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Dmitrij Šostakovič, Lady Macbeth del distretto di Mcensk
Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2025
(diretta televisiva)
Šostakovič e il coraggio di un’apertura fuori dal coro
Lady Macbeth del distretto di Mcensk inaugura la Scala con un trionfo: Chailly dirige con lucidità e passione la partitura scandalosa di Šostakovič, sostenuto da una Jakubiak intensa e drammatica. La regia di Barkhatov, ambientata in un ristorante staliniano anni ’50, evita lo scandalo ma non la forza tragica. Un’apertura coraggiosa e simbolica, tra arte e provocazione.
Era una prima attesa con un misto di curiosità e apprensione, quella della Scala: niente Verdi, niente Puccini — ma un russo. E che russo! Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, il genio ribelle del Novecento, torna al Piermarini con Lady Macbeth del distretto di Mcensk, la stessa che nel 1934 infiammò pubblico e critica quale espressione di una rivolta antiborghese: una donna agiata prende coscienza della società zarista e con un servo uccide i suoi padroni.
Ma alla ripresa due anni dopo aveva suscitato l’ira di Stalin che abbandonò la sala durante una sua rappresentazione e in seguito proibì l’opera in quanto «inadatta al popolo sovietico […] caotica, apolitica […] atta a solleticare i gusti pervertiti del pubblico borghese con la sua musica agitata, urlante e nevrastenica». La scabrosità del soggetto turbava i principi su cui si fondava la società sovietica ipotizzata dal suo dittatore e da allora iniziò l’ostracismo della musica del compositore. Solo nel 1962 Šostakovič ne presentò un’edizione revisionata col titolo Katerina Izmailova – un titolo più indicato poiché la protagonista non ha l’iniziativa criminale del personaggio di Shakespeare – ma dopo la sua morte la versione più eseguita è quella originale. Cosa che avviene anche per l’apertura della stagione del tempio milanese della lirica.
E scandalosa, ancora oggi, Lady Macbeth del distretto di Mcensk lo è. Una donna di provincia, Ekaterina, soffocata dall’ozio e dalla noia, scopre nella passione l’unica via di fuga: ama, uccide, si ribella a una società patriarcale e bigotta. Šostakovič la dipinge con furia e compassione, trasformando il delitto in un urlo d’amore disperato. E pensare che Šostakovič aveva attenuato la brutalità della novella di Nikolaj Leskov, scritta nel 1865, che denunciava l’arretratezza e la barbarie di una Russia arcaica e contadina impregnata di religiosità superstiziosa. In musica la vicenda diventa invece un atto di rivolta individuale. Ekaterina è una protofemminista che paga con la rovina la propria libertà: il suo “peccato” è amare troppo.
Ma se la vicenda scandalizza, la musica non è da meno. I tromboni, con spudorata evidenza, sottolineano gli amplessi dei due amanti; valzerini deformati accompagnano momenti di sarcasmo crudele; colpi rabbiosi marcano le frustate inflitte all’amante. L’ironia è feroce, la sensualità mai compiacente. È un linguaggio orchestrale che aggredisce, disturba, ma anche commuove per la sua sincerità tragica.
E se non bastasse l’audacia della partitura, anche la regia prometteva scintille. A firmarla è un altro russo, Vasilij Barkhatov, già noto a Napoli per una Turandot turbolenta. Eppure lo scandalo non è arrivato: la serata si è conclusa tra ovazioni fragorose, trionfali per musica e regia.
Alla sua tredicesima inaugurazione di Sant’Ambrogio, Riccardo Chailly, direttore musicale dal 2015, aggiunge un altro tassello alla sua galleria di inaugurazioni — sette Verdi, tre Puccini, un Giordano e due russi, dopo il Boris Godunov di Musorgskij. Con Lady Macbeth del distretto di Mcensk, Chailly compie una scelta di coraggio e di coerenza: dirige un’opera provocatoria ma piena di dolente umanità, la sua bacchetta lima le asperità senza smussarne la potenza. Gli interludi orchestrali diventano momenti di puro lirismo, con archi luminosi che spalancano abissi di doloroso fatalismo. L’orchestra della Scala risponde con una lucidità tagliente: gli ottoni travolgono, le percussioni esplodono, gli archi gridano, ma nei rari momenti di quiete il suono si fa trasparente, sospeso, come se la violenza stessa generasse la nostalgia di un’altra vita.
C’è anche un gusto di humour nero, à la Šostakovič, che Chailly esalta con eleganza perfida: quando la bara di Boris viene salutata, i fiati — disposti sul mezzanino del ristorante — sembrano formare una banda dell’Esercito della Salvezza che invece di inni religiosi scatenano una furia sonora quasi blasfema. È un crescendo di disperazione che non concede tregua: la musica diventa ossessione, l’angoscia si fa claustrofobica, fino al finale glaciale, quando il coro intona il lamento dei deportati sulle cupe note degli archi gravi: «Eh, voi, steppe sconfinate… giorni e notti senza fine… i nostri pensieri sono tristi e i gendarmi senza cuore!».
Sul palcoscenico, Ekaterina trova in Sara Jakubiak una protagonista memorabile. Il soprano americano di origini polacche domina una parte vocalmente improba — salti d’ottava, puntature al si bemolle, presenza scenica ininterrotta — e disegna un personaggio lacerato tra desiderio e colpa, forza e fragilità. La sua Ekaterina non è una vittima né un mostro, ma una donna che arde d’amore e si consuma nella ricerca di libertà, consapevole che la sua emancipazione non può che finire in distruzione. Il pubblico la premia con applausi convinti, conquistato da un carisma che unisce sensualità e tragedia.
Accanto a lei, Alexander Roslavets dà a Boris Izmajlov — il suocero bigotto e lussurioso — un misto di brutalità e rotondità vocale; Najmiddin Maylyanov (Sergej) convince meno per proiezione, ma compensa con presenza fisica; Evgenij Akimov è l’inetto marito Zinovij, mentre Ekaterina Sannikova è una dolente Aksin’ja, vittima della violenza maschile. Elena Maximova (Sonetka) brilla per sensualità velenosa, e Oleg Budaratskij delinea un capo della polizia annoiato e grottesco. Spiccano le figure di contorno: Valerij Gilmanov, pope caricaturale e alcolico, che benedice il cadavere di Boris con un sermone da cabaret grottesco; Alexander Kravets, contadino ubriaco che canta all’ebrezza della vodka; e Goderedzi Janelidze, il vecchio forzato dell’ultimo atto, che intona con tono dolente la condizione senza scampo dei deportati. Eccellente come sempre il Coro del Teatro alla Scala, istruito da Alberto Malazzi, capace di precisione, forza e intensità teatrale e a suo agio nella lingua russa.
La regia di Vasilij Barkhatov sposta l’azione dal villaggio ottocentesco di Mcensk (a circa 280 chilometri a sud-ovest di Mosca) a un ristorante negli anni ’50 della capitale, nell’ultima fase dello stalinismo. Il suo dispositivo scenico — firmato da Zinovij Margolin — alterna la grande sala da pranzo a un retro di cucina al piano superiore e una cantina in basso. L’azione si svolge come un film noir: i protagonisti, interrogati dalla polizia, rivivono in playback i propri crimini. Un espediente cinematografico che smorza la carnalità della celebre scena d’amore: Katerina e Sergei, completamente vestiti, ricostruiscono la scena mimando i movimenti mentre gli agenti scattano foto. Lo scoglio del pornografico e del voyerismo è evitato rendendo la scena ancora più inquietante, quasi clinica.
Barkhatov dosa abilità tecnica e senso dello spettacolo. L’irruzione di un camion che sfonda la vetrata del ristorante segna il passaggio all’ultimo atto: la deportazione in Siberia. E qui il regista si prende una libertà rispetto al libretto: invece di annegare, le due donne si trasformano in torce umane perché Ekaterina appicca il fuoco a sé stessa e alla rivale. Una soluzione d’effetto, accolta con entusiasmo dal pubblico.
Dopo le provocazioni napoletane, il regista russo al suo debutto alla Scala sembra abbia scelto una via più misurata che non ha turbato neppure il loggione – vabbè, non era Verdi… Niente scandalo gratuito, ma un sottile discorso sul protofemminismo di Katerina, letta come vittima di un mondo chiuso e corrotto. Tuttavia, la regia non è priva di difetti: troppi personaggi in scena, troppe controscene che intasano lo spazio e attenuano il senso di isolamento e noia esistenziale della protagonista. Il ristorante déco, elegante e affollato, riduce l’asfissia che dovrebbe dominare la storia. È una regia intelligente, astuta, visivamente accattivante, ma più “furba” che rivelatrice: non aggiunge molto alla nostra comprensione di Šostakovič, ma accompagna con mestiere l’evento mondano per eccellenza.
Ma la scelta di Lady Macbeth del distretto di Mcensk come titolo d’apertura ha un valore che va oltre la cronaca. In un momento in cui l’opera tende a rassicurare più che a provocare, la Scala rivendica con forza il proprio ruolo di teatro d’arte e di pensiero. Portare in scena Šostakovič significa sfidare le convenzioni, ricordare che l’opera non nasce per decorare, ma per turbare, per scuotere la coscienza, per porre domande scomode. È un atto politico e culturale, un gesto di libertà. E in tempi in cui si parla — con toni inquietanti — di un possibile “codice degli spettacoli” con cui si vorrebbe limitare la rappresentazione di opere straniere, la serata assume un valore simbolico: se mai quella norma dovesse vedere la luce, questa Lady Macbeth potrebbe essere l’ultima inaugurazione scaligera affidata a un autore russo. Chissà che cosa avrebbe da dire a questo proposito l’attuale ministro della cultura presente nel palco reale.
⸪
