★★★☆☆
«Ah! mon français est infâme et Dieu me frappera!»
La febbre dell’esotismo non ha risparmiato nessuno dei compositori dell’Ottocento francese. Neanche Massenet ne è rimasto indenne e prima dei grandi capolavori intimisti per cui è ricordato ha prodotto questo esotico grand opéra dal libretto inverosimile che fu il suo primo successo. Rappresentato a Parigi il 27 aprile 1877 nel nuovo Palais Garnier, Le Roi de Lahore subito dopo prese la strada dell’Italia. Storiche furono le rappresentazioni, in italiano (in cui Sitâ viene ribattezzata Nair), al Regio di Torino nel febbraio 1878 con alcune aggiunte alla partitura che Massenet aveva preparato apposta. Seguirono Roma, Bologna, Venezia e infine Milano, dove fu replicata venti volte durante la stagione. Il libretto in cinque atti di Louis Gallet narra dell’amore tra la sacerdotessa Sitâ del tempio di Indra e un misterioso straniero, che si rivelerà essere Alim, re di Lahore.
Atto primo. Il tempio di Indra, Lahore. I cittadini di Lahore si riuniscono al tempio per pregare la protezione divina contro gli invasori musulmani e ricevono l’incoraggiamento di Timour, il sommo sacerdote. Scindia, ministro del re Alim, è innamorato di Sita, sua nipote, anch’essa sacerdotessa del tempio. Scindia chiede a Timour di sciogliere Sita dai suoi voti e gli fa notare che si è incontrata con un giovane. Nel santuario di Indra, Scindia fa ammettere a Sita il suo interesse per questo giovane sconosciuto, ma lei si rifiuta di nominarlo; Scindia la accusa di sacrilegio e i sacerdoti le chiedono di cantare la preghiera della sera per attirare il giovane. Una porta segreta si apre e appare un giovane: è il re Alim che confessa il suo amore e chiede la mano di Sita. Timour chiede al re di espiare le sue azioni guidando il suo esercito contro i musulmani. Scindia organizza un’imboscata e uccide il re.
Atto secondo. Luogo: Il deserto di Thôl. All’accampamento del re, dove Sita lo ha seguito e si è accampata vicino al re in attesa del suo ritorno dal combattimento, decisa a dichiarargli il suo amore. I soldati sono stati sbaragliati. Scindia li convince a unirsi a lui per usurpare il trono. Alim entra, ferito, e capisce che Scindia deve averlo tradito; muore tra le braccia di Sita. Scindia torna e trionfa sul corpo di Alim; si dichiara re e parte per Lahore con Sita prigioniera.
Atto terzo. Il Paradiso di Indra, il Monte Meru. Ci sono canti e danze da parte delle apsaras. L’anima di Alim arriva, ma ammette a Indra che gli manca la presenza di Sita. Indra si impietosisce e accetta di riportare in vita Alim come il più umile degli esseri finché Sita vivrà, dopodiché moriranno entrambi insieme; Alim accetta felicemente.
Atto quarto. La stanza di un palazzo a Lahore. Sita lamenta il suo destino e prega Indra di riunirla ad Alim. Le fanfare annunciano l’arrivo di Scindia e lei rinuncia alla corona, pregando di morire. La piazza del palazzo. Alim si risveglia a Lahore all’ingresso del palazzo reale dove la folla si sta radunando per l’incoronazione di Scindia. Scindia entra per convincere Sita a sposarlo, ma una visione vendicativa gli sbarra la strada. Alim appare agli astanti come un povero pazzo e gli viene ordinato di essere catturato, ma Timour dice che deve essere un visionario ispirato da Dio. All’ingresso del palanchino di Sita, Scindia la accoglie come sua regina.
Atto quinto. Il santuario di Indra. Sita si è rifugiata nel santuario di Indra dopo essere fuggita dal matrimonio forzato con Scindia. Alim viene ammesso al santuario da Timour e gli amanti si incontrano di nuovo. Scindia arriva e li minaccia entrambi. Sita si pugnala e subito Alim diventa di nuovo uno spirito, sventando così i piani di Scindia. Le pareti del tempio si trasformano in una visione paradisiaca e Sita e Alim si uniscono in una felicità celestiale, mentre Scindia cade a terra terrorizzato.
Che con una storia del genere non fosse facile essere sinceramente ispirati è comprensibile. Massenet riempie l’opera di tanta musica, molta è convenzionale ma comprende già alcune belle pagine che fanno intravedere il futuro grande compositore.
Le Roi de Lahore rappresenta il crepuscolo di un genere, il grand-opéra, che nel 1877 si poteva già considerare estinto. Meyerbeer, Halévy, Auber, i maestri del genere, erano tutti deceduti e Wagner stava rivoluzionando il teatro musicale. Non minor peso aveva avuto la mutata situazione politica: l’Impero aveva ceduto il passo alla Repubblica e le élites borghesi si affiancavano con gusti diversi a quelle aristocratiche nel pubblico dei teatri.
La terza opera di Massenet viene riproposta nel dicembre 2004 alla Fenice di Venezia in una nuova edizione critica e con la direzione musicale di Marcello Viotti. La fluidità di concertazione del maestro svizzero dà smalto ulteriore a questa partitura e ne esalta gli aspetti più preziosi, dall’ouverture sinfonica di ampio respiro, al duetto del secondo atto, all’effetto magico del sassofono nel terzo, al monologo di Sitâ nel finale.
Il cast non prevede cantanti di lingua francese (ma perché?) e si sente: la pronuncia è fortemente approssimativa per tutti gli interpreti, senza raggiungere comunque gli eccessi di certe registrazioni audio dell’opera. Bellissima la voce del soprano Ana María Sánchez, ma gli acuti sono urlati e fisicamente risulta poco credibile. Un buono stilista è il tenore albanese Giuseppe Gipali, Alim, così come il baritono bulgaro Vladimir Stoyanov, il perfido Scindia. Troppo stentoreo e scenicamente impacciato il Timour di Riccardo Zanellato.
La regia di Arnaud Bernard non prevede movimenti in scena che non siano lo strascicamento di piedi, la mano al cuore o le braccia alzate e un andirivieni sconclusionato. Peggio ancora con le masse. Per di più i brutti costumi di Carla Ricotti trasformano i personaggi in marionette rigide. La lettura del regista oscilla tra la scarsa adesione alla vicenda e l’ironia. È il terzo atto, quello del paradiso indù e del balletto, a dare un guizzo allo spettacolo. Sui versi «Libres du lien mortel, | nous planons dans la lumière, | oubliant la vie amère, | pour les délices du ciel!» la scena si apre su un ballo in costume in quella che potrebbe essere una stazione termale fin de siècle con abiti da sera, camerieri in frac e fotografi pronti a immortalare l’avvenimento. La “lumière” dei versi è qui un grande lampadario che ha bisogno dell’intervento di un elettricista e “les délices du ciel” comprendono oltre a un ricchissimo balletto con la coreografia di Gianni Santucci la proiezione di un film muto di ambientazione esotica e l’ingresso di Indra su un elefante d’argento.
Più stilizzate le scenografie, di Alessandro Camera, degli altri atti con stūpa semoventi nel primo e nel quinto, tende a righe nel secondo e nel quarto un palazzo a pandoro con la facciata del Hawa Mahal, il Palazzo dei Venti di Jaipur. Suggestive le luci di Vinicio Cheli.
I due DVD su cui è registrata la rappresentazione sono dedicati alla memoria del maestro Marcello Viotti che è venuto a mancare neanche due mesi dopo all’età di cinquant’anni.
⸪