foto © Paolo Vanoni
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Richard Wagner, Lohengrin
Roma, Teatro dell’Opera, 5 dicembre 2025
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Lohengrin, l’uovo e l’argento: l’incanto secondo Michieletto
La nuova produzione romana di Lohengrin, diretta da Mariotti e messa in scena da Michieletto, contrappone la luminosità del protagonista alle ombre di Ortrud, con una lettura musicale trasparente e un forte simbolismo scenico basato sull’argento e sull’uovo-dubbio. Cast diseguale, ma coro eccellente. Uno spettacolo visivamente e teatralmente potente, destinato a restare memorabile.
Opera fiabesca dal finale tragico adorna nelle forme di un dramma storico: così Carl Dahlhaus definisce il Lohengrin. Opera romantica, per l’autore, che affonda le radici nella leggenda del cavaliere del cigno Loherangrin abbozzata da Wolfram von Eschenbach nel suo poema Parzival e che Wagner riplasma con un’aura di meraviglia, contrapponendo alla magia bianca del protagonista quella nera di Ortrud. Ma c’è di più: Wagner conclude quel processo di “storicizzazione” che la leggenda aveva subito tra Medioevo e Rinascimento, collocando l’azione nel X secolo, all’epoca di Enrico l’Uccellatore e delle Guerre d’Ungheria.
È poi al fiuto teatrale del compositore che si deve la creazione di Ortrud, personaggio inesistente nelle fonti medievali eppure imprescindibile sulla scena. È lei l’artefice della trasformazione di Gottfried in cigno; lei a instigare Telramund nell’accusa contro Elsa; lei, infine, a inoculare il veleno del dubbio nella sposa dopo il matrimonio. Con Ortrud si cristallizza anche l’asse tematico tra paganesimo e cristianesimo, in perfetta sintonia con il carattere da grand-opéra – perché in parte questo Lohengrin lo è davvero.
Roma non è certo città wagneriana, se sono stati necessari cinquant’anni per riportare il titolo nel cartellone, e addirittura per la prima volta nella versione originale tedesca. Ma ora l’opera inaugura la stagione con un doppio debutto wagneriano: quello del direttore musicale Michele Mariotti sul podio e quello di Damiano Michieletto alla regia.
Fin dalle prime note del Preludio, Mariotti ci immerge con grande sensibilità nella dimensione trascendente e metafisica del mondo di Lohengrin grazie a un tocco leggero e trasparente, nonostante qualche piccola esitazione iniziale degli archi. La sua lettura disegna con poetica intensità questo universo sospeso, luminoso, liquido, che si contrappone ai timbri cupi e dissonanti di Ortrud e Telramund e alla pompa militaresca delle fanfare.
Lohengrin è opera di cerniera: ancora legata ai primi lavori di Wagner (Rienzi, Holländer, Tannhäuser), ma già protesa verso la rivoluzione drammaturgica di Tristan, Meistersinger, Ring e Parsifal. Mariotti esalta questo equilibrio, valorizzando i grandi monologhi e la ricchezza melodica, mantenendo un fine dialogo tra archi e legni e guidando con vigore gli ottoni nelle loro gloriose affermazioni. Non è un caso che il direttore abbia scelto cantanti di vocalità non wagneriana, quasi belcantistica, italiani nel gusto. Emblematico il caso di Dmitrij Korčak, anche lui debuttante wagneriano e tenore di elezione rossiniana, belliniana, donizettiana. Il bellissimo timbro e il fraseggio elegante si inseriscono perfettamente nella tradizione dei Lohengrin lirici e misurati – i Kaufmann, i Cutler, persino il timbro diafano di Vogt – lontani ormai dall’eroismo dell’Heldentenor. Korčak si colloca così in piena sintonia con la linea interpretativa più moderna e con il carattere “italiano” dell’opera. Non irrilevante il suo legame con Michieletto: Korčak fu protagonista di uno dei primi successi del regista, Il dissoluto punito al Festival Mozart di La Coruña nel 2006 – nell’opera di Ramón Carnicer i Batlle, Don Giovanni Tenorio ha voce tenorile.
Il resto del cast appare più disomogeneo: l’Elsa di Jennifer Holloway è psicologicamente ben scolpita, ma vocalmente di timbro tutt’altro che seducente; molto meglio la Ortrud di Ekaterina Gubanova, voce scura e autorevole che definisce il personaggio con dominio assoluto. Quasi insopportabile, invece, la rozzezza del Telramund di Tómas Tómasson – già così alla Scala dodici anni fa e invariato da allora. Non convincono nemmeno i deboli mezzi vocali dello Heinrich di Clive Bayley. Ottimo, invece, Andrei Bondarenko come Araldo, e splendido il coro istruito da Ciro Visco, tra i migliori in Italia.
Ma torniamo al Preludio per raccontare la visione scenica di Michieletto. All’apertura del sipario appare una donna davanti allo stagno in cui è affogato il fratellino – stagno che qui è una vasca da bagno. La donna estrae dall’acqua una maglietta blu e calzoncini rossi, che stende poi su una sedia. E quel bambino, creduto morto, ricomparirà alla fine proprio con quei vestiti.
La scena è dominata da un alto muro curvo di legno, spazio umano ma anche aula di tribunale nel primo atto. Ed è ingegnosa la trovata che risolve lo scontro tra Lohengrin e Telramund: dall’alto discende un monolito d’argento da cui gocciola il metallo fuso. Telramund ne è orribilmente ustionato, mentre Lohengrin ne esce rivestito come da un’armatura lucente: una differenza essenziale tra i due personaggi resa con mezzi di una genialmente raffinata.
Il centro simbolico dell’allestimento di Michieletto è l’uovo: emblema alchemico, metafora del dubbio, inizialmente chiuso, come una verità impenetrabile. Nel secondo atto Telramund ricopre di una sostanza nera un grande uovo argenteo custodito in una teca. Quando l’uovo si apre, quella stessa pece contaminerà Elsa fino a farle perdere la vista, come accade al popolo di Brabante, già assediato da una “selva” di uova calate dall’alto come proiezione materiale del dubbio collettivo.
Una danza di anelli luminosi accompagna la notte di nozze, che culmina nella domanda fatale. Alla parola «Montsalvat», le pareti lignee si ricoprono di un tessuto argenteo – ancora l’argento! – che prepara il finale: la bara col cigno e il ritorno del giovane Gottfried, finalmente incoronato.
Con le installazioni artistiche di Paolo Fantin (definirle “scenografie” è veramente riduttivo), il geniale gioco di luci di Alessandro Carletti e i costumi anni Quaranta di Carla Teti – magnifica la sua Ortrud in tailleur e veletta neri! – il Lohengrin di Michieletto diventa uno spettacolo da non perdere. E chi non potrà vederlo dal vivo potrà recuperarlo su RaiPlay.
Nel 2026 cadranno cinquant’anni dalla storica produzione del Ring di Chéreau a Bayreuth. A suo modo, anche questa incursione wagneriana di Michieletto appare come un evento epocale, destinato a rimanere imprescindibile.
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