Eugène Labiche

Il cappello di paglia di Firenze

Nino Rota, Il cappello di paglia di Firenze

Genova, Teatro Carlo Felice, 15 dicembre 2024

★★★★★

La folle journée di Nino Rota

«Giovane regista» è la locuzione con cui nel novembre 2007 veniva definito Damiano Michieletto in occasione del suo allestimento de Il cappello di paglia di Firenze al Teatro Carlo Felice di Genova. Pochi mesi prima al Rossini Opera Festival di Pesaro era andata in scena La gazza ladra, che gli valse il prestigioso Premio Franco Abbiati ed era stata la conferma del suo originale talento dopo la partecipazione, sempre al ROF, nel 2004 con Il trionfo delle belle di Stefano Pavesi – opera del 1809 che ispirerà la rossiniana Matilde di Shabran. Il debutto di Michieletto era però avvenuto nel 2003 al Festival di Wexford con Švanda dudák (Svanda il pifferaio), l’opera di Jaromír Weinberger. Insomma, una scelta di titoli ben poco convenzionali per il neanche trentenne regista di Scorzè (Venezia).

L’opera di Nino Rota è andata in scena alla Scala lo scorso settembre e in quella occasione scrivevo: «una serata tutt’altro che memorabile che però accende la curiosità per quello che saprà fare Michieletto». La risposta si può così sintetizzare: Genova batte Milano 1-0! Non tanto per il fatto che alla Scala l’esecuzione sia stata affidata agli allievi dell’Accademia di perfezionamento per cantanti lirici del teatro mentre qui al Carlo Felice sono in scena affermati professionisti, e neppure per la direzione orchestrale, eccellente in entrambi in casi, quanto per la messa in scena, che si fa fatica pensare abbia tutti quegli anni vista la freschezza e l’ingegnosità dell’allestimento che viene riproposto con pochissimi cambiamenti.

Michieletto imprime alla vicenda un ritmo cronometrico e sceglie un’ambientazione che non è quella della pochade di Labiche (1851) né quella della composizione di Rota (1945), bensì i colorati anni ’60 del secolo scorso, con i costumi disegnati dalla solita bravissima Silvia Aymonino. La stilizzatissima scenografia di Paolo Fantin è ingegnosa nella sua incredibile semplicità: sei pannelli uguali, ognuno con due porte, che, mossi per lo più a vista, formano i vari ambienti previsti dalla vicenda. Sono montati su una base girevole – 17 anni fa ancora non erano inflazionate le piattaforme rotanti… – ma, ed ecco il tocco geniale, su un piano inclinato, che rende surrealmente sbilenca e instabile la vicenda di nascondimenti e corse a perdifiato. Il tutto forma una scatola bianca sul fondo totalmente nero del palcoscenico, dove il bianco è spezzato dal rosso acceso del divano della baronessa di Champigny, delle poltroncine della casa di Anaide e del suo outfit, del telo spugna del malcapitato Beaupertuis, delle lenzuola del letto che aspetta inutilmente lo sposo.

Mentre la scena gira inesorabilmente, tutti corrono da una porta all’altra – e sono ben dodici! – , da una casa all’altra, da una piazza all’altra di una Parigi che non è solo sfondo ma quasi protagonista. Corre il suocero con le sue scarpe strette e il suo alberello d’arancio che ad ogni giro perde qualche foglia fino a ridursi a un alberello scheletrico salvo rifiorire per miracolo quando i due sposi finalmente si ritrovano soli alla fine di questa folle giornata. E corrono i poveri ospiti del corteo nuziale («Tutta Parigi noi giriam | lieti e felici siam») sempre più spossati e fradici per l’acquazzone («Tutta Parigi noi giriam | stanchi, sfiniti, morti siam»). Il momento del temporale diventa un quadro di Magritte quando dall’alto “piovono” ombrelli mentre le luci, magnifiche, di Luciano Novelli perdono ogni connotazione realistica per inondare la scena di blu o di verde.

Alla testa dell’Orchestra del teatro, particolarmente vivace e pronta, Giampaolo Bisanti mette in luce la frizzante partitura, glorioso pastiche di citazioni che spaziano da Rossini a Wagner a Ravel al jazz e che accompagnano o sottolineano i versi di un libretto che qui sembra più arguto e scoppiettante di quanto fosse sembrato mesi fa, grazie anche a interpreti che oltre che grandi cantanti si rivelano animali da palcoscenico per la loro inappuntabile presenza scenica. Primo fra tutti, ovviamente, Paolo Bordogna che costruisce il personaggio di Beaupertuis, il marito geloso e scimunito, con tocchi di grande eleganza dove ogni mossa, ogni inflessione della voce pur se attentamente studiata nasce con naturalezza e con un grande senso del comico. Prima ancora era stato il militare Emilio. Canto e recitazione qui sono un tutt’unico inscindibile e di livello eccelso. Per presenza scenica e auto-ironia si impone la presenza di Sonia Ganassi, iconica Baronessa di Champigny mentre altrettanto iconico si dimostra Blagoj Nacoski, flamboyant Achille di Rosalba con annesso cagnolino e poi stralunata Guardia.

Il puro belcanto lo troviamo nella voce di Marco Ciaponi, tenore che ad ogni sua performance conferma le doti di bellezza di timbro e fraseggio già ammirate come Elvino, Des Grieux e Beppe/Arlecchino e col le quali il cantante lucchese risolve le esigenze vocali della parte non facile di Fadinard. Benedetta Torre è la sposina timida che si esprime come un’eroina romantica («Trema nell’estasi d’amor | il cuor beato!») e di Donizetti assume lo stile tutto trilli e volatine. Il suocero, che punteggia i suoi interventi con il tormentone «Tutto a monte!», ha la compostezza, eleganza e magnificenza vocale di Nicola Ulivieri, un Nonancourt di gran lusso. La proprietaria del cappello eponimo, Anaide, trova in Giulia Bolcato felice presenza scenica e vocale. Folto il gruppo dei personaggi secondari con Didier Pieri, lo zio Vezinet sordo ma deus ex machina col suo provvidenziale regalo; Gianluca Moro, il domestico Felice: Franco Rios Castro, il vivace Caporale delle guardie; Marika Colasanto, la modista. Divertito e divertente il coro del teatro istruito da Claudio Marino Moretti. 

A Genova nel 2007 le poche rappresentazioni previste si ridussero ancora a causa di uno sciopero alla prima: ha fatto benissimo il teatro a riprendere quella felice produzione e lo dimostra il successo, meritatissimo, che ha avuto lo spettacolo. Ahimè, solo due le repliche dopo la prima.

Il cappello di paglia di Firenze

foto © Brescia e Amisano

Nino Rota, Il cappello di paglia di Firenze

Milano, Teatro alla Scala, 14 settembre 2024

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Cosa rara: una farsa italiana del ‘900

Nino Rota non è più considerato solo come autore di musiche per film (Fellini, Visconti, Scorsese…), ma è stato rivalutato come uno dei compositori italiani della seconda metà del Novecento. Autore di molta musica da camera, vocale e per orchestra, ha al suo attivo anche una decina di opere per il teatro. Quest’anno al Festival della Valle d’Itria è stato recuperato il suo Aladino e la lampada magica, alla Scala ritorna invece Il cappello di paglia di Firenze, 26 anni dopo la felice produzione di Pier Luigi Pizzi con un giovane baffuto Juan Diego Flórez, spettacolo registrato dalla televisione italiana e disponibile su youtube. Prima ancora, nel 1958, c’era stata la storica produzione di Strehler, tre anni dopo la prima palermitana.

Scritto per divertimento nel 1945, Il cappello di paglia di Firenze si proponeva a un pubblico che aveva voglia di svagarsi dopo cinque lunghi anni di guerra in un’Italia dai gusti semplici che si divertiva alle ingenue rime del libretto e alla sequenza di musiche orecchiabili. La storia è quella raccontata nel vaudeville di Eugène Labiche e Marc-Michel Un chapeau de paille d’Italie del 1851. Che la vicenda di cappelli, calessi e nobildonne fedifraghe potesse interessare un pubblico di un secolo dopo stremato dalle privazioni e dalle tragedie è comprensibile, non so quanto ancora possa interessare il pubblico di oggi. Ma probabilmente mi sbaglio: lo spettacolo sta ottenendo un buon successo e persino un regista come Damiano Michieletto riproporrà la sua vecchia versione fra pochi mesi al Teatro Carlo Felice di Genova!

Il vaudeville di Labiche era stato portato al cinema nel 1928 in un film muto di René Clair che aveva esaltato la frenesia della vicenda in cui Fadinard, un giovane benestante sul punto di sposare Hélène Nonencourt, quando sta per raggiungere lei e gli invitati in un calesse il suo cavallo mangia accidentalmente il cappello di paglia di Madame Beaupertuis, appartata in un boschetto del Bois de Vincennes con il tenente Émile Tavernier. Scoperti, i due amanti impongono a Fadinard di trovare immediatamente un sostituto al cappello perché il marito è particolarmente geloso. Inizia così una giornata convulsa in cui il giovane cerca di recuperare un cappello uguale per evitare che il marito scopra la tresca della moglie. Fadinard si reca dunque prima da una modista che non riesce a soddisfare la sua richiesta, ma che gli dà l’indirizzo della baronessa di Champigny, la quale ha appena comprato lo stesso cappello. Poi, dopo essersi sposato, si reca alla villa della baronessa a Passy, dove viene scambiato per un violinista che deve esibirsi in un concerto privato. Anche gli invitati alla festa di nozze arrivano alla villa, convinti che si tratti del ristorante dove si terrà il pranzo di nozze. Dopo varie peripezie, che includono anche un passaggio in prigione, alla fine tutto si risolverà per il meglio.

Il testo di Labiche viene adattato a libretto dal compositore stesso e dalla madre Ernesta Rinaldi. Molti personaggi della pièce originale vengono eliminati, i cinque atti ridotti a quattro – il secondo atto di Labiche diventa l’Intermezzo I nell’opera di Rota –, ma lo spirito del lavoro viene fedelmente conservato anche se in un libretto di mediocre qualità, con rime ingenue dove “balordo” rima con “sordo”, “Minardi” con “tardi”, “guancial” con “stral” e “guanti di Svezia” – in originale “gants de suède”, ossia scamosciati – con “inezia”. 

La partitura è una parodia di disparati linguaggi musicali ed è tutta scritta à la manière de: l’ouverture ammicca a Mozart, i concertati e i crescendi a Rossini, i gorgheggi di Elena al belcanto donizettiano, il temporale addirittura alla Walchiria di Wagner, mentre nei fiati si sente Stravinskij. E ovviamente non mancano le musiche per film, soprattutto da Il birichino di papà. È un continuo mimare stili, accostare idee diverse una dopo l’altra senza però svilupparle o approfondirle. I personaggi sono bidimensionali, la caratterizzazione sommaria e non suscitano una particolare empatia.

Il compito di dar vita a questa musica piacevole, ma anche superficiale, è nelle mani di un esperto quale Donato Renzetti, che esalta la leggerezza e vivacità della partitura con suoni trasparenti e ritmi precisi a capo dell’ottima orchestra e coro dell’Accademia Teatro alla Scala. Anche i giovani interpreti sono allievi, provengono infatti dall’Accademia di perfezionamento per cantanti lirici del teatro e si alternano nelle diverse recite. Sono tutti preparati e più o meno carismatici. Il 14 settembre è Andrea Tanzillo l’infaticabile Faninard: brillante vocalmente e ottimo attore, qualche acuto non perfettamente a fuoco non compromette una performance caldamente applaudita dal pubblico. L’Elena di Maria Martín Campos è sicura e spigliata; l’Anaide di Greta Doveri ha un bel timbro sensuale adatto alla parte della moglie infedele; giustamente manierata la baronessa di Champigny di Dilan Saka; lo spassoso zio Véziner di Paolo Antonio Nevi è il personaggio che salva la situazione essendo il cappello tanto bramato nel suo pacco regalo. Folta è la schiera di cantanti provenienti dall’estremo oriente: Xhieldo Hyseni è il suocero Nonancourt che ripete allo sfinimento il suo mantra «Tutto a monte!»; Wonjun Jo è Emilio; Haiyang Guo Felice; Tianxuefei Sun Achille di Rosalba e Guardia; Fan Zhou la Modista. Tutti superano la barriera linguistica con efficienza dimostrandosi ottimi attori.

Per la sua messa in scena Mario Acampa ricorre a una trovata tutt’altro che inedita: «Ho trasposto l’azione al 1955, anno in cui debuttò l’opera», scrive il regista, «e ho immaginato che il protagonista fosse un addetto alle pulizie di un cappellificio francese, la “Chapellerie E. Rota & fils”. Durante l’ouverture mostro una giornata tipo di Fadinard, un uomo alla base della scala sociale, maltrattato dagli operai della fabbrica e infine picchiato da un cliente. Un pugno fatale gli fa battere la testa e da quel momento inizia il sogno. Quello che avviene nel corso dell’ouverture si svolge nella dimensione della realtà ed è di mia invenzione, il seguito è esattamente quello che è scritto nel libretto, ma letto nell’ottica del sogno di Fadinard. Un elemento concettuale importante è che l’artefice del sogno è la modista, la titolare della fabbrica, e nella mia visione si chiama Ernesta, proprio come la madre del compositore. Lei, come un deus ex machina, farà muovere i personaggi che interagiscono con il protagonista per rendergli la vita impossibile». Un espediente non proprio necessario per animare una vicenda già complicata di sé, in cui la regia lavora per accumulo di controscene e gag che finiscono per distrarre l’attenzione. La scenografia di Riccardo Sgaramella ricorre – che grande novità! – a una piattaforma girevole con una struttura architettonica che ruotando forma i diversi ambienti in cui si sviluppa l’azione. La rotazione rende bene il ritmo da capogiro della vicenda, ma confonde anche abbastanza le idee dello spettatore, che deve riconoscere con prontezza nel vorticare della stessa la casa di Fadinard (atto I), il negozio della modista (Intermezzo I), la villa della baronessa di Champigny (atto II), la casa di Beaupertuis (atto III) o la piazza immersa nella notte (atto IV). Lo horror vacui del regista porta a mimare dietro una finestra quello che racconta il personaggio al proscenio ottenendo l’effetto di chi spiega una barzelletta e ne sminuisce così l’effetto comico. Le coreografie di Anna Olkhovava non si distinguono per necessità e originalità e i costumi Chiara Amaltea Ciarelli mescolano con eccessiva disinvoltura epoche differenti. Efficace è invece il gioco luci di Andrea Giretti.

Insomma, una serata tutt’altro che memorabile che però accende la curiosità per quello che saprà fare Michieletto a dicembre di questa farsa italiana un po’ datata nel testo e nella musica.