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Leoš Janáček, Zápisník zmizelého (Il diario di uno scomparso)
Budapest, Müpa Fesztivál Színház, 3 luglio 2019
(video streaming)
Dalla seduzione all’ossessione
Il diario di uno scomparso è un ciclo liederistico composto da Leoš Janáček nel 1917-19 sulla spinta della sua infatuazione per Kamila Stösslová – lei venticinquenne, lui 63enne – la quale aveva un aspetto zingaresco, lunghi capelli neri e pelle olivastra, tratti che colpirono il compositore tanto da trasferirli nella Zefka del Diario su testo di Josef Kalda.
Lo spunto furono gli articoli apparsi su un giornale di Praga riguardanti le poesiole di un giovane sempliciotto invaghito di una bella gitana, il quale, dopo la nascita del figlio frutto del loro amore, era fuggito dal paese lasciando dietro di sé solo questi versi scarabocchiati su fogli rinvenuti per caso nella sua stanza – il diario di uno scomparso, appunto. La storia della seduzione è l’argomento di queste liriche in cui si esprimono i tormenti che prova Jan, un ragazzo introverso e con un rigido senso del peccato, quando incontra la conturbante Zefka che gli toglie il sonno.
Jan s’imbatte per caso in una zingara come lui giovane, snella, dai capelli e dagli occhi neri. Zefka, la cui immagine ossessiona da subito il contadino, prende ad aggirarsi attorno alla casa del giovane il quale, di onesti costumi e timorato di Dio, preferirebbe piuttosto vederla andare via. Cosciente di essere attratto dalla gitana, Jan evita di uscire di casa dopo il crepuscolo per timore di dispiacere alla madre, ma al calare della luna avverte dei passi, scorge aperta la porta del fienile e vede nel buio il balenio degli occhi della ragazza. Questa lo attrae a tal punto da fargli perdere il sonno. Anche il lavoro dei campi diventa sempre più faticoso per lui. Durante l’aratura il giovane, distratto e invaghito di Zefka, si volge sempre più spesso verso il vicino bosco dove intravede sventolare il fazzoletto della zingara, e dopo aver perso il puntello del proprio aratro è costretto a recarvisi per intagliarne uno nuovo, sicuro di resistere al fascino della ragazza. Sul margine del bosco lampeggiano gli occhi della nomade che apostrofa il contadino, di cui conosce il nome, e canta per lui una malinconica canzone che lo turba profondamente. Ormai ammaliato, Jan è sul punto di cedere alle profferte della gitana, che lo convince a sedersi accanto a lei per poi scoprirsi il seno. Il giovane finisce per giacerle accanto e trascorrere con lei l’intera notte. All’alba, il contadino si rende conto di avere perduto la propria virtù e tradito i princìpi di famiglia. Timoroso di rincasare e incrociare lo sguardo della madre, immagina di unirsi ai nomadi per entrare in un’altra cerchia familiare. Il canto di un’allodola – la stessa che Zefka aveva evocato nella propria canzone – gli fa imboccare la propria strada: ogni sera il contadino lascia la casa paterna per giacere con la giovane, per la quale arriva persino a sottrarre la camiciola della sorella di Jan. Questi ha oramai mutato i propri costumi e perso il timor di Dio; ha anche avuto una figlia dalla zingara e decide infine di abbandonare la propria terra, il villaggio, la famiglia. Dopo aver chiesto perdono al padre, alla madre e alla sorella, il contadino va incontro a un destino di felicità con passione e senza remore e timori: Zefka lo attende con la loro figlioletta tra le braccia.
«La grandezza del Diario, oltre che nell’originalità della concezione, è da ricercarsi nella sua coerenza musicale e drammatica. Per non spezzettare troppo il discorso, Janáček ha collegato alcuni dei ventidue numeri fra loro. Lo spartito svolge un gigantesco tema e variazioni, creati su intervalli di quarta, quinta e seconda maggiore, gli stessi della musica popolare, anch’essa presente in filigrana. Sulle variazioni si inseriscono le realistiche melodie parlate appoggiate a fondali di ostinati ripetitivi, a loro volta punteggiati da suggestioni sonore naturalistiche». (Franco Pulcini)
Nato come pezzo da camera per tenore, soprano, coro di tre soprani fuori scena e pianoforte, già nel 1943 ne venne fatta una rappresentazione scenica su una versione per orchestra approntata da Ota Zítek e Václav Sedláček, collaboratori del compositore. Ora la produzione del Muziektheater Transparant di Anversa, presentata l’anno scorso al Festival RomaEuropa, viene ripresa all’Armel, il festival operistico ungherese. Alla mezz’ora di musiche originali previste dall’autore si aggiungono le pagine della compositrice Annelies van Parys e la lettura di alcune lettere della corrispondenza tra il compositore e la giovane Kamila, così da portare a oltre un’ora la lunghezza dello spettacolo. Nella regia di Ivo van Hove un vecchio (attore) si rivede da giovane innamorato della bella Zefka e ne rivive la sconvolgente esperienza.
Nella scenografia quasi in cinemascope di Jan Verswyveld vediamo a sinistra una cucina/laboratorio in cui una donna appena entrata si prepara il caffè, a destra un piccolo soggiorno con divano letto e un pianoforte verticale, in mezzo un tavolo da lavoro ingombro di fotografie e apparecchi di riproduzione. Nel frattempo è arrivato un uomo che si mette al piano, un vecchio entra con l’urna delle ceneri della moglie e la ragazza osserva dei ritratti fotografici. Si sente la voce, dall’esterno, del tenore che finalmente inizia a cantare le liriche di Janáček, poi entra e sfoglia anche lui le fotografie. La luce rossa prevista dal compositore stesso per il numero per pianoforte solo (‘“intermezzo erotico”, una violenta passacaglia che descrive l’atto d’amore dei giovani) qui è la luce rossa del laboratorio fotografico in cui si sviluppano le immagini della donna, la vera ossessione dell’uomo. Dopo aver gettato le ceneri della moglie nel lavandino, il vecchio Jan/Leoš rilegge e poi brucia le lettere che ha scritto alla sua amata Zefka/Kamila.
Eccellenti performance sono quelle di Marie Hamard, intensa voce di mezzosoprano, e di Andrew Dickinson, tenore sensibile ma anche impavido negli acuti della sua impegnativa parte. Al pianoforte è Matthew Fletcher.
Eletto quale miglior produzione del festival, lo spettacolo ha una sua indubbia forza, ma c’è da chiedersi quale servizio abbia fatto alla musica di Janáček, l’unica cosa importante. Molto si perde nella drammaturgia di Krystian Lada: la presenza misteriosa di Zefka qui è invece una presenza anche troppo concreta e dei sensi di colpa del giovane, del suo tormento a lasciare tutto il suo mondo dietro di sé, qui non c’è traccia. Estranee alla musica originale, ma a loro modo non molto contrastanti, sono le musiche aggiunte. Ma erano necessarie? Data la brevità, il ciclo di Janáček poteva essere abbinate a qualcos’altro, come è stato fatto al Malibran di Venezia nel 2015 con La voix humaine di Poulenc nella regia di Gianmaria Aliverta.
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- Il diario di uno scomparso / La voix humaine, Sulzen/Bernard, Roma, 24 ottobre
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