Giambattista Basile

Re Chicchinella

Re Chicchinella

Testo, regia e costumi di Emma Dante

Torino, Teatro Carignano, 8 aprile 2025

La gallina del re: fiaba nera alla corte di Emma Dante

Il giorno dopo la triste notizia della scomparsa di Roberto de Simone – che della immaginifica lingua napoletana de Lo cunto de li cunte aveva fatto una preziosa traduzione in italiano, per non parlare del suo indimenticabile spettacolo La gatta Cenerentola tratto dalla stessa raccolta – Emma Dante con Re Chicchinella al Teatro Carignano per la stagione dello Stabile di Torino, completa la trilogia sulle fiabe barocche di Giambattista Basile.

Come con La scortecata e Pupo di zucchero, il lavoro della regista non è una semplice trasposizione scenica e drammaturgica del testo letterario, ma diventa fonte di ispirazione e di rielaborazione attraverso il profondo filtro della sua poetica. La fiaba grottesca e crudele è quella del libro quinto di questo “trattenemiento de le peccerille”, come definisce Basile il suo Pentamerone: ne “La papara” «Lilla e Lolla accattano na papara a lo mercato che le cacava denare», ma una comare gliela chiedo in prestito e poi la getta dalla finestra, ma quella «s’attacca allo tafanario di un principe mentre faceva de lo cuorpo» e nessuno riesce a staccarla di là se non Lolla, e per questo il principe se la sposa.

Nella elaborazione della Dante il principe diventa nientemeno che il Re di Napoli che commette l’insolito errore di utilizzare una gallina, apparentemente morta, per pulirsi le terga dopo le bisogna. La gallina, tutt’altro che defunta, risale le interiora del sovrano e vi si stabilisce dentro, divorando tutto quello che il re mangia, e portando il sovrano a espellere uova d’oro. Questo ci viene raccontato dal protagonista stesso diventato per tutti Re Chicchinella che decide di digiunare fino a morire di fame per liberarsi dal tormento. Ma non ha previsto la voracità della sua corte, che inventa diverse, sublimi tentazioni culinarie per convincere il monarca e riportarlo a mangiare per avere le uova d’oro.

Non ci sono scenografie pre-installate in questa produzione di Emma Dante dove il marito Carmine Maringola è impegnato come attore protagonista dalla recitazione di una fisicità assoluta. In scena ci sono solo 15 attori in uno spazio vuoto dove domina il nero, all’inizio il buio cupo. L’attenzione è tutta rivolta sugli attori che si presentano in gruppo, con una maschera da gallina, con il classico verso e i movimenti a scatti della testa. E in abiti da lutto. Gli stessi che vedremo alla fine attorno al catafalco del re defunto e rimpiazzato da una gallina, vera. Le uova d’oro sono salve.

La scena si riempie spesso di piume svolazzanti e i cortigiani, che hanno cosce gonfie come quelle delle pollastrelle, ricordano le ballerine delle Folies Bergères. Anche il re ha una gonna nera sotto cui si nasconde come uno struzzo impaurito e assume la postura diritta solo nel momento in cui gli viene ricordato il suo ruolo quale Carlo I D’Angiò. I servi allora gli gettano addosso un mantello e gli porgono una corona, con una vestizione tipicamente marionettistica e movenze da Pupi siciliani, elemento quasi immancabile negli spettacoli della regista palermitana che mescola parole e pietanze napoletane e siciliane.

La performance corale si avvale di attori giovani e meno giovani, tutti forgiati alla scuola della Dante, ma è lo straordinario Maringola a ricevere giustamente gli applausi più insistiti da un pubblico folto e piacevolmente divertito.

Pupo di zucchero

Pupo di zucchero. La festa dei morti

Testo, regia e costumi di Emma Dante

Torino, Teatro Carignano, 9 novembre 2021

«Il 2 novembre è l’unico iuorno ca ce sta nu poco de vita dinta a sta casa»

Così dice «’o viecchio ’nzenziglio e spetacchiato» che prepara il pupo di zucchero, una pietanza tradizionale: con acqua, farina e zucchero impasta «l’esca pe li pesci de lo cielo», una statuetta antropomorfa dipinta con colori vivaci. Secondo la tradizione siciliana “u pupo di zuccaru” raffigura le anime dei defunti e viene consumato in un momento di simbolica patrofagia.

In attesa che l’impasto lieviti, l’uomo richiama alla memoria i defunti della sua famiglia e la casa si riempie di ricordi e di vita: la vecchia mamma francese, il giovane padre disperso in mare, le sorelle Rosa, Primula e Viola («tre ciuri c’addorano ‘e primmavera»), l’amico spagnolo Pedro, zio Antonio e zia Rita che «s’abboffavano ‘e mazzate», il figlio adottivo Pasqualino. La stanza diventa una sala da ballo dove i morti, ritrovando le loro abitudini, festeggiano la vita.

Il lavoro della Dante è ispirato ancora una volta alla struttura linguistica e narrativa de Lo cunto de li cunti del Basile, com’era stato per La scortecata, utilizzando un napoletano poetico e verace e immagini di enorme suggestione teatrale. Alla fine le ipercinetiche figure evocate nelle loro sembianze giovanili tornano nei loro corpi mummificati – come quelli delle Catacombe dei Cappuccini di Palermo – qui realizzati dalle sculture di Cesare Inzerillo e compongono una specie di altare. La festa dei morti è finita. I morti ritornano morti.

Magnifici i dieci attori: Carmine Maringola (il vecchio), Nancy Trabona (Rosa), Maria Sgro (Viola), Federica Greco (Primula), Sandro Maria Campagna (Pedro), Giuseppe Lino (papà), Stephanie Taillandier (mammina), Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout (Pasqualino), Martina Caracappa (zia Rita), Valter Sarzi Sartori (zio Antonio).

La scortecata

Giambattita Basile, La scortecata

Regia, scenografia e costumi di Emma Dante

Teatro Gobetti, Torino, 22 dicembre 2018

Scorticata in cerca di bellezza

«S’erano raccorete drinto a no giardino dove aveva l’affacciata lo re de Rocca Forte doi vecchierelle, ch’erano lo reassunto de le desgrazie, lo protocuollo de li scurce, lo libro maggiore de la bruttezza».

Così inizia il decimo racconto della prima delle cinque giornate che compongono Lo cunto de li cunti, raccolta di cinquanta fiabe di origine popolare trascritte da Giambattista Basile e pubblicate nel 1634-36.

«Il re di Roccaforte s’innamora della voce della più anziana di due sorelle vecchie e brutte che vivono rintanate in un “basso” sotto le sue finestre. E quella che per impedire che scopra quanto sia repellente gli ha mostrato solo un dito adeguatamente succhiato per farlo ridiventare liscio, finisce, sì, a letto col re, ma al buio. Di modo che, quando al mattino il re s’accorge dell’inganno, fa gettar giù dalla finestra la vecchia, che rimane appesa ai rami di un albero. E passate di lì certe fate che l’hanno trasformata in una bellissima ragazza e andata sposa al re, racconta alla sorella minore che la sua trasformazione l’ha ottenuta facendosi scorticare. Sicché la sorella minore, invidiosa, corre da un barbiere affinché, col rasoio, le tiri via dal corpo tutta la pelle avvizzita. E, naturalmente, ci resta secca». Così si riassume la vicenda che nella lettura di Emma Dante diventa la commedia inscenata dalle due centenarie ogni giorno per illudere il tempo e cercare un riscatto per quanto effimero dalla miseria a cui sono condannate.

Sul palcoscenico solo due figure, i bravissimi Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola. Nato a Spoleto l’anno scorso, l’intenso spettacolo gioca con la lingua napoletana barocca, coi corpi dei due attori e con le note struggenti delle eterne canzoni napoletane.

La gatta Cenerentola

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★★★★☆

Esattamente 40 anni fa

Il 7 luglio 1976 al Festival dei due Mondi di Spoleto, alla sua XIX edizione, la Nuova Compagnia di Canto Popolare metteva in scena il lavoro di Roberto de Simone tratto dalla fiaba La gatta cennerentola, “tratteniemento siesto” della prima giornata de Lo cunto de li cunti (1634), “Pentamerone” scritto in napoletano da Giambattista Basile. La prima raccolta a stampa di fiabe del mondo occidentale, 50 anni prima di Perrault e 180 anni prima dei fratelli Grimm.

Come la Zezolla del Basile, anche nell’opera di de Simone Cenerentola è un personaggio completamente diverso da quello edulcorato cui siamo abituati, visto che «’nmezzata de la maiestra ad accidere la matreia e credenno co farele avere lo patre pe marito d’essere tenuta cara, è posta a la cucina”, istigata cioè dalla sua maestra di ricamo uccide la matrigna così che il padre possa sposare quella, che però, irriconoscente, la relega in cucina come una gatta, anche se poi «pe vertute de le fate, dapò varie fortune se guadagna no re pe marito». In de Simone la maestra non c’è e Cenerentola cerca, senza riuscirci, di far fuori la matrigna vedova di sette mariti e madre di sei sorellastre invidiose. Il compositore/librettista aggiunge diversi personaggi non presenti nella fiaba, come le lavandaie, il munaciello o i femmenielli.

Cenerentola vive con la matrigna e le sue sei sorellastre. La matrigna si è sposata ed è rimasta vedova sette volte e ha avuto una figlia da ogni marito tranne che dall’ultimo, che già era padre di Cenerentola. Dato che Cenerentola è l’unica a essere sua figliastra, la matrigna la tratta da serva pur vantandosi di averle sempre dato tutto il necessario. Cenerentola stanca di essere maltrattata cerca di uccidere la matrigna schiacciandole la testa nel baule, ma non ci riesce e nega di averci provato. La matrigna e le sue figlie si preparano per la festa che quella sera ci sarà al palazzo del re e il loro cattivo carattere rende le cose impossibili a Cenerentola, alla parrucchiera e alla sarta. La matrigna è sicura che la sua figlia maggiore sarà tanto bella quella sera da far innamorare il re e diventare regina, anche se in realtà nessuna delle sue figlie può dirsi minimamente graziosa (sono interpretate tutte da uomini) pur essendo tutte superbe e vanitose. Cenerentola vuole andare al ballo, ma viene derisa dalla matrigna e dalla maggiore delle sorelle. Dopo che se ne sono andate tutte Cenerentola si mette a pregare e viene in suo aiuto il monaciello, spirito invisibile che la spinge a non abbandonare il proposito di andare al ballo e che le suggerisce di prendere la pianta di datteri che il padre le aveva portato dalla Sardegna: la pianta gli era stata data da una fata e una colomba ogni notte controlla come Cenerentola se ne prende cura. Recitando la formula magica alla pianta Cenerentola potrà andare al ballo. La festa al palazzo comincia, e arriva anche Cenerentola. Balla con il re che si innamora di lei, ma lei se ne va senza rivelare la sua identità. Questo si ripete per altre due sere, e ogni volta Cenerentola appare con abiti sempre più sontuosi. La terza sera Cenerentola riesce a lasciare il ballo nonostante i servitori del re cerchino di impedirglielo, ma nello scappare perde uno dei suoi stivaletti d’oro. Il re vuole ritrovare la presunta principessa, e proclama che sposerà la ragazza che riuscirà a calzare lo stivaletto. La faccenda scatena le chiacchiere e la curiosità di tutti, ma Cenerentola finge di non sapere niente quando altri ne parlano. La gente di Napoli, che si ritrova governata da una corte straniera, sarebbe felice che la futura regina fosse una di loro. Quando lo stivaletto da provare arriva a casa di Cenerentola si scatena una lite tra la matrigna (che dichiara che è stata sua figlia a perdere lo stivaletto) e le lavandaie che la disprezzano. Cenerentola invece non vuole neanche scendere a provarla, ma le lavandaie insistono: alla fine lo stivaletto le calza alla perfezione, e Cenerentola viene proclamata regina della città.

Da un punto di vista musicale La gatta Cenerentola è un sapiente impasto di musica popolare (villanelle, moresche, tammurriate) e musica colta, ma è anche un compendio di culture di tempi e luoghi diversissimi – che cosa è infatti l’iniziale «jesce sole» se non un rāga indiano con le sue ipnotiche ripetizioni infinitesimamente variate?

Il testo è in lingua napoletana, un napoletano quasi senza tempo, una lingua che in certi strati della popolazione è rimasta immutata nei secoli. La grande protagonista è la città di Napoli, città figliastra, vittima del potere di una matrigna perversa e di occupanti stranieri. Una città «addo’ ‘o sabbato ponno asci’ tre nummere | e chi tene ‘mmano ‘a rota ‘e stu juoco | te fa credere ‘nfino ca si stato furtunato…».

De Simone con la sua Nuova Compagnia di Canto Popolare non solo aveva rinnovato gli stilemi della canzone napoletana, ma da profondo conoscitore del melodramma napoletano del ‘700  e dell’opera buffa aveva fatto di questo suo lavoro un unicum che non aveva e non avrebbe avuto uguali. «Quando cominciai a pensare a La gatta Cenerentola pensai spontaneamente ad un melodramma: un melodramma nuovo e antico nello stesso tempo come nuove e antiche sono le favole nel momento in cui si raccontano. Un melodramma come favola dove si canta per parlare e si parla per cantare o come favola di un melodramma dove tutti capiscono anche ciò che non si capisce solo a parole. E allora quali parole da rivestire di suoni o suoni da rivestire di parole magari senza parole? Quelle di un modo di parlare diverso da quello usato per vendere carne in scatola e perciò quelle di un mondo diverso dove tutte le lingue sono una e le parole e le frasi sono le esperienze di una storia di paure, di amore e di odio, di violenze fatte e subite allo stesso modo da tutti. Quelle di un altro modo di parlare, non con la grammatica e il vocabolario, ma con gli oggetti del lavoro di tutti i giorni, con i gesti ripetuti dalle stesse persone per mille anni così come nascere, fare l’amore, morire, nel senso di una gioia, di una paura, di una maledizione, di una fatica o di un gioco come il sole e la luna fanno, hanno fatto e faranno». (Roberto de Simone)

La prima versione si avvaleva della presenza di attori/cantanti come Peppe Barra, Isa Danieli, Concetta Barra e tanti altri riuniti insieme a creare un’unica e stupefacente coralità con l’orchestra diretta da Antonio Sinagra. Le scene di Mauro Carosi riproducevano il bellissimo Palazzo dello Spagnuolo sito ai Vergini, zona emblematica della città, mentre i sontuosi costumi di Odette Nicoletti ricostruivano con fantasia l’epoca. L’edizione fu pubblicata in LP e successivamente in CD. Video di questa edizione non sono mai stati pubblicati.

Negli anni seguenti l’opera è stata riproposta più volte, con un cast rinnovato e qualche variante al testo. Nessuna però ha ricreato l’impatto e il fragoroso successo dell’originale. L’edizione curata dalla compagnia Media Aetas con il soprano Maria Grazia Schiavo e l’attore Rino Marcelli nel ruolo della matrigna e diretta dal maestro Domenico Virgili, è stata proposta nel 1997 ed è stata pubblicata in questo video con l’invasiva regia  televisiva di Rita Ortese de Stefano. Non ha la fresca immediatezza della rappresentazione dal vivo, ma è l’unica testimonianza video disponibile di questo importante lavoro.