessay tra tutte. Emma Matthew qui non le fa rimpiangere e vocalmente ricorda un altro grande usignolo del passato, Beverly Sills, ma con un timbro più caldo. Il ruolo di Gérard in questa produzione di Roger Hodgman è assegnato al tenore italo-australiano Aldo Di Toro che se la deve vedere invece con Alain Vanzo, Charles Burles e Alfredo Kraus, ma il suo timbro leggero e seducente risulta perfettamente adatto al ruolo. Buona la direzione di Emmanuel Joel-Hornak.

Negli extra un’intervista al regista. Sottotitoli in cinque lingue, italiano compreso.

  • Lakmé, Pichon/Pelly, Parigi, 6 ottobre 2022