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Romeo Castellucci, Bérénice da Jean Racine
regia di Romeo Castellucci
Milano, Teatro del Palazzo della Triennale, 7 aprile 2024
Il teatro delle contraddizioni di Romeo Castellucci
Officier de l’Ordre des Arts et des Lettres de la République Française, Romeo Castellucci è certamente più apprezzato in Francia che in Italia, però alla Triennale di Milano è “grand invité” e continua la sua collaborazione che tocca vari ambiti di azione: dalla regia alla scrittura, dalle arti visive alla scenografia al pensiero critico. Dopo Nascondere (2021), La quinta parete (2022) e Il passo (2023), nell’autunno di quest’anno curerà la quarta edizione di un progetto formativo dedicato alle arti della scena per un selezionato gruppo di professionisti e studenti.
Si diceva del rapporto privilegiato del regista di Cesena con la Francia, e francese è il classico su cui ha basato il suo ultimo spettacolo, Bérénice di Jean Racine. Dalla verbosa tragedia in cinque atti del massimo esponente, assieme a Pierre Corneille, del teatro tragico francese del Grand Siècle, Castellucci trae un monologo per l’attrice Isabelle Huppert, sola in scena con i versi della sua sofferta vicenda: amata da Tito, viene però lasciata per ragioni di stato – dal “Senatus populusque romanus” non è ben vista una straniera sul trono di Roma, essendo lei principessa di Giudea – e se ne torna mesta in patria promettendo di non uccidersi. Si è minacciato di suicidarsi invece Antioco, anche lui innamorato della bella Berenice.
Castellucci ha sempre rifuggito il teatro di parola, ma questa volta, e qui sta la prima contraddizione, affida quasi soltanto alla parola la drammaturgia del suo spettacolo, sottolineando e distorcendo la voce dell’attrice con i suoni elettronici di Scott Gibbons, lo stesso de Il Terzo Reich. Affascinato dalla tragedia greca, Castellucci si dichiara intrigato dai tentativi dei grandi autori di far rivivere la tragedia antica – Hölderlin, Alfieri, ma soprattutto Racine, che ha mescolato cultura greca e cultura cristiana. È l’anacronismo della sua lingua a rendere contemporaneo il testo di Racine: «Tutto è detto per essere in realtà nascosto», afferma il regista, «tutto è controllato o trattenuto. Appena riusciamo a sentire l’abisso nascosto». Castellucci si concentra sulle contraddizioni dell’opera per evidenziarne l’attualità: la violenza interiore che si esprime nella paralisi, la bellezza dei versi che ruotano intorno alle parole non dette, il caos di un triangolo amoroso che risplende con chiarezza attraverso la brutalità delle emozioni umane.
E la «nebbia di parole», l’ombra racchiusa in questi versi sono la cifra visiva dello spettacolo: entrando nel teatro del palazzo della Triennale una foschia invade la sala, per di più un velino separa il palcoscenico dal pubblico e la scarsa illuminazione aumenta l’ambiguità di quello che vediamo, la rappresentazione di confusi ricordi. Berenice è l’unico personaggio presente in una scena vuota, se non in compagnia di una lavatrice o un termosifone. Gli altri, soprattutto Tito e Antioco, sono presenze evanescenti, fantasmi che si esprimono non a parole ma con i gesti della pantomima dell’incoronazione di Tito. Ci sono poi altre dodici persone «reclutate in loco» come in Bros, il cui ruolo non è dei più evidenti.
Tutto ruota attorno alla performance dell’attrice e qui la Huppert, in questo vuoto, esplora ampi estremi emotivi: ora è una regina maestosa, con una mano alzata sulla fronte in segno di esaltata disperazione, mentre si aggira sul palcoscenico con i costumi sontuosi disegnati da Iris van Herpen. Un attimo dopo, invece, scatena un’energia fuori controllo, con battute amplificate e distorte al punto da diventare incomprensibili. Solo una scena, alla fine, la porta improvvisamente fuori dalla sua comfort zone: mentre recita il monologo finale, inizia a balbettare, inciampa sulle parole, lotta per fare uscire inarticolati fonemi, poi si ferma e rimane in silenzio, guardando a destra e a sinistra come se stesse aspettando un segnale, e ci si chiede se qualcosa sia andato storto. Invece si alza, va verso il fondo della scena e si volta indietro per rivolgersi al pubblico: «Ne me regardez pas!» urla più volte, sempre più disperatamente, prima di nascondersi dietro la manica dell’abito. E così si chiude lo spettacolo con quest’ultima contraddizione di Castellucci e del suo teatro di immagini.
⸪
