Siegfried

foto © Brescia Amisano

Richard Wagner, Siegfried

Milano, Teatro alla Scala, 16 giugno 2025

★★★

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Giugno, mese di Sigfrido?


Giugno consacra Siegfried: alla Scala Alexander Soddy dirige con chiarezza e tensione drammatica un Wagner luminoso, orchestrale, travolgente. Meno convincente la regia di David McVicar, illustrativa e priva di visione, tra realismo e fiaba. Cast solido con Volle e Ablinger-Sperrhacke sugli scudi, Vogt vocalmente saldo ma unidimensionale. Grande successo di pubblico.

Il 13 giugno a Bologna, all’Auditorium Manzoni, il Siegfried di Wagner è eseguito in forma di concerto sotto la direzione di Oksana Lyniv, direttore musicale del Teatro Comunale, ma una settimana prima a Milano erano iniziate le recite della seconda giornata del Ring del Teatro alla Scala. Se poi andiamo oltralpe questo mese c’è la scelta tra le produzioni del Theater Basel (direttore Nott e regista von Peter), della Wiener Staatsoper (Jordan/Bechtolf) e Dresda al Kulturpalast, (Nagano in forma concertistica). Sembra che giugno sia il mese di Sigfrido.

Le repliche milanesi sono affidate alla regia di sir David McVicar e alle bacchette di Simone Young (le prime tre) e Alexander Soddy (le ultime due). Questa del 16 giugno vede infatti sul podio l’ex assistente della Young che ormai si è costruito una brillante reputazione ed è accolto da calorosi applausi prima ancora che sia emessa una nota dall’orchestra. Diventeranno vere e proprie ovazioni al termine della recita da un pubblico rapito dalla sua bellissima direzione che esalta le meraviglie orchestrali di un’opera che, in barba alle teorie dell’opera d’arte totale, quasi quasi si preferirebbe apprezzare in forma di concerto: la musica di Wagner, soprattutto qui, dice tutto quello che c’è da dire. Le decine di motivi conduttori che abbiamo scoperto nelle prime due parti qui sono diventati ancora più numerosi e bene ha fatto Raffaele Mellace a indicarli sul libretto stampato sul programma di sala, come faceva Ricordi in quelli italiani di fine Ottocento. Qui sono un insieme di linee in diversi colori, legati alle diverse costellazioni di motivi (la natura, l’oro, i Nibelunghi, gli dèi, gli eroi, la passione, il potere) con cui è più agevole districarsi fra quei «vettori dei flussi di passione che percorrono l’articolatissima vicenda e dei caratteri che in essa si manifestano» (Richard Wagner). Ci pensa comunque Soddy a rendere chiaramente il dipanarsi dei temi e anche nei momenti del loro addensamento: nell’interludio al terzo atto, ad esempio, sono ben dodici i motivi conduttori appena accennati o maggiormente sviluppati dall’orchestra in non molte battute. La continuità narrativa è il maggior pregio della lettura di Soddy che, pur non mancando di sottolineare i momenti drammatici, punta alla trasparenza e alla chiarezza del fluire musicale che in Siegfried è particolarmente vario passando dalla frastornante scena della fusione della spada ai suoni cavernosi dell’incontro col drago ai toni amorosi dell’idillio tra i due giovani, uno che nell’amore conosce finalmente la paura, l’altra che si risveglia donna mortale e innamorata. Una piccola imperfezione non ha pregiudicato la bella performance del primo corno, vero protagonista strumentale della serata, mentre l’acustica del teatro ha esaltato i colori e la brillantezza dell’orchestra.

«Per risolvere i problemi posti da Wagner, un approccio letterale non è sicuramente la scelta migliore: se si rimane attaccati alle didascalie sceniche come sono scritte, va perduto il cuore simbolico di tutto ciò che accade». Leggendo queste frasi sul programma di sala si stenta a riconoscere in sir David McVicar il loro autore, in quanto il regista scozzese è esattamente questo che fa: una lettura letterale, didascalica e soprattutto rassicurante, che visivamente passa da toni realistici (atto primo), al fantasy (atto secondo) a un vago simbolismo (atto terzo). La sua è la scelta, legittimissima, di rinunciare a qualunque lettura ideologica e limitarsi agli elementi favolistici della vicenda – uccellini parlanti, draghi, bella addormentata risvegliata dal bacio del principe azzurro… – senza porsi problemi e soprattutto senza vergognarsi di rappresentarli per quello che sono. Ecco quindi il monolocale di Mime nella caverna dove cucina e fucina si affiancano così che mentre Sigfrido martella sull’incudine, con lo stesso ritmo il nano spinge con il mestolo la zuppa avvelenata in una borraccia dopo che il ragazzone gli ha portato in casa un enorme un orso mosso da due servi di scena. Ben otto invece saranno quelli per manovrare il drago Fafner, uno scheletro strisciante che nel momento della morte si ritrasforma nel gigante che avevamo visto nel Prologo, però senza trampoli, mentre anch’esso proveniente dalla prima giornata ritroveremo il cavallo di Brunilde che si risveglia assieme alla padrona e rappresentato qui da un giovanotto a torso nudo sulle protesi elastiche. Bella la soluzione dell’uccellino parlante ottenuta con quattro elementi: altro giovanotto a torso nudo con lunga pertica e uccellino svolazzante all’estremità, cantante con cresta punk che muove l’uccellino saltellante per terra. Un plauso al coraggio di McVicar nel non tirarsi indietro quando c’è da realizzare qualcosa con mezzi artigianali ma espressamente teatrali. La tecnologia è lasciata alle video proiezioni di Katy Tucker, semplici e funzionali per rappresentare cieli burrascosi, fiamme, pianeti in congiunzione, l’occhio infuocato del drago circondato da un anello proiettato sul sipario nero che cala fra un atto e l’altro. Le scenografie di Hannah Postlethwaite e dello stesso McVicar distinguono i diversi ambienti: quello eccessivamente realistico della grotta, ma funzionale alle gag dell’interprete di Mime; quello romantico-horror dell’ingresso alla caverna di Fafner con le tre figure umane scarnificate; il luogo selvaggio della prima parte del terzo atto, un vuoto con una sfera dietro cui dorme Erda svegliata da Wotan/Viandante; la roccia a profilo femminile (vista in Die Walküre) e la mano su cui riposa la dormiente Brunilde (da Das Rheingold invece) della lunga scena finale. Elaborati e giustamente evocativi i costumi di Emma Kingsbury, giocati su colori scuri e neutri ad eccezione degli abiti femminili di Mime (la pelliccia leopardata…) con cui si evidenzia l’ambiguità del personaggio; la divisa da circense in rosso e oro di Alberich, sovrano decaduto dalla corona di cartone; la tunica azzurra di Brunilde.

Come l’allestimento anche il cast vocale è rassicurante, non solo perché ritroviamo gli interpreti già ascoltati nel Prologo e nella Prima giornata – e qui si confermano le eccezionali qualità attoriali e vocali del Nano Mime, l’imponente Wolfgang Ablinger-Sperrhacke, e del suo fratello Alberich, Ólafur Sigurdarson; lo scavo psicologico e il gioco sulla parola di Michael Volle, Viandante/Wotan; la rozzezza del Fafner di Ain Anger la cui voce è amplificata dal microfono quando non si vede in scena; la Brünnhilde di Camilla Nylund, anche questa volta un po’ in difficoltà all’inizio con acuti sforzati e troppo vibrato, meglio nel prosieguo ma qui ha meno di mezz’ora per carburare – ma perché per il personaggio del titolo si è optato per il sicuro, ma un po’ noioso, di Klaus Florian Vogt che ben lontano dal ruolo di Heldentenor esibisce la sua voce luminosa ma sottile, dal robusto registro acuto ma dal fraseggio non troppo vario. Riesce comunque ad arrivare indenne alla fine di una delle parti più massacranti del teatro in musica. Ma Vogt non ci ha detto nulla in più di quanto sapevamo di Siegfried, che rimane quel personaggio monodimensionale e antipatico che conoscevamo. Unica cantante di lingua italiana del cast è Francesca Aspromonte, agile voce dell’uccellino.

Grande successo di un pubblico che ha resistito stoicamente a tutte e cinque le ore di spettacolo. A febbraio con Götterdämmerung si concluderà la saga.