Pelléas et Mélisande

Claude Debussy, Pelléas et Mélisande

Barcellona, Gran Teatre del Liceu, 29 giugno 2012

★★★★☆

(registrazione video)

L’enigma di Debussy: la visione luminosa di Robert Wilson

Claude Debussy compose un’unica opera, Pelléas et Mélisande, capolavoro enigmatico che dall’anno della sua prima rappresentazione, il 1902, continua a dividere e sedurre. Tratto dal dramma simbolista di Maurice Maeterlinck, il lavoro esige scenari naturali e spazi di corte – una fonte nel bosco, un pozzo in un parco, le sale e le segrete di un palazzo. Ambientazioni che, nel tempo, hanno messo in difficoltà i registi, costretti a misurarsi con un linguaggio teatrale che rifugge il realismo e con una musica impressionista che dissolve la tradizionale drammaturgia melodica. Non vi sono arie celebri da ricordare, né slanci melodici immediatamente riconoscibili: la partitura si nutre di sfumature, mezze tinte, pause cariche di ambiguità. Non sorprende, dunque, che all’inizio l’opera abbia incontrato scarsa fortuna. Eppure, a distanza di oltre un secolo, Pelléas si è consolidata nel repertorio dei maggiori teatri lirici, imponendosi come una delle esperienze più raffinate e complesse del Novecento.

Il Gran Teatre del Liceu di Barcellona, in coproduzione con l’Opéra National de Paris e il Festival di Salisburgo, ha recentemente offerto al suo pubblico una nuova occasione di incontro con questa opera singolare, affidandone la regia al visionario Robert Wilson. La scelta si è rivelata felice: lo stile inconfondibile dell’artista texano, maestro del teatro d’immagini, incontra la rarefazione debussyana e la esalta, trasformandola in esperienza sensoriale di ipnotica bellezza. Wilson rinuncia sin dall’inizio a qualsiasi parvenza di naturalismo. Nessuna fonte, nessun pozzo, nessuna chioma fluentemente sciolta: tutto è evocato, nulla è mostrato. La scena si riduce a uno spazio essenziale, quasi sempre vuoto, attraversato da fasci di luce che mutano di intensità e colore, dal bianco accecante al blu nelle sue infinite gradazioni. L’intero spettacolo si articola in un austero gioco cromatico dominato dal bianco, dal nero e dall’azzurro. L’assenza di oggetti scenici e la rarefazione dei segni drammaturgici spingono lo spettatore a leggere ogni dettaglio gestuale come simbolo.

A ciò si accompagna una precisa stilizzazione del movimento. I personaggi sembrano talvolta automi, talvolta danzatori di un balletto astratto; i loro gesti, calibrati con rigorosa lentezza, ricordano i fili invisibili di marionette. Non vi è quasi mai contatto fisico, e lo sguardo tra i protagonisti si evita sistematicamente. Così, nella scena iniziale, quando Golaud incontra Mélisande nel bosco, l’interazione si consuma senza che i due personaggi si guardino negli occhi: la distanza diventa cifra poetica, specchio di un mondo emotivo fatto di desideri inappagati e verità mai pronunciate. Il fulcro dell’allestimento resta la luce, che Wilson manovra con maestria assoluta, costruendo atmosfere di una suggestione quasi pittorica. Ogni cambio cromatico plasma lo spazio, trasforma la percezione del tempo, modula la tensione drammatica più di quanto non facciano le parole o gli oggetti. È un teatro che si nutre di immagini, che vive di allusioni, che lascia all’occhio e alla mente dello spettatore la responsabilità di colmare i vuoti. La sua visione riduce all’essenziale, ma proprio in questa spoliazione trova la sua forza: ogni gesto, ogni sguardo mancato, ogni variazione di luce diventa segno eloquente, rivelatore di significati nascosti. Lo spettatore si trova immerso in un universo sospeso, dove i confini tra realtà e sogno si dissolvono. È teatro simbolico allo stato puro, perfettamente accordato con la poetica debussyana.

La compagnia di canto si dimostra all’altezza della sfida. María Bayo, nei panni di Mélisande, offre un ritratto di fragile intensità. La sua voce, dolce e trasparente, sa rendere l’ambiguità di un personaggio enigmatico: vittima e insieme seduttrice, innocente e forse manipolatrice. Dal primo ingresso, giovane donna smarrita che porta addosso i segni di un passato oscuro, fino all’uscita finale, quando la morte la trasfigura in una sorta di figura luminosa, Bayo riesce a incarnare la misteriosa femminilità che Debussy e Maeterlinck hanno consegnato al mito. Accanto a lei, Jean-Sébastien Bou presta a Pelléas un timbro chiaro e una vocalità leggera, perfetta per il personaggio. È un amante che tace la parola “amore” fino alla fine, quasi a voler lasciare in sospeso l’essenza stessa della sua passione. Bou dà vita a un eroe discreto, dolente e sincero, reso credibile dalla naturalezza del canto e dalla nobiltà del fraseggio.

Laurent Naouri, interprete di Golaud, completa il triangolo con una presenza scenica imponente. La sua voce baritonale, scura e penetrante, restituisce tutta la violenza repressa e la disperazione del marito che, dopo aver sposato Mélisande, la vede sfuggirgli inesorabilmente verso Pelléas. Naouri costruisce un personaggio cupo, ossessionato, progressivamente consumato dalla gelosia. Tra i ruoli secondari spicca Olatz Saitua, che con il suo timbro brillante disegna un Yniold di vibrante freschezza, restituendo con sorprendente autenticità l’innocenza inquieta del fanciullo. Hilary Summers offre solidità al personaggio di Geneviève, madre dal profilo discreto ma fondamentale nel tessuto simbolico della vicenda. Più problematica l’interpretazione di John Tomlinson come Arkel: se l’autorità scenica non manca, la voce denuncia segni di fatica e incertezza. Alcune note instabili possono essere lette come corrispondenza con la vecchiaia del personaggio, ma la sensazione è che si tratti piuttosto dei limiti di un cantante ormai oltre l’apice della carriera. La sua vocalità, più adatta a Wagner o a repertori dal lungo respiro legato, sembra mal conciliarsi con la scrittura spezzata e rarefatta di Debussy.

A tenere insieme l’intero impianto musicale è la direzione di Michael Boder, che guida l’orchestra e il coro del Liceu con equilibrio e sensibilità. La partitura, tutta giocata su sfumature dinamiche e timbriche, trova in lui un interprete capace di esaltare le mezze tinte, i silenzi carichi di tensione, i passaggi quasi parlati che fanno di Pelléas un unicum nella storia del melodramma. Boder non cerca di imporre un pathos esteriore, ma lascia che la musica scorra con naturalezza, rispettando il respiro interno della narrazione.

Così il Liceu ha offerto non solo una ripresa di repertorio, ma un’esperienza estetica totale, capace di ricordare al pubblico che Pelléas et Mélisande non è semplicemente un’opera da ascoltare, bensì un viaggio nell’ombra e nella luce, nel mistero dell’inconscio, nella tensione inappagata tra desiderio e silenzio. Robert Wilson, con la sua arte visionaria, ha dato forma visibile a ciò che Debussy aveva inscritto nella musica: un’opera che non svela, ma allude; che non afferma, ma evoca. Ed è forse proprio in questa enigmaticità che risiede la sua forza immortale.