Antoine de Saint-Exupéry

Il piccolo principe

Pierangelo Valtinoni, Il piccolo principe

Torino, Piccolo Regio Puccini, 12 gennaio 2024

Il malinconico principe dell’asteroide B-612

C’è chi lo adora, chi lo trova insopportabile. Comunque sia, Le Petit Prince (Il piccolo principe) di Antoine de Saint-Exupéry, pubblicato nell’aprile 1943, è da sempre uno dei libri più venduti con 505 traduzioni in varie lingue – sedici solo quelle in italiano, soprattutto dopo il 2015, anno in cui sono scaduti i diritti di traduzione originali della Bompiani.

Soggetto di innumerevoli spettacoli teatrali, numerosi sono i musicisti che ne hanno fatto un’opera, come il compositore russo Lev Knipper nel 1964, poi Rachel Portman (2003, in inglese), Alberto Caruso (2015), Enrico Melozzi (2017). Infine, nel 2022 viene presentata alla Scala la versione di Pierangelo Valtinoni, uno dei più rappresentati compositori italiani viventi, che dopo la trilogia formata da Pinocchio (2001), La regina delle nevi (2010) e Il Mago di Oz (2016), ha affrontato quest’altro classico della letteratura per ragazzi e adulti. Si tratta della sua settima opera. A marzo a Dortmund andrà in scena la sua ottava: Viaggio sul pianeta 9, tratto da un racconto di Paula Fünfeck, su libretto di Paolo Madron, lo stesso de Il piccolo principe.

Nella vicenda in primo piano sono i temi del viaggio come metafora della formazione e crescita, dell’amicizia e dell’iniziazione, ma anche temi come l’abbandono e la morte.

Il racconto si apre sul ricordo del narratore di quando a sei anni ha deciso di abbandonare una delle sue più grandi passioni, il disegno, e da quel momento si è interessato di aerei fino a diventare un pilota. Ed è allora che inizia a raccontare il suo incontro, durante una panne del suo aereo nel deserto africano, con il Piccolo Principe. Da una frase inaspettata, quanto semplice «Mi disegni, per favore, una pecora?» inizia il loro rapporto. Il piccolo principe racconta la sua storia spiegando al narratore che proviene dall’asteroide B-612 dove possiede una rosa per lui rara, che deve difendere dalla crescita di arbusti grazie alla pecora, appunto. Nei suoi viaggi che ha compiuto per istruirsi, è entrato in contatto con diversi personaggi e ognuno si è distinto per una particolarità. Per primo ha incontrato un re abituato a comandare ai suo sudditi anche se sul suo pianeta ne è il solo abitante. Sul secondo pianeta trova una donna molto vanitosa. Seguono altri pianeti, abitati da strani personaggi, come l’uomo d’affari che conta le stelle come se fossero le sue o un geografo che specula su come sia fatto il suo pianeta. Nel suo viaggiare il Piccolo Principe fa anche la conoscenza di una volpe, che ha addomesticato per poterla riconoscere, ricordare e far sì che diventi la sua unica e rara volpe. Quando è ormai passato un anno, il Piccolo Principe vuole ritornare sul suo piccolo pianeta per prendersi cura della rosa. Per poter lasciare la Terra si fa mordere da un serpente. L’indomani il suo corpo non viene ritrovato, ma ogni volta che il narratore guarda le stelle, si sente vicino all’amico dai capelli biondi e dalla lunga sciarpa.

Questa del Regio torinese è una produzione diversa da quella milanese, totalmente nuova e affidata alla cura musicale di Claudio Fenoglio e alla messa in scena di Luca Valentino, lo stesso team che aveva portato in scena, questa volta nella sala grande, Pinocchio. E il confronto è inevitabile. Il teatro musicale di Valtinoni è improntato alla semplicità comunicativa, la sua musica ha strutture formali armoniche e melodiche di grande trasparenza. Pur non disdegnando modalità armoniche audaci e originali, la sua immediatezza è per essere apprezzata e fatta propria dai fruitori, i bambini. Ma qui fanno tutto le voci bianche del coro del teatro e manca la partecipazione del pubblico dei piccoli. Per di più i temi non hanno quella orecchiabilità che ti faceva uscire dal Pinocchio canticchiandone i temi. I caratteri sono sì connotati da temi musicali, come la delicata melopea associata al protagonista affidata prevalentemente all’arpa, o i particolari colori strumentali, come il glissando del timpano, il pizzicato del contrabbasso e le sonagliere per il serpente, ma non abbastanza da evidenziare univocamente i diversi personaggi.

Strutturato in un Prologo, sette scene e un Epilogo che si succedono senza soluzione di continutà, il lavoro dura poco più di un’ora. Dopo la “trilogia della ricerca”, popolata di personaggi alla ricerca di sé nel mondo, qui Valtinoni punta piuttosto alla introspezione, alla scoperta intima del sé, tramite una vicenda fantastica che ha poco a che fare con l’immaginario infantile: come per il racconto letterario di Saint-Exupéry, saranno maggiormente gli adulti ad apprezzare una partitura che richiama il primo novecento nella raffinata scrittura orchestrale e nel linguaggio tonale e atmosferico messo in luce con sensibilità e gusto dal maestro Claudio Fenoglio a capo della non vasta compagine orchestrale – archi, due flauti, oboe, clarinetto, fagotto, due corni, tromba, percussioni e arpa. Le voci si affidano a un canto di conversazione senza grande varietà ritmica e che privilegia le suggestioni della parola. Solo in un caso, nel personaggio qui femminile della Vanitosa, il canto diventa più complesso, ricco di agilità e colorature atte a mettere in ridicolo il carattere della figura, unico momento ironico di un lavoro prevalentemente venato di melanconia.

Per l’allestimento, come s’è detto, si ricompone il collaudato sodalizio formato dal regista Luca Valentino affiancato dal fidato Claudio Cinelli per le scene e la direzione dei pupazzi animati, e da Laura Viglione per i sempre prestigiosi costumi. Con la stessa semplice eleganza delle illustrazioni originali del libro, per le immagini Valentino sfrutta la tecnica del bunraku giapponese per far muovere i pupazzi da inservienti vestiti di nero che spariscono sul fondo nero, così come era avvenuto per Ciottolino, lo spettacolo su musiche di Luigi Ferrari-Trecate presentato in questa stessa sala. Questa volta però nel nero si aprono squarci illuminati dalle magiche luce di Davide Milani per le scene più realistiche che contrastano così con quelle più fantasiose dove, con grande economia di mezzi – e di budget: siamo ben lontani dalle possibilità del teatro milanese che l’aveva commissionata! – una semplice linea azzurra rappresenta l’orizzonte del minuscolo pianeta, le lucine in alto il firmamento, un aeroplanino di carta il velivolo sui cui troverà tragicamente la morte Antoine de Saint-Exupéry due anni dopo la pubblicazione del libro.

Affascinato dai suoni e dalle immagini, il folto pubblico del Piccolo Regio ha tributato calorosi applausi ai numerosi esecutori: l’orchestra e il coro di voci bianche del teatro, gli allievi delle classi di strumento del Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino, gli allievi delle classi di canto e pianoforte del Conservatorio Vivaldi di Alessandria, gli animatori dei pupazzi (Irene Caroni, Lara Quaglia, Simona Tosco) e ovviamente i bravi solisti in gran parte provenienti dal Regio Ensemble. Ricordiamoli tutti: la voce fresca e luminosa del soprano Amélie Hois (Il piccolo principe) che si alterna nelle recite con Valentina Escobar; il mezzosoprano Ksenia Khubunova (La volpe e Un passante) che si alterna con Martina Baroni; il basso Matteo Mollica (Il pilota); il baritono Francesco Auriemma (Il re, Il serpente e Un passante); il soprano Irina Bogdanova (La madre, Una vanitosa molto Prima Donna e Una rosa); il tenore Paweł Żak (Il padre e L’uomo d’affari) e le voci bianche di Ludovico Rena e Nikita Zappino che si alternano come Il pilota bambino.

P.S. Grazie a Luca Valentino e a Marco Emanuele per le segnalazioni di altre versioni operistiche de Il piccolo principe.

The Little Prince


Rachel Portman, The Little Prince

Alessandria, Cortile di Palazzo Cuttica, 25 maggio 2019

(registrazione video)

E il piccolo principe prese il volo

Tra le location più in dell’estate musicale italiana occorre annoverare anche il cortile di Palazzo Cuttica, sede del Conservatorio di Alessandria:  da quando c’è Scatola Sonora, vi si svolgono spettacoli di grande interesse.

La XXII edizione della rassegna è dedicata quest’anno a due donne compositrici le cui vite sono separate da quasi quattro secoli: Francesca Caccini e Rachel Portman. La prima agli albori del melodramma, la seconda, di oggi, cerca nuove vie per quella gloriosa forma di spettacolo.

Rachel Portman è stata la prima donna a vincere un premio Oscar per la miglior colonna sonora (Emma, 1997), ma la sua carriera conta diversi altri riconoscimenti per il suo stile musicale melodico e romantico e la sua orchestrazione lussureggiante impiegata in numerosi film per il cinema e la televisione.

Presentato alla Houston Grand opera nel 2003, The Little Prince è un’opera per bambini basata sull’intramontabile storia di Antoine de Saint-Exupéry. La struttura episodica del libro è trasformata dal commediografo Nicholas Wright, qui per la prima volta librettista, in un efficace sistema di arie e recitativi, questi ultimi fedeli citazioni del testo originale, mentre nelle arie predomina il messaggio poetico. Il libretto era stato offerto in un primo momento a Philip Glass, ma egli l’aveva ceduto senza esitazioni alla compositrice inglese.

La vicenda inizia con l’incontro tra un pilota di aerei, precipitato nel deserto del Sahara, e un bambino, un principe di un asteroide lontano chiamato B-612. Su questo asteroide vivono soltanto il bambino, tre vulcani e una piccola rosa, molto vanitosa, che lui cura e ama. La storia inizia con la richiesta di un disegno (il principe aveva bisogno di una pecora per farle divorare gli arbusti di baobab cresciuti sul suo pianeta) e con il racconto del piccolo principe che spiega al pilota che ha conosciuto diversi personaggi strani viaggiando nello spazio. Tramite questo viaggio attraverso i luoghi e le persone, il bambino entra in contatto col mondo degli adulti e si stupisce della complessità e dell’artificiosità dei meccanismi e degli atteggiamenti tipici “dei grandi”. Il piccolo principe incontra personaggi controversi, tra cui un vecchio re solitario, che sebbene sia l’unico abitante del pianeta ama dare ordine ai suoi sudditi; un ubriacone che beve per dimenticare la vergogna di bere; un uomo d’affari che trascorre le sue giornate contando le stelle, credendole sue. Quando nel suo viaggio il piccolo principe giunge sulla Terra ne resta stupito per grandezza, varietà e popolazione. Qui incontra, tra gli altri, un serpente, un piccolo fiore, un controllore e una volpe, che gli chiede di essere addomesticata e di essere sua amica. Il pilota e la volpe insegnano al piccolo principe valori importanti e tra di loro nasce un’amicizia. Ma il piccolo principe ha nostalgia di casa e così chiede al serpente, che gli aveva confidato di avere un “dono” speciale, ovvero portare le persone molto lontano, di aiutarlo a tornare sul suo asteroide. Il serpente morde così il bambino, ma il giorno dopo il suo corpo è sparito: così il pilota lo immagina di nuovo sul suo lontano B-612, a prendersi cura della sua amata rosa.

Scritta per una piccola orchestra di 26 elementi, l’opera nella sua semplicità ha la trasparenza e la luminosità dei miraggi del deserto. Ricca invece la compagine vocale: un coro di una quarantina di voci bianche e dieci personaggi. Lo stile della musica ha la stessa semplicità del messaggio scritto e per la caratterizzazione dei personaggi sono utilizzati i diversi timbri degli strumenti: i legni e gli ottoni bassi per la pomposità del re, i flauti soffiano come l’aria tra le ali delle gru, timpani e percussioni annunciano i cacciatori, il serpente ha i suoni della celesta, clarinetto e oboe danno voce alla volpe.

Per catturare per così lungo tempo l’attenzione dei bambini la Portman ha utilizzato una voce bianca, che ha uno speciale fascino, piuttosto che quella di un soprano – l’esempio opposto de L’enfant et les sortilèges dimostra come l’operina di Ravel sia invece destinata a un sofisticato pubblico adulto. Le diverse scene sono organizzate in due atti. Il primo è espositivo e introdotto dal Pilota, il secondo, più breve, narra di come il Principe impari e scelga il suo destino crescendo. La vicenda è molto semplificata rispetto all’originale letterario e ancora di più nello spettacolo di Alessandria per lasciar spazio a uno dei personaggi, il serpente, che aiuta a rendere più comprensibile al pubblico il testo inglese commentando la vicenda in italiano, rompendo però così la continuità musicale.

Nella mancanza di scenografia, nel portico colonnato del cortile gli unici oggetti di scena sono i vari pezzi dell’aereo e poco più. Anche l’orchestra è ridotta a pianoforte, due flauti e quattro archi, diretti da Pilar Bravo. Con la regia di Federica Santambrogio si muovono i tanti personaggi della storia impegnati in canto e danza. Efficaci risultano sia gli adulti (Luca Bruno, Angelica Lapadula, Wang Qui, Lorenzo Medicina, Takuya Suzuki, Matyia Hardzeenka e l’attore Loris Fabiani) sia i tanti ragazzini coinvolti. Esito festoso per tutti.

 

Volo di notte / Il prigioniero

Luigi Dallapiccola, Volo di notte / Il prigioniero

★★★☆☆

Buenos Aires, Teatro Colón, 26 ottobre 2016

(live streaming)

I desaparecidos di Dallapiccola in scena al Colón

Antoine de Saint-Exupéry, l’autore de Le Petit Prince, nel 1931 aveva scritto Vol de nuit, un romanzo ambientato in America Latina dove un aviatore/corriere porta il suo carico su un biplano che finisce in una tempesta durante un volo notturno. Il dramma descrive i rapporti con la sua famiglia, ansiosa per la sua salvezza, e il suo titolare, preoccupato sia per il suo ritorno che per il successo dell’impresa che gli ha affidato. La vicenda rispecchia la passione di Saint-Exupéry per gli aerei, la sua assunzione nell’Aéropostale e ne prevede drammaticamente la morte avvenuta durante una missione di ricognizione in Corsica il 31 luglio 1944.

Ancora in piena guerra Dallapiccola affida a un libretto da lui scritto la sofferenza e il destino individuale in contrapposizione al fascismo: «Io non avrei scelto il libro di Saint-Exupéry e non ci avrei pensato dal 1934 al ’38 se non avessi intravisto un valore universale nella figura di Rivière […]. Il libro, e anche la mia opera, hanno al centro la volontà di un uomo che tende al futuro e quindi Rivière siete voi, sono io, siamo tutti noi che stiamo al di fuori della ‘massa’, di quella massa alla quale oggi si tenta di dare un’importanza preponderante». Le sei scene dell’atto unico condensano in una sola giornata e in un solo luogo, l’aeroporto di Buenos Aires, le vicende del romanzo.

Il direttore di compagnia di navigazione aerea, Rivière, ha istituito i voli notturni per accelerare il traffico postale e, sul far della notte, è in attesa del rientro degli aerei postali dal Cile, dal Paraguay e dalla Patagonia. I primi due fanno ritorno alla base, mentre il pilota del corriere della Patagonia, Fabien, dà notizia dell’avvicinarsi di un uragano. La penuria di carburante e la furia della tempesta gli impediscono di superare le Ande. Via radio, la moglie di Fabien assiste alla lotta senza speranza del pilota contro la forza degli elementi della natura, ponendo a Rivière il problema del sacrificio e del dolore del singolo rispetto all’azione suprema di conquista da lui intrapresa. Benché sconfitto, Rivière non rinuncia ai voli notturni e, quella stessa notte, ordina la partenza del corriere d’Europa. Come dice Rivière, «lo scopo è forse discutibile, ma l’azione libera dalla morte», dal momento che «solo l’avvenimento in cammino ha importanza».

Dieci cantanti e una grande orchestra danno vita a questa espressione lirica. «In Volo di notte il musicista sperimenta un tipo di opera sintetica, concepita come crescendo espresso in un’azione serrata e continua, nella quale sono ridotti al minimo i momenti di stasi lirica e l’organizzazione architettonica del lavoro è determinata da forme chiuse di tipo strumentale che, senza interrompere lo svolgimento del dramma, lo scandiscono nella compenetrazione perfetta dei piani vocali e strumentali, mettendone in piena evidenza i nessi. È il modello desunto dalla drammaturgia di Alban Berg, che in Volo di notte trova chiari parallelismi: nel potere costruttivo affidato al ritmo musicale, quale risulta soprattutto nel ‘pezzo ritmico’ della scena terza, che discende direttamente dalla ‘Monoritmica’ della Lulu berghiana; negli elementi jazzistici del ‘movimento di blues’ della scena prima, ispirati ai passi analoghi del Wozzeck; piuttosto nella matrice strumentale del ‘corale con variazioni’ e ‘finale’ della scena quinta e dell’‘inno’ dell’ultima; fino alla condivisione di tipologie differenziate di sprechgensang, che vanno dal semplice parlato alla declamazione ritmica “con un po’ di suono”, passando attraverso il parlato ritmico e il declamato ritmico “quasi senza timbro”; mezzi sperimentati in modo particolarmente felice nella parte del radiotelegrafista (con una sorta di historicus che rende scenicamente presenti gli eventi che si svolgono al di sopra delle nuvole), il quale legge con partecipazione crescente i messaggi di Fabien nella scena quinta, fino a trasformarsi impercettibilmente nel canto dello stesso Fabien in caduta libera col proprio aereo. L’adesione ai portati della Scuola di Vienna si manifesta inoltre in Volo di notte come approfondimento della tecnica dodecafonica, che nell’opera di Dallapiccola ha una funzione più espressiva che strutturale, dal momento che la serie vi è utilizzata in modo sporadico e con intento ora coloristico, ora melodico, quali momenti cromatici in un contesto dagli accenti ancora lievemente arcaizzanti. Tipica è la cornice seriale nella quale vengono collocati i numerosi materiali motivici desunti dalle Tre laudi, come il tema ‘Altissima visione’, tratto dall’esordio della prima lauda, sottoposto nell’opera a tutte le permutazioni seriali e messo a cornice formale della sua composizione. Spetta a questo motivo dodecafonico mettere in comunicazione due episodi di segno opposto, determinanti per il significato dell’opera: da una parte la caduta mortale dell’aereo di Fabien nel momento in cui il pilota, quasi trasfigurato, scorge le stelle del cielo […] dall’altra il ritorno finale dello sconsolato Rivière al proprio tavolo di lavoro». (Virgilio Bernardoni)

L’opera è andata in scena la prima volta alla Pergola di Firenze il 18 maggio 1940.

Se nel caso di Volo di notte l’individuo è sacrificato per un concetto ideale di dovere, incarnato da Rivière, oltre che dalle forze della natura, ne Il prigioniero l’individuo, prigioniero, resiste al potere rappresentato dal carceriere e dal Grande Inquisitore. Il libretto si basa su due drammi: La torture par l’espérance di Villiers de l’Isle-Adam (1888) e La légende […] d’Ulenspiegel et de Lamme Goedzak […] (1867) di Charles de Coster. Dallapiccola ne compose la partitura tra il 1944 e il 1948, la prima esecuzione ebbe luogo in forma radiofonica il 1º dicembre 1949 in concerto all’Auditorium RAI di Torino e il debutto in forma scenica il 20 maggio 1950 al Teatro Comunale di Firenze.

Seconda metà del XVI secolo. Un prigioniero è detenuto nelle carceri spagnole, al tempo del re Filippo II. Riceve la visita della madre, perseguitata da un incubo, raccontato nel prologo, in cui il re le si presenta nelle vesti della Morte. Il prigioniero ricorda che dopo le torture qualcuno lo ha chiamato fratello, e sembra avere un momento di sollievo. Entra il carceriere, che nuovamente usa la parola fratello, e gli annuncia che la rivolta degli accattoni ha avuto successo. Nel prigioniero rinasce la speranza e il sentimento si rinforza quando scopre che il carceriere è uscito lasciando aperta la porta del carcere. Il prigioniero tenta la fuga, nei corridoi riesce ad evitare due sacerdoti che discorrono tra loro, poi esce in un giardino. Qui viene catturato dal grande Inquisitore, che ha la stessa figura e la stessa voce del carceriere, che lo chiama ancora una volta fratello ma poi dolcemente lo conduce al rogo. «La libertà?», si chiede il prigioniero sussurrando quasi incosciente, dopo avere guardato il rogo ridendo come un pazzo.

Nel 1938 Dallapiccola aveva composto i Canti di prigionia basati su testi di tre famosi prigionieri: Maria Stuarda, Severino Boezio e Girolamo Savonarola, quasi un saggio dell’opera che verrà.

«Il significato dell’opera si risolve così nell’antitesi diretta delle due parole chiave del dramma del prigioniero: “fratello”, la parola dell’inganno e della prigionia nella speranza che il carceriere rivolge al protagonista, e “libertà”, la parola dell’illusione e dell’interrogativo senza risposta sul quale emblematicamente essa si chiude. A queste due parole chiave rimandano alcuni dei materiali musicali fondamentali dell’opera (che Dallapiccola, ormai orientato verso una piena adozione della tecnica dodecafonica, distingue in serie dodecafoniche complete e combinazioni dodecafoniche variate); la ‘serie della speranza’, cantata dal prigioniero nel racconto alla madre e la ‘serie della libertà’ che, insieme alla «’serie della preghiera’ sulle parole “Signore aiutami a camminare”, hanno funzione di motivi conduttori; e il tema “fratello”, la combinazioni dodecafonica che nello stridore della sua stessa struttura compendia il problema centrale dell’opera. È dalle relazioni che il musicista instaura tra questi materiali ‘neutri e nello stesso tempo polivalenti’, che la composizione del Prigioniero si configura come un lavoro di frammentazione e combinazione dei motivi seriali, orientato a creare una catena continua di associazioni di tipo simbolico. Agli occhi di Dallapiccola, infatti, la dodecafonia non si configurava come un codice e un sistema, ma come un’esperienza espressiva puramente interiore, con la quale egli non esita a fondere criteri tonali, stile mottettistico e serialità, in una musica che si fa sempre più concentrata ed essenziale, memore delle scoperte di Anton Webern». (Virgilio Bernardoni)

Alle tre opere di Dallapiccola (Volo di notte, Il prigioniero, Ulisse) Massimo Mila ha dedicato pagine illuminanti ora raccolte ne I costumi della Traviata, Milano 1992.

Le madri dei desaparecidos, le acque del Río de la Plata in cui venivano gettati i dissidenti nei “voli della morte”, le torture della polizia: una rappresentazione al Colón di Buenos Aires di queste due opere non può non fare riferimento ai tragici giorni vissuti dall’Argentina sotto la dittatura militare. E infatti il regista Michał Znaniecki legge in questi termini la seconda opera di questo dittico. La Madre de Il prigioniero è una delle tante “madres de la plaza de Mayo” che fin dal 30 aprile 1977 hanno inscenato la loro manifestazione pacifica davanti alla Casa Rosada per denunciare la sparizione dei figli. Nel prologo alla fine del suo monologo la Madre è portata via come avvenne per Azucena Villafior de Vincenti, arrestata e detenuta in una prigione segreta dopo la manifestazione del 10 dicembre di quell’anno.

La lurida cella con le piastrelle lorde di sangue è anche la stanza della tortura, un cubo che ruota di cui vediamo sia l’interno sia l’esterno. Il carceriere controlla il prigioniero dai video della sua guardiola, la stessa dell’aeroporto del Volo di notte. I cadaveri di giovani vengono portati via e i loro documenti distrutti mentre acrobati appesi a corde rappresentano angeli della morte che gettano in mare i corpi. Nel finale dopo la presa di coscienza del Prigioniero («S’è fatta luce! Vedo! Vedo! | La speranza… l’ultima tortura… | Di quante mai sofferte, la più atroce… ») sul palcoscenico si uniscono ai carcerieri persone comuni in abiti contemporanei. Siamo noi, testimoni muti e impotenti degli orrori dei nostri giorni. La violenza esplicita, impensabile nelle messe in scena del passato, oggi è appena sufficiente a colpirci e su questo punta il regista.

Le stesse strutture laterali erano state utilizzate per il Volo di Notte, qui collegate da una rete che separa il pubblico dagli ufficiali della base aerea immersa nella notte. Allievo di Umberto Eco, il regista polacco vede il lavoro come un’“opera aperta” che deve correlarsi alla storia dell’Argentina.

La ricca orchestrazione e i volumi sonori del primo lavoro e i suoni più rarefatti del secondo trovano nel direttore Christian Baldini un solido interprete. Efficaci i cantanti, poco conosciuti alle nostre latitudini: Victor Torres (Rivière), Daniela Tabernig (Simona Fabien), Leonardo De Estévez (Prigioniero), Fernando Chalabe (carceriere) e Adriana Mastrángelo (la Madre).