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Le due Ifigenie di Gluck
Iphigénie en Aulide (1774) è la tragédie lyrique che Gluck ricava dalla omonima opera di Racine (1674) basata ovviamente sull’ultima tragedia di Euripide, rimasta incompiuta. I Greci sono fermi nell’Aulide con la loro flotta di mille navi in attesa di salpare per Troia, ma i venti sono sfavorevoli al viaggio perché Diana è irata e richiede il sacrificio di Ifigenia, la figlia di Agamennone. Il padre è lacerato tra l’amore paterno e il dovere di stato e a nulla valgono i lamenti della moglie Clitennestra e del promesso sposo Achille. Ifigenia è condotta all’altare dei sacrifici e solo un intervento all’ultimo momento della dea salverà la vita della fanciulla.
Nella località marina di Aulide, in Beozia, la flotta greca attende i venti favorevoli, che le consentano di far vela verso Troia. La bonaccia è in realtà causata dalla dea Diana, cui Agamennone ha giurato di sacrificare la propria figlia Ifigenia. L’aprirsi del sipario ci rivela l’angoscia del sovrano e il suo progetto di evitare l’arrivo in Aulide della figlia, facendole credere che il promesso sposo Achille si sia invaghito di un’altra donna. Ifigenia ha però già raggiunto il campo greco, accompagnata dalla madre Clitennestra, e alla (falsa) notizia dell’infedeltà di Achille reagisce con dolore misto a rabbia; è lo stesso Achille a sciogliere l’equivoco, e l’atto si chiude con un duetto dei due promessi. Le nozze stanno per essere celebrate fra cori e danze, quando il messo Arcante svela a Ifigenia che presso l’altare la attende il padre per immolarla. La rivelazione suscita la collera di Achille e Clitennestra contro Agamennone; quest’ultimo, assalito dai rimorsi, decide di non rispettare il giuramento. All’inizio del terzo atto la turba dei greci reclama a gran voce la vittima, mentre Ifigenia appare rassegnata al proprio destino e Clitennestra invoca per i greci inumani la punizione di Giove. Sulla riva del mare tutto è pronto per il sacrificio, ma Achille irrompe in scena con i propri guerrieri; nel generale tumulto si leva la voce del gran sacerdote Calcante, che rivela la volontà divina: Diana, colpita dalla virtù di Ifigenia, dall’amore materno di Clitennestra e dal valore di Achille, ha revocato il decreto di morte e acconsente finalmente alle nozze.
In Iphigénie en Tauride (1779) – che Gluck basa sull’omonimo dramma in prosa che Guimond de La Touche (1757) trae dalla tragedia di Euripide, così come farà anche Goethe (1787) – la scena è appunto nella Tauride quindici anni più tardi. Dopo la bonaccia dell’opera precedente, qui infuria invece una tempesta spaventosa. Ifigenia, dopo la guerra di Troia e la morte di Achille, è diventata sacerdotessa di Diana e presiede ai riti orrendi del sacrificio di qualunque umano sbarchi sull’isola del tiranno Thoas. Questa volta è suo il tragico dilemma che deve affrontare allorquando ha il sospetto che il greco che sta per sacrificare sia suo fratello Oreste. Di fronte alla stupidità della guerra e alla follia sanguinosa della superstizione religiosa nell’opera si salva solo la purezza dell’amicizia tra Oreste e Pilade. Anche qui l’intervento della dea risolve in extremis il dramma.
L’opera si apre con le suppliche di Ifigenia e delle altre sacerdotesse greche durante una tempesta. Placatasi la furia degli elementi, Ifigenia racconta alle compagne il proprio sogno di quella notte: era nuovamente in patria, tornata all’affetto paterno, quando il palazzo reale andava in fiamme, il padre Agamennone le compariva sanguinante e la madre Clitennestra sotto forma di «spettro inumano»; vedendo poi il fratello Oreste, si sentiva trascinata a colpirlo da un ignoto potere. Consapevole della maledizione divina che incombe sulla propria stirpe, Ifigenia invoca quindi la dea Diana, già sua salvatrice in Aulide, perché le conceda la pace della morte. Sopraggiunge Toante, re degli Sciti, sconvolto dall’oracolo che lo minaccia di morte se non immolerà tutti gli stranieri che capiteranno in Tauride. Informato della cattura di due giovani greci (Oreste e Pilade), il re invita il suo popolo a esultare e ringraziare gli dèi per avere fornito le vittime espiatorie. Nel secondo atto Oreste e Pilade sono in catene in una sala del tempio. Oreste si pente di aver trascinato nell’impresa l’amico, il quale si dichiara pronto a morire insieme a lui. Rimasto solo dopo che Pilade è stato condotto via, Oreste invoca la morte, quindi si calma e s’addormenta, ma viene tormentato in sogno dalle Furie e dallo spettro di Clitennestra. Giunge Ifigenia a interrogarlo sulla sua identità. Egli tace il proprio nome, ma dice di venire da Micene e la informa della rovina abbattutasi sulla casa di Agamennone. Ifigenia piange la morte dei genitori, mentre il coro di sacerdotesse le fa eco nel lamento. Nell’atto terzo Ifigenia decide di salvare uno dei due condannati affinché rechi un suo messaggio in Grecia. La sua scelta cade su Oreste, per il quale sente un’ignota tenerezza pur non sapendo che egli è suo fratello. Oreste non vuole però sopravvivere a Pilade e, minacciando di darsi la morte se sarà lasciato libero, riesce a capovolgere la decisione della sacerdotessa. L’atto finale vede Ifigenia che si appresta a sacrificare Oreste. Quando tutto è pronto e il pugnale già è levato sulla vittima, Oreste esclama: «Così moristi in Aulide, Ifigenia, sorella mia», dando il via al reciproco riconoscimento. Furioso per la scoperta fuga di Pilade, Toante giunge ad accusare Ifigenia, e vorrebbe immolare anche lei insieme a Oreste, quando irrompe Pilade alla testa di un manipolo di Greci e lo uccide. La battaglia che ne segue viene sedata dall’intervento di Diana, che annuncia a Oreste il perdono divino e lo invita a insediarsi sul trono di Micene. Una «pace dolce e profonda» comincia a spirare su tutti gli elementi naturali e segna la fine delle sofferenze.
Entrambe le opere appartengono al periodo della polemica tra Gluck e Piccinni che divise il pubblico parigino in due fazioni come già era successo quasi trent’anni prima nella “querelle des bouffons”, innescata dalle opere italiane di Pergolesi da una parte e quelle francesi di Lully e Rameau dall’altra. In particolare Iphigénie en Tauride costituisce il coronamento della carriera musicale gluckiana e quella in cui il compositore riesce meglio a realizzare la sua riforma operistica. Dopo di lui nessuno potrà prescindere dalla sua memorabile combinazione di musica e dramma. Certo non Berlioz, i cui Troyens sembrano un grandioso tributo al maestro di cui si considerava l’erede. Ma neanche Wagner potrà fare a meno delle invenzioni gluckiane e ovviamente il Mozart delle opere serie deve moltissimo al suo predecessore, così come tutta l’opera francese dell’ottocento da Meyerbeer a Gounod.
Nonostante l’interpretazione mirabile della Callas alla Scala nel 1957 in Ifigenia in Tauride, le due opere sono entrate faticosamente in repertorio ed è quindi un avvenimento la ripresa di entrambe in un’unica produzione che porta i nomi di Marc Minkowski in orchestra e Pierre Audi in scena e che è stata registrata al Nederlandse Opera di Amsterdam il 7 settembre 2011.
Diretta con la solita bravura, l’orchestra dei Musiciens du Louvre Grenoble suona con strumenti d’epoca e un diapason abbassato di un tono per riprodurre il suono della rappresentazione parigina e se ne avvantaggiano non solo le voci dei cantanti, ma il tono stesso e l’atmosfera dell’opera.
Nella prima parte Véronique Gens esprime bene la sofferenza delle giovane Ifigenia, nella seconda c’è la tormentata Ifigenia matura di Mireille Delunsch. Anche le altre parti sono disimpegnate egregiamente da cantanti che sono anche grandi interpreti dal punto di visto drammaturgico. Cito soltanto la Clitennestra amorevole di Anne Sofie von Otter e gl’intensi Jean-François Lapointe e Yann Beuron nel ruolo dei fraterni amici Oreste e Pilade.
La scenografia è la stessa per entrambe le opere: un nudo palcoscenico e due praticabili con ripide scalinate in stile ponteggi da edilizia. La fossa orchestrale sta dietro, ossia tra il palcoscenico e il coro che prende posto in una gradinata assieme a parte del pubblico in fondo alla scena. I cantanti hanno quindi il direttore d’orchestra alle spalle e si rivolgono direttamente al pubblico della platea. È sicuramente un elemento di maggior difficoltà per gli interpreti, ma così ci risparmiano le occhiate del cantante al direttore. La bravura e la professionalità degli interpreti non sembrano risentire di questa anomala soluzione.
Siamo ormai abituati a costumi che non rispecchiano né l’epoca della vicenda né quella dell’autore dell’opera. Qui, giacché si tratta di un esercito in partenza per la guerra, nella prima parte, e di un tiranno sanguinario come molti dittatori di oggi, nella seconda, i personaggi sono in vestiti militari moderni, con i motivi mimetici ripresi anche negli abiti femminili. L’Ifigenia che deve essere sacrificata porta addirittura il giubbotto esplosivo dei suicidi per rappresentare la sua accettazione del sacrificio. Un po’ scioccante all’inizio, ma efficace come idea.
Audi non prevede momenti coreografici: in mezzo a quelle armi e a quei ceffi bellicosi non c’è spazio per le danze. Poco filologico, forse, ma coerente con la scelta registica.
Immagine perfetta e due tracce audio. Extra con interviste per entrambe le due opere con gli interpreti. Ma perché farli faticosamente parlare in una lingua che non è la loro, l’inglese? Non si può tradurli dopo? Sembra invece perfettamente a suo agio in francese, inglese e olandese il regista libanese Pierre Audi.
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