Ondes Martenot

Saint François d’Assise

foto © Carole Parodi

Olivier Messiaen, Saint François d’Assise

Ginevra, Grand Théâtre, 16 aprile

★★★★☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

San Francesco predica nella città di Calvino

Due erano le preoccupazioni maggiori di Olivier Messiaen: la fede cattolica e la passione per l’ornitologia. Con Saint François d’Assise, la sua unica opera, il compositore avignonese le coniuga entrambe. Avrebbe voluto nientemeno Gesù Cristo come protagonista, ma si dovette accontentare del santo a lui più vicino, quel Giovanni di Pietro Bernardone che in un certo momento della sua vita aveva abbandonato la famiglia, le ricchezze e le bravate della gioventù per la povertà assoluta diventando il Santo d’Assisi. 

Su libretto proprio – come faceva Wagner… – nel suo lavoro Messiaen pone al centro la predica agli uccelli: è il quadro sesto, il più lungo di otto quadri suddivisi in tre atti. L’azione drammatica e i tempi teatrali non sono al primo posto nella sua concezione: ben poco succede sulla scena e i tempi sono dilatati a dismisura, arrivando l’esecuzione musicale a superare abbondantemente le quattro ore che con i due intervalli vogliono dire cinque ore e mezza di spettacolo.

Quarant’anni dopo la prima parigina, questa cantata religiosa-meditazione spirituale-inno alla bellezza della creazione-celebrazione della musica – molti sono i modi di definire questo anomalo lavoro – arriva sulle sponde del Lago Lemano dove trova un teatro, il Grand Théâtre di Ginevra, col coraggio di metterla in scena in una produzione che ha del grandioso per i mezzi messi in campo. Già solo l’orchestra è sterminata: una ventina di legni, quasi altrettanti ottoni, una settantina d’archi, cinque percussionisti impegnati in una miriade di strumenti oltre a xilofono, xylorimba, marimba, vibrafono, glockenspiel e ben tre suonatori di Ondes Martenot, strumento quest’ultimo utilizzato da Messiaen anche nella sua sinfonia Turangalîla. A capo della gloriosa Orchestra della Suisse Romande è Jonathan Nott, esperto di musica contemporanea che gestisce impavidamente i suoni di una partitura che non fa concessioni a nessuno strumentista, chiedendo da ognuno il massimo. La partitura, nonostante le ripetitività, ad esempio del motto di quattro note che ricorre per tutta l’opera, ha momenti sorprendenti: i richiami degli uccelli, ad esempio, più che dai prevedibili fiati sono realizzati dalle percussioni e la celestiale e rarefatta pagina affidata alle Ondes Martenot – la lingua di Dio… – si scontra con gli aggressivi suoni degli ottoni pieni di minaccia, quasi il risveglio di Fafner. Nulla è scontato in questa colossale partitura in otto poderosi volumi che Nott realizza nonostante gli inconvenienti della scelta di porre l’orchestra dietro i cantanti, che stanno per lo più al proscenio, con il coro confinato al fondo del palcoscenico con i microfoni per portare le voci in sala e risolvere così il problema della distanza. Il suono dell’orchestra è così in qual modo ovattato e viene privilegiata la chiarezza delle linee strumentali piuttosto che il suono dei pieni orchestrali.

Non minori sono anche le esigenze dal punto di vista vocale, con nove parti soliste e un centinaio di coristi. Il canto del protagonista evoca il cantus firmus gregoriano con l’orchestra che commenta dopo ogni verso. Robin Adams si accolla l’impegnativo compito di essere sempre presente in scena in sette quadri su otto. Il suo canto declamato dalle mille screziature ci restituisce un Francesco intensamente umano e la sua solida presenza scenica si avvale di una dizione che, a parte la pronuncia della r francese, rende il testo ben comprensibile nella sua chiara articolazione. Più varia è la linea di canto dell’Angelo, affidata al soprano Claire de Sévigné, unica voce femminile, dalla pura radiosità vocale espressa su un registro acuto particolarmente etereo. Più terreno il carattere del Lebbroso e il tenore Aleš Briscein si rivela efficace con i suoi salti di registro nella trasformazione del personaggio dalla autocommiserazione per il suo tragico stato alla guarigione alla redenzione. Di gran livello sono i ruoli secondari dove si sono fatti ammirare per la solennità della figura William Meinert (fra Bernardo), Kartai Karagedik (un autorevole fra Leone), Omar Mancini (un ironicamente connotato fra Elia), Joé Bertili (fra Silvestro), Anas Séguin (padre Ruffino) e Jason Bridges (fra Masseo). La voce di Dio è affidata al coro, qui quello del teatro rinforzato dal Choeur Motet de Genève.

Per la messa in scena di questo unicum di Messiaen è stato chiamato l’artista visivo Adel Abdessemed il quale, alla sua prima esperienza teatrale, per ogni quadro più che una scenografia ha ideato un’installazione con oggetti non sempre di chiara comprensibilità. Vada per l’enorme piccione dal petto insanguinato issato su un mucchio di forme rotondeggianti che potrebbero essere dei teschi – con i piccioni l’artista franco-algerino è diventato famoso per una sua scultura che capovolge l’immagine popolare del piccione viaggiatore e lo trasforma in un uccello distruttivo: in quest’opera monumentale (2 metri di alluminio) il piccione viaggiatore diventa la rappresentazione di una bomba a orologeria, la paura degli altri che minaccia la nostra società – chiaro è il mappamondo che si sgonfia da un quadro all’altro, evidente simbolo della nostra Terra minacciata da guerre e inquinamento. Meno evidenti sono il dromedario che viene issato lentamente nell’ottavo quadro o i robot che pigiano l’uva nel secondo.

Abdessemed porta in scena elementi della sua cultura come il richiamo a un hammam nel quadro del lebbroso con i tappeti berberi appesi o i due grandi dischi istoriati con le immagini cabalistiche dei triangoli e dei quadrati intrecciati su cui vengono proiettati dei video, ma non mancano richiami all’iconografia cristiana, come il ritratto del santo di Cimabue o l’arcangelo Gabriele del Beato Angelico da cui copia le ali multicolori per l’Angelo. Di Abdessemed sono anche i costumi dei francescani fatti di vecchie strisce di stoffa, tuniche approssimative con fagotti (a guisa di migranti) e cuciti gli scarti della nostra civiltà digitale: componenti di dispositivi elettronici di vario tipo, CD, tastiere di telefonini, circuiti stampati. Quasi sempre congrui con la vicenda, talora gli oggetti scenici ideati dall’artista rompono l’equilibrio visivo, come la riproduzione della chiesa della Porziuncola che invade il palcoscenico, fino a quel momento tenuto pressoché vuoto, coprendo quasi totalmente la vista dell’orchestra che invece era giustamente in piena vista nel quadro della predica agli uccelli, o dell’Angelo musicante quando il santo sale verso il cielo sulle note ipnotiche delle Ondes Martenot.

Per curioso contrappasso, la città di Calvino ospita dunque il messaggio fortemente intriso di cattolicità del compositore francese. Con un libretto dove la parola Dieu viene ripetuta 49 volte e Seigneur 39 volte, per un non credente come me questa dichiarazione di fede qual è l’opera di Messiaen è stata un’esperienza puramente estetica e, perché negarlo, faticosa. Ahimè, neanche questa volta ho provato la «gioia perfetta della paziente sofferenza»…

Il disciplinato pubblico ginevrino ha accusato qualche defezione nel corso della serata, ma alla fine ne è rimasto abbastanza per salutare calorosamente gli artefici della produzione, soprattutto Robin Adams e Claire de Sévigné.

Saint François d’Assise

51HCBRBLLdL

★★★☆☆

Scene francescane in otto quadri

Nel primo quadro dell’opera Francesco spiega a fra Leone che la vera letizia sta nella paziente sofferenza. Messiaen sembra voler far suo il precetto francescano quando somministra al moderno spettatore oltre quattro ore di musica di questa cantata religiosa il cui libretto, del compositore stesso, è basato sugli scritti poetici del santo d’Assisi in cui è quasi assente ogni azione drammatica. Meditazione spirituale, inno alla bellezza della creazione, celebrazione della musica: in molti modi si può definire questa non-opera. La scala dei tempi è qui dilatata a dimensioni wagneriane dal musicista avignonese e sono la cangiante varietà della sua orchestra e l’intensità di certi momenti a mantenere desta l’attenzione dello spettatore.

Olivier Messiaen nel 1971 aveva accettato dopo molte esitazioni la commissione dell’Opéra di Parigi, nella persona di Rolf Liebermann, solo per la possibilità di esprimere ancora una volta la sua fede cattolica: «J’ai la chance d’être catholique; je suis né croyant et il se trouve que les textes sacrés m’ont frappé dès mon enfance. Un certain nombre de mes œuvres sont donc destinées à mettre en lumière les vérités théologiques de la foi catholique.» (Ho la fortuna di essere cattolico; sono nato credente ed è successo che i testi sacri mi hanno colpito fin dalla prima infanzia. Un certo numero delle mie opere è quindi destinato a mettere in luce le verità teologiche della fede cattolica).

La composizione del Saint François d’Assise si protrasse per quasi otto anni: dal 1975 al 1979 per la scrittura del libretto e della struttura musicale e dal 1979 al 1983 per l’orchestrazione. Il debutto avvenne il 28 novembre 1983 al Palais Garnier sotto la bacchetta di Seiji Ozawa.

Gli interessi di Messiaen per l’ornitologia convergono in questa sua opera in cui la figura del santo d’Assisi è strettamente legata all’amore per le creature del cielo e qui la partitura imita i versi degli uccelli come in tanti altri suoi lavori. L’orchestra è sterminata: una ventina di legni, quasi altrettanti ottoni, una settantina d’archi, cinque percussionisti impegnati in una miriade di strumenti oltre a xilofono, xylorimba, marimba, vibrafono glockenspiel e ben tre Ondes Martenot, strumento quest’ultimo utilizzato da Messiaen anche nella sua sinfonia Turangalîla. Dal punto di vista vocale le esigenze non sono minori: sono richieste nove parti soliste e un coro di 150 voci.

La suddivisione in otto quadri distinti ha talora permesso l’esecuzione ridotta dell’opera, come avvenne a Salisburgo nel 1985, dove furono messi in scena quattro quadri (il terzo e gli ultimi tre), o a Londra, tre anni dopo, alla presenza dell’ottantenne compositore.

(Atto I) Quadro I: La croce. Francesco spiega a fra Leone che per l’amore di Cristo deve sopportare con pazienza tutte le possibili sofferenze: «Voilà la joie, la joie parfaite» (Ecco la perfetta letizia).

Quadro II: Le Laudi. Dopo la preghiera del Mattutino con i fratelli, Francesco rimane solo e prega Dio per poter conoscere un lebbroso ed essere in grado di amarlo. «Tu sais combien j’ai peur, combien j’ai horreur des lépreux, de leur face rongée, de leur odeur horrible et fade! Seigneur! Seigneur! Fais-moi rencontrer un lépreux… Rends-moi capable de l’aimer…»

Quadro III: Il bacio al lebbroso. In un lebbrosario un lebbroso, orribilmente macchiato di sangue e coperto di pustole, protesta contro la sua infermità: «Comment peut-on vivre une telle vie? Tous ces Frères qui veulent me rendre service… S’ils enduraient ce que j’endure, s’ils souffraient ce que je souffre! Ha!… Ha!… peut-être se révolteraient-ils à leur tour”. Francesco entra e, seduto accanto a lui, gli parla dolcemente. Un angelo appare sotto la finestra e dice: «Lebbroso, il tuo cuore ti accusa, ma Dio è più grande del tuo cuore». Turbato dalla voce e dalla bontà di Francesco, il lebbroso è pieno di rimorso. Francesco lo abbraccia e miracolosamente il lebbroso guarisce e danza di gioia. Più importante della guarigione del lebbroso è la crescita della grazia nell’anima di Francesco e la sua gioia per aver trionfato su sé stesso.

(Atto II) Quadro IV: L’angelo viaggiatore. In una strada nella foresta di La Verna un angelo appare, travestito da commesso viaggiatore. Bussa con fragore alla porta del monastero e fra Masseo apre la porta. L’Angelo rivolge a fra Elia, vicario dell’ordine, una domanda sulla predestinazione. Fra Elia si rifiuta di rispondere e spinge l’Angelo all’esterno. L’Angelo bussa alla porta di nuovo e fa la stessa domanda a fra Bernardo, il quale risponde con molta saggezza. Dopo che l’Angelo è andato, fra Bernardo e fra Masseo si guardano a vicenda, Bernard osserva: «Forse era un angelo …»

Quadro V: L’angelo musicista. L’angelo appare a Francesco per dargli un’anticipazione della beatitudine celeste, suona un assolo sulla sua viola. Il suono è così glorioso che Francesco sviene.

Quadro VI: Predica agli uccelli. Ad Assisi, presso Carceri vi è una grande quercia verde in primavera con sopra molti uccelli che cantano. Francesco, seguito da fra Masseo, fa una predica agli uccelli e li benedice solennemente. Gli uccelli rispondono con un grande coro in cui non si sentono solo gli uccelli dell’Umbria, in particolare la capinera, tipica di Carceri, ma anche gli uccelli provenienti da altri paesi per esempio dall’Isola dei Pini, nei pressi della Nuova Caledonia.

(Atto III) Quadro VII: Le stigmate. La Verna, di notte, in una grotta sotto una roccia a strapiombo, Francesco è da solo. Viene visualizzata una grande croce. La voce di Cristo, simboleggiato da un coro, si sente quasi continuamente. Cinque fasci di luce partono dalla Croce e colpiscono entrambe le mani, i piedi, e il lato destro di Francesco, con lo stesso rumore enorme che ha accompagnato il bussare dell’Angelo. Queste cinque piaghe, che ricordano le cinque piaghe di Cristo, sono la conferma divina della santità di Francesco.

Quadro VIII: La Morte e la Nuova Vita. Francesco sta morendo, steso a terra e i Fratelli sono intorno a lui. Dice addio a tutti coloro che ha amato e canta l’ultima strofa del suo Cantico delle creature, la strofa di «nostra Sorella morte corporale». I Fratelli cantano il Salmo 141. L’Angelo e il lebbroso appaiono a Francesco per confortarlo. Francesco pronuncia le sue ultime parole  «Musica e Poesia mi hanno condotto a Te: come immagine, come simbolo e come difetto di Verità […] abbagliami per sempre col tuo eccesso di Verità…» e muore. Le campane suonano. Tutto scompare. Mentre il coro canta la Risurrezione, un raggio di luce illumina il luogo dove si trova il corpo di Francesco. L’illuminazione aumenta fino a diventare insostenibile e accecante.

«Saint François d’Assise è certamente un arduo cimento teatrale, ma è tuttavia un’opera concepita con grande coerenza sia musicale che visiva. L’autore, come indicano le didascalie, ha predisposto con notevole precisione non solo la disposizione della scena, ma anche l’aspetto dei costumi e la tonalità di luce del palcoscenico, definita con scrupolosa cura dei colori. Messiaen ha inventato per dare forma alla sua peculiarissima poetica un teatro ‘di contemplazione’, tanto semplice nel disegno della struttura complessiva quanto incredibilmente sottile nella disposizione del singolo elemento all’interno del quadro. La vastità della concezione è sorretta da una sapienza musicale tanto solida quanto aperta, profusa a piene mani nella sterminata partitura. Messiaen fa ricorso alle principali materie prime della sua musica: dalle eteree armonie del Banquet céleste, alle intrecciate linee degli ottoni di Des canyons aux étoiles…, alle polifonie ritmiche del Quatuor pour la fin du temps, alle ricerche incessanti sul canto degli uccelli. Il colore dell’orchestra è assolutamente unico e irripetibile, nutrito delle combinazioni ritmico-timbriche più complesse, che raggiunge la sua apoteosi idiomatica nella scena della predica agli uccelli. Messiaen riesce a immaginare un mondo sonoro totalmente metafisico, espresso in una visione musicale al di là di ogni mimesi del reale. In questo senso il Saint François è un’opera di ambizioni altissime, sopportabili solo grazie a una devozione sincera e illimitata nelle risorse della creazione artistica. La vera sfida per Messiaen era tuttavia l’invenzione di una vocalità, che nelle sue composizione non aveva mai trovato un posto di riguardo. Qui, forse inevitabilmente, l’esito è meno impressionante. San Francesco oscilla infatti tra la voce di Golaud e quella di Boris, senza trovare momenti veramente memorabili, mentre dimostra più originalità nelle sue apparizioni l’altro personaggio centrale, l’angelo. Infine è necessario sottolineare l’importanza del coro, che ha un ruolo predominante soprattutto nell’ultimo atto, e in particolare nel poderoso affermarsi del do maggiore conclusivo, che satura lo spazio di una smagliante onda sonora». (Oreste Bossini)

Tutta l’opera è attraversata da un motto di quattro note (ta-ta-ta-taa, come quello della quinta sinfonia di Beethoven) che diventa anche un inatteso valzer per la danza del lebbroso guarito, ma sono molti gli spunti ritmici immersi nella smisurata partitura.

Nell’allestimento di Audi per la Nederlandse Opera nel 2008 non ci sono realizzazioni sinestetiche, associanti cioè percezioni visive a quelle auditive («Connais la joie des bienheureux par suavité de couleur et de mélodie» canta l’angelo nel V quadro), presenti in altre opere di Messiaen o come è stato tentato nella versione da concerto dell’opera diretta da Myung Whun Chung alla Salle Pleyel di Parigi dello stesso anno. In scena avviene ben poco e Audi si adatta con grande proprietà a questa scelta di economia con alcune trovate geniali, come il pubblico di bambini per la predica agli uccelli. È uno dei suoi più convincenti allestimenti.

Inedita la disposizione degli orchestrali: archi a sinistra e il resto a destra e il tutto sta in fondo al palcoscenico, come nelle due Iphigénie gluckiane di Audi di tre anni dopo con la stessa scenografia a ponteggi da edilizia.

Ingo Metzmacher dà unità e fluidità all’impasto sonoro tra le varie sezioni orchestrali mettendo magnificamente in luce le virtuosità della partitura.

La scrittura vocale, che evoca il cantus firmus gregoriano e privilegia la comprensibilità, rifugge da prodezze particolari e ha in Rod Gilfry un dedito interprete particolarmente intenso nella scena del lebbroso. Più interessante la vocalità dell’angelo, affidata qui a Camilla Tilling. Nel resto del cast si notano il fra Leone di Henk Neven e il fra Masseo di Tom Randle.

Dopo 4h 18′ 28″ (tanto dura lo spettacolo registrato ad Amsterdam, con gli intervalli si arriva a quasi sei ore) non sono ancora convinto di aver provato la «perfetta letizia». Sarà per un’altra volta.