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Richard Wagner, Die Walküre
Roma, Parco della Musica, 25 ottobre 2025
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Quando la musica vola e la scena inciampa
Inaugurating Santa Cecilia’s season, Daniel Harding conducted Die Walküre, his first step in performing Wagner’s entire Ring cycle. His vivid, dramatic reading showcased orchestral clarity and emotional depth, with powerful brass and refined strings. Michael Volle’s Wotan dominated a strong cast. Despite musical excellence, Vincent Huguet’s Roman-themed staging—with clumsy symbolism and awkward costumes—proved unnecessary and visually disappointing.
Daniel Harding inaugura la stagione di Santa Cecilia con Die Walküre, primo passo del suo progetto di eseguire l’intero Ring entro il 2028. La sua direzione travolgente e drammatica, capace di fondere energia e trasparenza, entusiasma il pubblico dell’Auditorium gremito. Michael Volle brilla come Wotan, affiancato da un cast di alto livello. Meno felice la regia di Vincent Huguet, che ambienta l’opera in una Roma imperiale visivamente discutibile.
«Si odono gli alberi schiantarsi con fragore e il vento fischiare fra le fronde. Rimbomba il tuono. Poi il fragore della tempesta si calma poco a poco».
Così Camille Saint-Saëns, corrispondente dell’“Estafette”, descriveva nell’agosto 1876 l’inizio della Walküre. E davvero quegli stessi rombi e quegli stessi fremiti sembrano risvegliarsi nei suoni che Daniel Harding scatena ancor prima che si spengano gli applausi con cui il pubblico lo accoglie nella grande sala dell’Auditorium Parco della Musica per l’inaugurazione della stagione dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
Daniel Harding affronta per la prima volta Der Ring: ognuna delle quattro opere inaugurerà la stagione concertistica. La prima giornata, Die Walküre, quest’anno, Siefgried e Die Götterdämmerung gli anni prossimi mentre per il prologo, Das Rheingold, occorrerà aspettare il 2028. Qui a Santa Cecilia l’ultimo Ring completo in forma di concerto fu quello di Sinopoli negli anni 1988-91, ma per una rappresentazione in forma scenica al Costanzi bisogna risalire al 1961!
La grande sala progettata da Enzo Piano è completa in ogni ordine di posti – i biglietti sono esauriti da tempo – e vibra alla lettura emozionante e piena di senso drammatico data dal direttore inglese. La disposizione in primo piano e allargata in orizzontale della sterminata orchestra esalta l’effetto spaziale dei suoni, la chiarezza del discorso drammatico, la varietà dei colori. Rifuggendo da un’esteriorità fine a sé stessa, Harding è attento al tormento dei personaggi, alla tensione emotiva e alla forza dei sentimenti. Tiene insieme l’energia drammatica e la trasparenza orchestrale, i Leitmotive non sono semplici frammenti musicali, ma entità di una drammaturgia in evoluzione.
I tre grandi squarci sinfonici dell’opera – la tempesta iniziale, la cavalcata delle valchirie, l’incantesimo del fuoco – ricevono ognuno un colore particolare: travolgente la sovrapposizione tra la furia degli elementi e l’angoscia del fuggiasco; spettacolare e barbarica la cavalcata; luccicante e intenso emotivamente il finale. Particolarmente rotondo il suono degli ottoni, morbido quello dei legni, compatti gli archi. Preziosi anche gli interventi solistici, come quello ricco di emozione del violoncello solo nel finale primo. Solo a tratti l’equilibrio con le voci si incrina – talora sommerse, talora troppo esposte nei lunghi monologhi – ma le voci sono di prim’ordine.
Fatto segno di giuste ovazioni e ultimo a prendersi gli applausi nel finale (segno di finezza dell’interprete di Brünnhilde nel rispettarne la centralità) è Michael Volle, uno dei più grandi cantanti vagneriani di oggi che ogni volta stupisce per gl’inossidabili mezzi vocali e l’intensità espressiva. Al suo personaggio Wagner affida uno dei monologhi più lunghi della storia dell’opera, oltre 150 versi, quando nel secondo atto racconta a Brunilde gli antefatti. Si tratta di una pagina grandiosa in cui il compositore mette in atto con impressionante efficacia il metodo dei Leitmotive. «Ciò che a nessuno rivelerei con parole», inizia così il suo racconto nella nuova traduzione di Quirino Principe, «dunque rimanga inespresso in eterno». Il suo solenne recitativo declamato è sostenuto con sobrietà dall’orchestra che “suggerisce” i temi: a quello dello “sdegno” al pensiero del Nibelungo e alla sua maledizione seguono i temi del “Walhalla” e di “Erda”, «colei che tutto conosce». Il tema della “cavalcata delle valchirie” accompagna il suo racconto della generazione delle «otto tue sorelle», e così via. La tenuta drammatica di Volle qui raggiunge un livello eccezionale, come avverrà dopo nella sua collera per la disobbedienza e poi nel commovente addio alla figlia.
Altro sicuro caposaldo wagneriano è Okka von der Damerau, la monumentale Fricka già ammirata alla Scala quest’anno. Il soprano finlandese Miina-Liisa Värelä ha grande proiezione e un solido registro centrale ma un timbro un po’ metallico. Una vena penetrante e un vibrato eccessivo ce l’ha anche la voce del soprano lituano Vida Miknevičiūtė, una Sieglinde luminosa e intensa che si vorrebbe però con qualche tratto di dolcezza in più. Le è accanto il Siegmund di Jamez McCorkle, tenore americano ma pianista di formazione, dalla voce calda ed espressiva che non rientrerebbe nei canoni classici di tenore wagneriano, ma incanta per il lirismo delle mezze voci e del fraseggio sapientemente variato. Fafner nel Ring di Mehta, il basso danese Stephen Milling qui è un rozzo Hunding a cui presta il suo eccezionale volume di voce. Manca però al personaggio quel filo di malvagità latente che altri hanno saputo esprimere. Da vari paesi nordeuropei arriva l’ottetto di convincenti Valchirie: Sonja Herranen, Hedvig Haugerud, Claire Barnett-Jones, Claudia Huckle, Dorothea Herbert, Virginie Verrez, Anna Lapkovskaja, Štěpánka Pučálková.
Harding stesso ha voluto che l’esecuzione avvenisse in forma scenica. Ecco quindi che nell’auditorium viene allestito uno spazio teatrale dallo scenografo Pierre Yovanovitch: una scena fissa che rappresenta un monumentale edificio freddo e bianco in stile piacentiniano con rampe di scale e torrette. Uno spazio che deve fare i conti con la poca profondità, la mancanza di torre scenica e di sottopalco. Autore della messa in scena è Vincent Huguet che si è ispirato alla Roma imperiale: il fatto che Siegmund e Sieglinde fossero gemelli figli di un lupo gli ha ricordato Romolo e Remo e la lupa, e Wotan e Fricka gli omologhi di Giove e Giunone. Non è una grande scoperta: tutte le religioni pagane si rifanno agli stessi archetipi essendo costruite sui vizi degli umani.
L’idea poi che il Götterdämmerung, la caduta degli dèi del Walhalla, sia metafora della caduta dell’impero romano lascia il tempo che trova, ma è soprattutto la realizzazione visiva che convince poco: l’affannarsi continuo e rumoroso sugli scalini, la colonna corinzia spezzata che funge da divano, il sarcofago, inutilizzato, con il bassorilievo dei gemelli allattati dalla lupa, il tubo al neon che forma la sagoma del frassino (!) con annessa spada appesa, le ombre cinesi dei cavallini, i lampi di luce… Trovate la cui ingenuità cozza con la drammaticità dell’argomento. Peggio ancora con i costumi: si capisce che visitando la storica sartoria Tirelli Trappetti si rimanga giustamente affascinati, ma trasformare Wotan in un Nerone alla Petrolini, le valchirie in vedove uscite da un allestimento pirandelliano d’epoca, Sieglinde in elegante matrona romana, Siegmund in principe nubiano… Anche Fricka in abito da sposa è troppo.
Ma era davvero necessaria una messa in scena? Il pubblico di Santa Cecilia ha forse bisogno di costumi e scenografie per capire Wagner? Serve per compensare l’assenza del Ring dal palcoscenico del Teatro dell’Opera di Roma da sessantacinque anni? Non pare proprio.
A proposito: il mese prossimo la stagione lirica romana inizia proprio con Wagner: Lohengrin, diretto da Michele Mariotti e con la regia di un certo Michieletto.
⸪
