foto © Roberto Ricci
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Giuseppe Verdi, La battaglia di Legnano
Parma, Teatro Regio, 29 settembre 2024
★★★★☆
Cavalli di guerra
Nel viaggio a ritroso dei titoli verdiani del Festival di Parma, quest’anno all’insegna di “Potere e Politica”, si passa dal 1865 del Macbeth versione francese, al 1859 de Un ballo in maschera, al 1849 de La battaglia di Legnano, opera cerniera tra gli “anni di galera” e i lavori della maturità.
Scritta nei momenti più roventi della storia del nostro paese – la rivoluzione siciliana del gennaio 1848, le Cinque Giornate di Milano a marzo, l’inizio della Prima guerra d’indipendenza, la Repubblica Romana del febbraio 1849 – La battaglia di Legnano è l’unica opera risorgimentale di Verdi, anche se istanze patriottarde gli verranno attribuite per alcuni momenti de Il trovatore (1853) o de Les vêpres siciliennes (1855), intenzioni probabilmente estranee al compositore il cui cognome comunque sembra fornisse l’acronimo per inneggiare a Vittorio Emanuele Re D’Italia sui muri delle case – se anche questa non è una leggenda costruita molti anni dopo l’unificazione del paese.
Il libretto del Cammarano riflette la temperie rivoluzionaria che si respirava in quel periodo e nel testo le invocazioni all’Italia – senza articolo, come si trattasse di una figura umana femminile – si sprecano: «Viva Italia forte ed una… la sacra Italia… il difensor d’Italia… il destino d’Italia son io… grande e libera Italia sarà… giuriam d’Italia por fine ai danni… salvi d’Italia, pietoso iddio, gli eroi più grandi chieggo per te… Italia risorge vestita di gloria… salvata Italia per questo sangue giuro… è salva Italia… io spiro»…
L’intreccio della grande Storia con la storia dei singoli qui ha un che di non convincente e il solito triangolo amoroso, dove il soprano sposato al baritono ama il tenore, si svolge in modo un po’ artificioso in parallelo a vicende epocali. Se già negli anni ’60 dell’Ottocento molte spinte ideali si erano esaurite e sorgevano i primi problemi di un’unificazione forse troppo affrettata, come possiamo accogliere noi oggi – che abbiamo visto la Lega (lombarda…) diventare un partito politico proclamatosi inizialmente secessionista! – entusiasmarci alle vicende dei comuni lombardi, uniti nel 1176 contro la minaccia dall’imperatore tedesco Federico Barbarossa, rilette in spirito risorgimentale? Ma soprattutto come possiamo accettare il concetto di nazionalismo che tanti danni avrebbe fatto negli anni seguenti, primo fra tutti i milioni di vittime della Grande Guerra e poi le dittature in Germania e Italia.
La regista Valentina Carrasco ha trovato una chiave di lettura dell’opera di Verdi pensando forse a uno spettacolo che prima a Broadway e poi nel West End londinese ebbe un successo enorme: War Horse, una pièce teatrale del 2007 tratta dall’omonimo romanzo di Michael Morpurgo e adattata per la scena da Nick Stafford. La storia di un giovane che ha cresciuto e addestrato personalmente un cavallo fino a che il rapporto tra i due è bruscamente interrotto dallo scoppio della prima guerra mondiale e il cavallo viene requisito dall’esercito. Per ritrovare il suo cavallo, il giovane non esiterà ad arruolarsi affrontando gli orrori della guerra. Lo spettacolo doveva buona parte del suo successo al sapiente utilizzo di modelli a grandezza naturale mossi da burattinai.
Qui nello spettacolo sono più prosaicamente dei cavalli (finti) su piattaforme fornite di ruote, che rappresentano le “vittime collaterali” e sono i simboli di quegli orrori che sono le guerre, tutte, anche quelle “giuste”, dove i loro corpi smembrati e insanguinati si mescolano con quelli dei caduti umani. Ad apertura di spettacolo vediamo le immagini degli occhi di un quadrupede e si fa quasi fatica a distinguerli da quelli umani. Rimarranno le poche immagini di uno spettacolo che fa del vuoto e del nero del palcoscenico il suo codice visivo. Non ci sono praticamente scenografie da ideare per Margherita Palli, che deve solo costruire gli stalli dei cavalli in cui viene rinchiuso Arrigo – il quale invece che precipitarsi dal verone della torre se ne esce comodamente dal cancelletto mal chiuso.
La scenografia qui la fanno le masse e i personaggi con i loro movimenti, splendidamente inquadrati dalle luci di Marco Filibeck che gioca con magnifici controluce – indimenticabile quello di Federico a cavallo come nella statua di Marco Aurelio. Silvia Aymonino nel disegno dei costumi pensa alle uniformi militari della Grande Guerra mentre per i lombardi riprende quelli storici dei portatori dei gonfaloni delle contrade di Legnano gentilmente prestati ad accogliere il pubblico all’ingresso del Teatro Regio. Unico elemento sullo sfondo l’apparizione dell’affresco del Cavalier d’Arpino, La battaglia di Tullio Ostilio contro i Veienti, nei Musei Capitolini, con il suo intrico di corpi umani ed equini e spade insanguinate.
A rendere coinvolgente la vicenda pensa la musica di Verdi che trova nella bacchetta del giovane Diego Ceretta il giusto equilibrio di slanci patriottici e momenti riflessivi presenti in partitura, con una lettura attenta e appassionata. Le voci in scena non fanno rimpiangere quelle di quando Gavazzeni alla Scala nel 1961 (centenario dell’Unità d’Italia) ripescava questo titolo negletto. Arrigo ha la voce generosa e luminosa di Antonio Poli, Marina Rebeka non manca certo di accento e temperamento nel delineare un’intensa Lida, Vladimir Stoyanov un Rolando autorevole ma vocalmente po’ affaticato. Breve ma decisiva la parte di Federico Barbarossa affidata alla sempre importante presenza scenica e vocale di Riccardo Fassi. Marcovaldo è il convincente Alessio Verna, mentre negli altri personaggi svettano le fresche voci degli allievi dell’Accademia Verdiana: Emil Abdullaiev (Primo Console di Milano), Bo Yang (Secondo Console), Arlene Miatto Albeddas (Imedla), Anzor Pilla (Uno scudiero e Un araldo). Grande lavoro e ottimi risultati per il coro istruito da Gea Garatti Ansini.
Esiti calorosissimi per tutti, anche per la regista – non è dunque più il Regio di una volta, dove il loggione si faceva rumorosamente sentire quando la messa in scenausciva appena appena dalla tradizione… – con un unico isolato e del tutto incomprensibile buu per il maestro Ceretta. Un avversario in amore? Una mancata precedenza in auto? Chissà.
⸪
