L’amore dei tre re

Italo Montemezzi, L’amore dei tre re

Milano, Teatro alla Scala, 12 novembre 2023

★★★☆☆

(diretta streaming)

Il bacio della morta

L’amore dei tre re, l’opera lirica più famosa di Italo Montemezzi, andò in scena al Teatro alla Scala di Milano il 10 aprile 1913 diretta da Tullio Serafin. Il libretto di Sem Benelli era tratto dal suo omonimo dramma per il teatro. Allora ricevette recensioni contrastanti, ma divenne rapidamente un successo internazionale soprattutto a New York dove rimase in repertorio per trent’anni di fila. I maggiori direttori d’orchestra hanno dimostrato la loro ammirazione per questo lavoro, da Toscanini a Marinuzzi a De Sabata, che la diresse l’ultima volta alla Scala nel 1953. Dopo settant’anni viene ora riproposta dal teatro che la tenne a battesimo e che pochi anni fa aveva riesumato La cena delle beffe dello stesso librettista. Questo è lo spettacolo che chiude la stagione del teatro milanese che a Sant’Ambrogio ripartirà col Don Carlo.

Atto primo. Siamo nel medioevo, in un remoto castello d’Italia quarant’anni dopo un’invasione barbarica. La scena rappresenta il terrazzo sulla torre del castello. È notte, e una lampada accesa serve da segnale per il ritorno di Manfredo. Entra Archibaldo, vecchio guerriero divenuto cieco, accompagnato dal paggio Flaminio che lo sorregge e lo guida. Archibaldo attende il figlio Manfredo che deve tornare da un assedio al castello nemico e ricorda le glorie passate e gli ardori giovanili; poi scoraggiato dal fatto che Manfredo non giunge torna indietro con Flaminio che nel frattempo, imbrogliando Archibaldo che è giunta l’alba, spegne la lanterna per mettere in guardia Fiora e Avito. Infatti Flaminio copre complicemente la relazione fra i due. Appaiono Fiora e Avito; stanno per salutarsi dopo la notte d’amore, erano promessi sposi, ma ella era dovuta andare in sposa a Manfredo per suggellare la pace tra invasori e vinti. Si scambiano dolci parole, ma Avito si sgomenta al vedere spenta la lanterna, temendo che qualcuno sia giunto la notte a controllarli. La paura si rivela certezza al giungere di Archibaldo; Avito fugge, Archibaldo chiama Fiora e la interroga con chi parlava perché egli non può vedere Avito. Flaminio è solidale con i due e dichiara che Fiora è sola. Fiora dissimula abilmente alle interrogazioni, quando squillano le trombe e Flaminio annuncia il ritorno di Manfredo. Archibaldo sospettoso invita Fiora a tornare in camera per presentarsi al marito più tardi. Entra Manfredo, che si presenta come un valoroso cavaliere medioevale, contento di rivedere il padre e la giovane sposa. Ella si presenta con dolcezza affettata, avallata dalla repressa rabbia di Archibaldo. Manfredo è felice di riabbracciare il suo «tesoro aulente» e si incammina verso la camera da letto. Archibaldo sente e rimane inorridito e implora il Signore di renderlo cieco anche nel sentire.
Atto secondo. La stessa scena del primo atto. Manfredo è in procinto di partire per ritornare a combattere e sta salutando la moglie che si dimostra fredda con lui e verso la sua parola commossa. Ella si dimostra finalmente toccata quando Manfredo le esprime il desiderio di vederla salutarlo dalla torre con il suo velo non appena sarà partito, dato che così si sentirebbe sollevato dalla sofferta lontananza da lei. Fiora commossa promette e Manfredo parte. Fiora rimane sola, pensierosa, quando le si presenta Avito che era sempre rimasto lì, travestito come una guardia del castello. Stavolta però ella si dimostra ostile verso le profferte amorose del giovane, per di più inopportune dato il momento. Egli, colpito e amareggiato vuole partire. Il dialogo è interrotto da una ancella che consegna il velo, mentre Avito si nasconde. Rimasti soli, Avito deluso annuncia a Fiora la sua partenza, ma lei lo richiama concedendogli di baciare la sua veste, mentre dalla torre sventola il velo. Avito rinasce e incalza le resistenze di Fiora sempre più fino a vincerla definitivamente e a baciarla. Travolti dalla passione i due rimangono in un’estasi eterea, quando improvvisamente giunge Archibaldo il quale stavolta avverte bene la presenza di Avito e si adira. Avito fugge ma Archibaldo ha capito che Fiora non era sola. Flaminio annuncia il ritorno di Manfredo, il quale preoccupato per non aver più visto Fiora salutarlo col velo temendo sia caduta dalla torre vuole sincerarsi sulla situazione di lei. Archibaldo manda via Flaminio e rimane solo con Fiora. Alle domande del vecchio stavolta Fiora reagisce violentemente e rivela tutto, ma non il nome dell’amante. Archibaldo, sopraffatto dalla rabbia la afferra alla gola e la uccide. Giunge Manfredo, il quale si dispera alla vista del cadavere di Fiora e rimane sorpreso dalla confessione del padre. Sebbene sia stato messo al corrente della causa non è in grado di provare odio, ma solo pietà. Tuttavia Archibaldo reclama vendetta contro il traditore e medita il modo di compierla. Chiede al figlio di fargli strada col suono dei suoi passi, si carica sulle spalle la sua vittima e lo segue.
Atto terzo. Nella cripta del castello il corpo di Fiora è adagiato sul giaciglio e intorno vi sono popolani che la vegliano. Quando stanno per lasciare il luogo entra Avito, costernato e sopraffatto dal dolore. Avito rimasto solo mira l’amata, la esorta a risvegliarsi: non può credere sia morta, ma poi si arrende all’evidenza. Vuole baciarla per l’ultima volta, ma quando lo fa si sente mancare e non può più camminare. Entra Manfredo che riconosce Avito. Gli rivela che Archibaldo ha cosparso la bocca di Fiora con un potente veleno. Avito accetta il suo destino con rassegnazione, ma Manfredo gli chiede se Fiora lo amava e lui, in un ultimo impeto gli risponde «come la vita che le fu tolta, no, di più… di più…», poi lo esorta a compiere la vendetta giacché sente sopraggiungere la morte. Manfredo, invece, lo adagia a terra accompagnandolo gentilmente: egli non riesce a odiarlo, perché amato dalla sua stessa amata. Quindi si rivolge al corpo di Fiora, supplicandola di non lasciarlo alla sua solitudine, vuole seguirla per sempre e la bacia, barcollando vittima del veleno. Giunge Archibaldo, ansioso di udire il misterioso predatore nella morte; lo abbraccia ma Manfredo gli rivela la sua identità con un ultimo sforzo. Archibaldo inorridisce disperato mentre il figlio gli muore fra le braccia e rimasto solo e condannato al suo buio perpetuo grida «Manfredo! Anche tu, dunque, senza rimedio sei con me nell’ombra!».

Il medioevo, di moda all’epoca, è l’ambiente per il dramma a fosche tinte del testo di Benelli intriso di decadente dannunzianismo e le cui didascalie avrebbero fatto la gioia di Paolo Poli. Se il libretto sfiora spesso il ridicolo, secondo il gusto moderno, su tutt’altro livello è invece la partitura, lussureggiante, complessa, ricercata, preziosa. Come nel Pelléas et Mélisande di Debussy l’orchestra rivela spesso il sottotesto delle interazioni tra i personaggi seguendo il modo in cui i personaggi si muovono in stati di passione incontrollata e diventando allora trascendente, onirica. Scrive Francesco Maria Colombo: «Montemezzi non è, ovviamente, Puccini né ha la fantasia coloristica di certe partiture di Respighi (altro autore di cui le partiture operistiche meriterebbero libretti meno atroci); ma chi, tra gli operisti del suo tempo è così capace di creare atmosfere magiche, notturne, incantate, fosche, misteriose, e di far nascere da quelle atmosfere (cui concorrono insieme armonia e timbro, laddove l’invenzione melodica è meno spiccata) sia il senso del dramma, sia la parola scenica (al punto da fare spesso dimenticare l’oscenità dei versi)? […] Il lessico di Montemezzi è sostanzialmente tardoromantico e si avvale di tutte le risorse del cromatismo: non agisce nel senso dello sviluppo, cioè di un percorso armonico che deduce di volta in volta nuove soluzioni; agisce invece in senso atmosferico, con accordi alterati che valgono non all’interno di un processo in divenire, ma in sé, come segnali di un particolare clima espressivo, come semantemi capaci di sprigionare stati d’animo, situazioni, piccoli nuclei drammatici che si risolvono in sé epperò slittano continuamente l’uno nel prossimo, giustapponendosi (oddio, mi metto a scrivere anch’io come Sem Benelli…) in un continuo cangiare di evocazioni emotive». 

Subentrato all’inizialmente previsto Michele Mariotti, Pinchas Steinberg sfrutta al massimo la qualità dell’orchestra scaligera e nello stesso tempo preserva il decadentismo e le sonorità turgide della partitura che domina con mano sicura, il tutto senza esagerare e sorreggendo nel miglior modo possibile le necessità del canto che qui procede secondo un declamato stentoreo e ripetitivo da cui non riescono a emergere veri squarci lirici. L’annunciato a inizio stagione Günther Groissböck (!) è stato sostituito dal basso russo Evgenij Stavinskij che delinea un Archibaldo un po’ legnoso. Non che manchi la potenza o il colore nella voce, ma è il personaggio che rimane incolore. Nella sua impervia tessitura l’Avito di Giorgio Berrugi risulta spesso troppo enfatico mentre il Manfredo di Roman Burdenko un po’ grezzo. Giorgio Misseri è un Flaminio efficace, ma è in Chiara Isotton che si trova il meglio del cast: fraseggio elegante, voce ampia, intenzioni espressive ben realizzate, la sua performance sarebbe ancora più apprezzabile con una presenza scenica che qui è poco convincente anche a causa della regia di Àlex Ollé e del costume di Lluc Castells che la infagotta in un maglione grigio e sformato su una sottoveste dal colore indefinito. Il regista sceglie un’ambientazione simbolica della vicenda: nella scena nuda e nera di Alfons Flores il pavimento si trasforma in due rampe di scale che costituiscono la torre prima e poi la cripta in cui giace il catafalco della donna. Oltre al letto del primo atto, sono presenti in scena solo delle catene che scendono dall’alto – ben ottocento, per un peso complessivo di 13 tonnellate di ferro – che formano un specie di labirinto per i personaggi o gabbia per la donna. Più che al decadentismo fin-de-siècle il regista pensa alla contemporaneità, all’ennesimo femminicidio di una donna qui concupita da ben tre uomini – suocero, marito e amante – che provano per lei un amore morbosamente possessivo. La contemporaneità è presente anche nei costumi neri e severi degli uomini, ma dà un certo fastidio vedere il vecchio Archibaldo utilizzare un sacchetto di plastica del supermercato per il veleno e i guanti monouso impiegati per avvelenare le labbra della morta – un’invenzione degna di Carolina Invernizio.

È difficile pensare che dopo centodieci anni quest’opera ritorni nei cartelloni dei teatri lirici, troppo lontana quant’è dal nostro gusto. E ancora più improbabile che lo facciano le altre opere del compositore: Giovanni Gallurese, L’Hellera, La nave, L’incantesimo… Ma la musica de L’amore dei tre re, magari nella veste di una suite orchestrale, non sfigurerebbe affatto nei programmi dei concerti sinfonici.