foto © Mattia Gaido e Daniele Ratti
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Umberto Giordano, Andrea Chénier
Torino, Teatro Regio, 22 giugno 2025
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Chénier come Assange…
«Fur tre mesi! | Ah no… tre secoli!», esclama Elvira ad Arturo ne I puritani. Anche ll regista Giancarlo del Monaco la pensa allo stesso modo per il suo Andrea Chénier ora sul palcoscenico del Teatro Regio di Torino a conclusione della stagione. Nella sua messa in scena tra il primo e il secondo quadro sono passati realmente alcuni secoli e dal Settecento un po’ stucchevole di nobili annoiati durante la Rivoluzione Francese, passiamo alla Parigi del Terrore, un mondo dove regnano sospetto e violenza, che qui diventa una dittatura del secolo XX. Se ne poteva avere qualche avvisaglia sin dall’inizio: davanti a un sipario semitrasparente il servo Gérard, quello che ha letto Jean Jacques Rousseau e gli Enciclopedisti, intona il suo disprezzo verso i «protervi arroganti signori» tra due mucchi di detriti da cui spuntano copertoni d’auto e altri manufatti non proprio compatibili col secolo dei lumi. Nel finale del primo quadro la «nobil gavotta» è interrotta da parà armati di kalashnikov e nel secondo vediamo avviarsi al patibolo nobili in parrucche e crinoline, mentre tutto intorno siamo immersi in una grigia atmosfera novecentesca.
Il regista paragona il poeta Chénier a «Julian Assange di WikiLeaks: dice cose vere», ma anche se fosse così – e chi scrive fa fatica ad accettare l’azzardato paragone – questa chiave di lettura risulta non del tutto convincente e la scelta di ambientare il lavoro di Illica e Giordano in epoche distanti secoli quando riferimenti puntuali del libretto rimandano a figure del XVIII secolo – Robespierre, sanculotti, ghigliottine… – mentre in scena vediamo camion, filo spinato, archivi da Gestapo, non sembra funzionale alla messa in scena dell’unicum di Giordano (Fedora e Siberia sono ben distanti nella scia della popolarità). Il regista e figlio del mitico tenore abbandona per un momento la vena descrittiva e lineare di tanti suoi spettacoli per avventurarsi in una visione distopica realizzata con le desolate scenografie di Daniel Bianco il quale dopo aver costruito le eleganti boiserie del Castello di Cloigny (quadro I) passa all’esterno di un penitenziario (quadro II) con i suoi alti muri, il filo spinato e le torrette di guardia, poi all’interno di una stazione di polizia con infiniti schedari (quadro III) e infine al campo di concentramento (quadro IV) dove si consuma il sacrificio dei due amanti uniti nella morte. I costumi di Jesus Ruiz e le luci di Vladi Spigarolo sono coerenti con la scelta registica che contrappone il frivolo Settecento al tetro e minaccioso Novecento, le vicende storiche al triangolo amoroso dei tre personaggi principali, le tensioni rivoluzionarie con il crollo delle speranze e le delusioni. La Rivoluzione Francese come «inizio di tutto: della Rivoluzione Russa, della Rivoluzione Cinese, del Nazismo, del Fascismo… Una rivoluzione è un’utopia e le utopie non funzionano mai, si ribellano contro il desiderio umano di un mondo migliore», scrive il regista.
La qualità della scrittura orchestrale di Giordano, sapiente e capace di raffinatezze (ricordiamo l’infatuazione di Mahler per la sua Fedora), è messa in luce dalla direzione di Andrea Battistoni, l’attuale direttore musicale, che qui dimostra la sua predilezione per il repertorio veristico e gli autori della Giovane Scuola, ma nello stesso tempo anche i limiti di questa musica, scritta per il piacere fisico più che per elaborare la psicologia dei personaggi e accompagnarne l’evoluzione. L’orchestra di Giordano è spesso uno strumento enfatico per sottolineare, talora con eccessiva frequenza, e descrivere la vicenda, come una musica per film, trascinante ma epidermica e la direzione di Battistoni esalta questo aspetto con una conduzione orchestrale votata al Forte e con un certo squilibrio tra suono che proviene dalla buca e quello dalla scena – è il solito problema dell’acustica del teatro torinese, ma il direttore musicale dovrebbe tenerne conto – così che numerosi sono i momenti in cui gli strumenti coprono le voci.
Voci tutt’altro che deboli, per di più. Di Gregory Kunde smettiamo di sottolineare il miracolo del suo mezzo vocale pressoché ancora intatto: non è questa – per lo meno non solo questa – la meraviglia che scopriamo ogni volta che lo ascoltiamo. Il tenore americano nobilita ogni volta quanto canta e quello che spesso viene berciato a piena voce qui è porto con un’emissione di infinita eleganza e attenzione alla parola, dove non contano i volumi sonori, che comunque ci sono, ma le sfumature espressive che fanno di ogni sua performance il motivo forte per non mancare lo spettacolo. Come qui, dove il suo primo intervento, «Un dì all’azzurro spazio | guardai profondo», sembra il manifesto del suo credo artistico: mai enfatico o declamatorio, il suo Chénier resta sempre un poeta, eloquente ma con stile, squillante ma leggero, e con un fraseggio e una dizione da manuale. E senza denunciare stanchezza in questa parte esigente che ancora nell’ultimo atto richiede al personaggio di intonare una pagina vocalmente impegnativa «Come un bel dì di maggio», la versione di Illica di «Comme un dernier rayon, comme un dernier zéphyr», composto dallo Chénier il 7 termidoro 1794, poco tempo prima di salire al patibolo su ordine di Robespierre, che verrà a sua volta ghigliottinato tre giorni dopo…
In questa produzione Gérard ha il carisma di Franco Vassallo, con la sua magnifica intonazione, solidità vocale e grande espressività. Il personaggio è delineato a tutto tondo, forse con un eccesso di caratterizzazione del regista nel terzo quadro quando il vecchio servo passato alla parte dei rivoluzionari si trasforma in un lubrico Scarpia nei confronti della Maddalena di Coigny, segretamente amata fin da quand’era «piccina”. Una Maria Agresta che da viziata ragazzina angustiata da corsetti e gonnelle si risveglia orfana e povera in una realtà tremenda. La toccante pagina «La mamma morta», che è l’analogo drammatico di «Vissi d’arte» nella Tosca, è cantata con intensità ma anche controllo emotivo.
Molti sono i personaggi di contorno efficacemente interpretati: la Bersi di Mara Gaudenzi, incongruamente vestita in un abito da sera di lamé, Riccardo Rados (Un “Incredibile”), Vincenzo Nizzardo (Mathieu), Adriano Gramigni (Roucher), Federica Giansanti (La Contessa di Coigny), Nicolò Ceriani (Fléville e Fouquier-Tinville), Daniel Umbelino (L’Abate), Tyler Zimmerman (Dumas) e Janusz Nosek (Schmidt), questi ultimi tre del Regio Ensemble. Nella figura della vecchia Madelon si ammira la capacità di Manuela Custer a ritagliarsi un pregevole cammeo, anche se qui la regia non è molto d’aiuto a evidenziare la breve ma straziante scena.
Purtroppo nello spettacolo del Regio la tensione drammatica si sfalda a causa della decisione di separare ognuno dei quattro quadri con un lungo intervallo, così che alle due ore di musica vengono aggiunti oltre un’ora e un quarto di intervalli – con l’assurdo di un quarto quadro che dura meno dell’intervallo che l’ha preceduto! Uno spettacolo che poteva finire dopo due ore e mezza manda invece a casa gli spettatori rimasti, con un terzo del pubblico che se ne è scappato nel frattempo, dopo quasi quattro ore.
⸪

