Il cappello di paglia di Firenze

foto © Brescia e Amisano

Nino Rota, Il cappello di paglia di Firenze

Milano, Teatro alla Scala, 14 settembre 2024

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Cosa rara: una farsa italiana del ‘900

Nino Rota non è più considerato solo come autore di musiche per film (Fellini, Visconti, Scorsese…), ma è stato rivalutato come uno dei compositori italiani della seconda metà del Novecento. Autore di molta musica da camera, vocale e per orchestra, ha al suo attivo anche una decina di opere per il teatro. Quest’anno al Festival della Valle d’Itria è stato recuperato il suo Aladino e la lampada magica, alla Scala ritorna invece Il cappello di paglia di Firenze, 26 anni dopo la felice produzione di Pier Luigi Pizzi con un giovane baffuto Juan Diego Flórez, spettacolo registrato dalla televisione italiana e disponibile su youtube. Prima ancora, nel 1958, c’era stata la storica produzione di Strehler, tre anni dopo la prima palermitana.

Scritto per divertimento nel 1945, Il cappello di paglia di Firenze si proponeva a un pubblico che aveva voglia di svagarsi dopo cinque lunghi anni di guerra in un’Italia dai gusti semplici che si divertiva alle ingenue rime del libretto e alla sequenza di musiche orecchiabili. La storia è quella raccontata nel vaudeville di Eugène Labiche e Marc-Michel Un chapeau de paille d’Italie del 1851. Che la vicenda di cappelli, calessi e nobildonne fedifraghe potesse interessare un pubblico di un secolo dopo stremato dalle privazioni e dalle tragedie è comprensibile, non so quanto ancora possa interessare il pubblico di oggi. Ma probabilmente mi sbaglio: lo spettacolo sta ottenendo un buon successo e persino un regista come Damiano Michieletto riproporrà la sua vecchia versione fra pochi mesi al Teatro Carlo Felice di Genova!

Il vaudeville di Labiche era stato portato al cinema nel 1928 in un film muto di René Clair che aveva esaltato la frenesia della vicenda in cui Fadinard, un giovane benestante sul punto di sposare Hélène Nonencourt, quando sta per raggiungere lei e gli invitati in un calesse il suo cavallo mangia accidentalmente il cappello di paglia di Madame Beaupertuis, appartata in un boschetto del Bois de Vincennes con il tenente Émile Tavernier. Scoperti, i due amanti impongono a Fadinard di trovare immediatamente un sostituto al cappello perché il marito è particolarmente geloso. Inizia così una giornata convulsa in cui il giovane cerca di recuperare un cappello uguale per evitare che il marito scopra la tresca della moglie. Fadinard si reca dunque prima da una modista che non riesce a soddisfare la sua richiesta, ma che gli dà l’indirizzo della baronessa di Champigny, la quale ha appena comprato lo stesso cappello. Poi, dopo essersi sposato, si reca alla villa della baronessa a Passy, dove viene scambiato per un violinista che deve esibirsi in un concerto privato. Anche gli invitati alla festa di nozze arrivano alla villa, convinti che si tratti del ristorante dove si terrà il pranzo di nozze. Dopo varie peripezie, che includono anche un passaggio in prigione, alla fine tutto si risolverà per il meglio.

Il testo di Labiche viene adattato a libretto dal compositore stesso e dalla madre Ernesta Rinaldi. Molti personaggi della pièce originale vengono eliminati, i cinque atti ridotti a quattro – il secondo atto di Labiche diventa l’Intermezzo I nell’opera di Rota –, ma lo spirito del lavoro viene fedelmente conservato anche se in un libretto di mediocre qualità, con rime ingenue dove “balordo” rima con “sordo”, “Minardi” con “tardi”, “guancial” con “stral” e “guanti di Svezia” – in originale “gants de suède”, ossia scamosciati – con “inezia”. 

La partitura è una parodia di disparati linguaggi musicali ed è tutta scritta à la manière de: l’ouverture ammicca a Mozart, i concertati e i crescendi a Rossini, i gorgheggi di Elena al belcanto donizettiano, il temporale addirittura alla Walchiria di Wagner, mentre nei fiati si sente Stravinskij. E ovviamente non mancano le musiche per film, soprattutto da Il birichino di papà. È un continuo mimare stili, accostare idee diverse una dopo l’altra senza però svilupparle o approfondirle. I personaggi sono bidimensionali, la caratterizzazione sommaria e non suscitano una particolare empatia.

Il compito di dar vita a questa musica piacevole, ma anche superficiale, è nelle mani di un esperto quale Donato Renzetti, che esalta la leggerezza e vivacità della partitura con suoni trasparenti e ritmi precisi a capo dell’ottima orchestra e coro dell’Accademia Teatro alla Scala. Anche i giovani interpreti sono allievi, provengono infatti dall’Accademia di perfezionamento per cantanti lirici del teatro e si alternano nelle diverse recite. Sono tutti preparati e più o meno carismatici. Il 14 settembre è Andrea Tanzillo l’infaticabile Faninard: brillante vocalmente e ottimo attore, qualche acuto non perfettamente a fuoco non compromette una performance caldamente applaudita dal pubblico. L’Elena di Maria Martín Campos è sicura e spigliata; l’Anaide di Greta Doveri ha un bel timbro sensuale adatto alla parte della moglie infedele; giustamente manierata la baronessa di Champigny di Dilan Saka; lo spassoso zio Véziner di Paolo Antonio Nevi è il personaggio che salva la situazione essendo il cappello tanto bramato nel suo pacco regalo. Folta è la schiera di cantanti provenienti dall’estremo oriente: Xhieldo Hyseni è il suocero Nonancourt che ripete allo sfinimento il suo mantra «Tutto a monte!»; Wonjun Jo è Emilio; Haiyang Guo Felice; Tianxuefei Sun Achille di Rosalba e Guardia; Fan Zhou la Modista. Tutti superano la barriera linguistica con efficienza dimostrandosi ottimi attori.

Per la sua messa in scena Mario Acampa ricorre a una trovata tutt’altro che inedita: «Ho trasposto l’azione al 1955, anno in cui debuttò l’opera», scrive il regista, «e ho immaginato che il protagonista fosse un addetto alle pulizie di un cappellificio francese, la “Chapellerie E. Rota & fils”. Durante l’ouverture mostro una giornata tipo di Fadinard, un uomo alla base della scala sociale, maltrattato dagli operai della fabbrica e infine picchiato da un cliente. Un pugno fatale gli fa battere la testa e da quel momento inizia il sogno. Quello che avviene nel corso dell’ouverture si svolge nella dimensione della realtà ed è di mia invenzione, il seguito è esattamente quello che è scritto nel libretto, ma letto nell’ottica del sogno di Fadinard. Un elemento concettuale importante è che l’artefice del sogno è la modista, la titolare della fabbrica, e nella mia visione si chiama Ernesta, proprio come la madre del compositore. Lei, come un deus ex machina, farà muovere i personaggi che interagiscono con il protagonista per rendergli la vita impossibile». Un espediente non proprio necessario per animare una vicenda già complicata di sé, in cui la regia lavora per accumulo di controscene e gag che finiscono per distrarre l’attenzione. La scenografia di Riccardo Sgaramella ricorre – che grande novità! – a una piattaforma girevole con una struttura architettonica che ruotando forma i diversi ambienti in cui si sviluppa l’azione. La rotazione rende bene il ritmo da capogiro della vicenda, ma confonde anche abbastanza le idee dello spettatore, che deve riconoscere con prontezza nel vorticare della stessa la casa di Fadinard (atto I), il negozio della modista (Intermezzo I), la villa della baronessa di Champigny (atto II), la casa di Beaupertuis (atto III) o la piazza immersa nella notte (atto IV). Lo horror vacui del regista porta a mimare dietro una finestra quello che racconta il personaggio al proscenio ottenendo l’effetto di chi spiega una barzelletta e ne sminuisce così l’effetto comico. Le coreografie di Anna Olkhovava non si distinguono per necessità e originalità e i costumi Chiara Amaltea Ciarelli mescolano con eccessiva disinvoltura epoche differenti. Efficace è invece il gioco luci di Andrea Giretti.

Insomma, una serata tutt’altro che memorabile che però accende la curiosità per quello che saprà fare Michieletto a dicembre di questa farsa italiana un po’ datata nel testo e nella musica.