Artaserse

71NJa2aqAkL._SL1024_

★★★★★

Transgender barocco

Ultima opera del compositore Leonardo Vinci scomparso a soli 40 anni e suo capolavoro, Artaserse costituisce la prima volta in cui viene messo in musica questo testo metastasiano molto frequentato: Hasse, Gluck, J.C.Bach, Galuppi, Cimarosa, Jommelli, Paisiello sono solo alcuni del centinaio di musicisti che avranno un Artaserse nel loro catalogo.

Il libretto è pieno di colpi di scena, ma anche di scavo psicologico in cui il Metastasio porta al massimo livello l’utilizzo della metafora nel rappresentare i sentimenti dei personaggi, come nelle arie di paragone di Arbace del primo atto

Vo solcando un mar crudele
senza vele e senza sarte;
freme l’onda, il ciel s’imbruna,
cresce il vento e manca l’arte
e il voler della fortuna
son costretto a seguitar. 

o di Semira del secondo atto

Se del fiume altera l’onda
tenta uscir dal letto usato,
corre a questa, a quella sponda
l’affannato agricoltor.

o ancora di Arbace del terzo atto

L’onda dal mar divisa
bagna la valle, il monte,
va passaggiera in fiume;
va prigioniera in fonte.
Mormora sempre e geme
fin che non torna al mar.
Al mar dov’ella nacque,
dove acquistò gli umori,
dove dai lunghi errori
spera di riposar.

Per non dire dell’aria «Son qual nave ch’agitata» intonata da Hasse e dal Broschi e portata alla popolarità dal film Farinelli oltre che dai concerti della Bartoli.

Atto I. L’opera si apre nel giardino notturno del palazzo di Serse. Mandane, sua figlia, e Arbace, il figlio del generale Artabano, sono innamorati. Serse si è opposto al loro matrimonio e bandito Arbace dal palazzo e Arbace scavalca il muro che delimita il giardino. I due giovani manifestano l’un l’altra il loro amore e il loro dolore per essere stati allontanati. Arbace e Mandane si salutano mentre quest’ultima torna a palazzo, e Mandane chiede ad Arbace di non dimenticarla. Nel frattempo arriva Artabano con una spada insanguinata. La sua ira per come Serse ha trattato suo figlio e il suo desiderio che Arbace diventi re l’hanno spinto ad assassinare Serse. Artabano confessa l’assassinio ad Arbace e scambia la sua spada insanguinata per quella del figlio. Arbace cade però in preda allo sconforto per la situazione in cui si trova, per il suo amore per Mandane e la sua amicizia con Artaserse (il figlio del re), e soprattutto per la crudeltà dell’atto. Arbace esce di scena e Artabano afferma che eliminare l’intera famiglia reale è l’unico modo per Arbace di diventare re. Artaserse, il figlio più giovane di Serse, arriva con un seguito di guardie. Artabano gli racconta della morte di suo padre e accusa Dario, il principe più anziano. Artaserse lo incarica quindi di vendicare suo padre uccidendo Dario, e Artabano vedendolo sconvolto dichiara che un figlio che uccide suo padre non è un figlio. Entra in scena Megabise, e Artaserse gli confessa il suo sconforto e la sua rabbia per l’accaduto. Megabise consola il principe e afferma che condannare a morte Dario è stata una forma necessaria di auto-difesa. Mentre Artaserse esce entra Semira, sorella di Arbace, che lo prega invano di restare; prima di uscire Artaserse le dichiara il suo amore. Semira percepisce un problema e Megabise le confessa l’accaduto, dichiarando indifferente che non gli importa chi sia sul trono di Persia. Dichiara poi il suo amore per Semira e afferma che combatterà contro Artaserse per la sua mano. Semira esprime il suo dolore per dover essere separata da Artaserse. A palazzo, Mandane e Artaserse si confidano a vicenda il proprio dolore. Artabano entra e annuncia l’esecuzione di Dario, rassicurando ancora una volta i fratelli della legittimità delle loro azioni. Entra però Semira, che rivela di aver visto fuggire il vero assassino dal giardino, con una spada insanguinata. Mandane pensa a questo punto che l’assassino possa essere Arbace e chiede che sia portato al suo cospetto. Megabise entra con un seguito di guardie che portano Arbace incatenato e lo dichiara l’assassino, ma Arbace continua a pronunciarsi innocente, anche dopo che Artaserse e Mandane chiamano in causa la spada insanguinata e il suo desiderio di usurpare Serse. Arbace chiede al padre di difenderlo, ma egli rifiuta, e Artaserse è costretto suo malgrado a pronunciarlo colpevole. Artabano rifiuta di addossarsi la colpa per il figlio e lo disconosce<. Semira afferma che lo supporterà quando avra prove in suo favore, ma che per il momento non può farsi dominare dai propri sentimenti. Anche Megabise lascia la scena, indifferente alla sorte di Arbace. Per ultima Mandane lo dichiara suo nemico prima di lasciarlo da solo sulla scena. Arbace si trova impossibilitato a dichiarare la sua innocenza per amore del padre.
Atto II. Artabano e Artaserse sono a colloquio, e mentre il primo esorta il principe a condannare a morte Arbace, Artaserse lo invidia per la sua forza d’animo e non è in grado di fare altrettanto. Il principe pensa che il silenzio di Arbace non sia prova della sua colpevolezza come sostiene Artabano, ma che ci sia un motivo ulteriore. Artaserse esce e Arbace è portato sulla scena dalle guardie; Artabano gli espone il suo piano: Arbace uscirà di nascosto dal palazzo, mentre Artabano ucciderà la famiglia reale per assicurargli il trono. Arbace rifiuta inorridito ed è portato via dalle guardie. Artabano nonostante tutto non riesce a condannare il figlio, e quando Megabise nota la sua esitazione lo esorta a procedere velocemente; i due discutono i dettagli delle loro macchinazioni, che comprendono il matrimonio forzato tra Semira e Megabise. Semira prega Megabise di risparmiarle il matrimonio, se la ama davvero, ma lui è disposto a sposarla anche contro la sua volontà. Segue un colloquio tra Semira e Mandane, entrambe distrutte all’idea del tradimento di Arbace. Semira è indecisa sulla fazione da supportare in questa difficile situazione. Intanto, nella Sala del Consiglio Reale, Artaserse teme di essere troppo inesperto per salire al trono di Persia. Megabise annuncia Semira e Mandane: la prima implora pietà per il fratello, la seconda che paghi per il suo crimine. Artaserse è indeciso; Artabano lo invita ancora una volta ad eseguire Arbace, ma Artaserse teme che Semira lo accusi di eccessiva crudeltà. Artaserse nomina Artabano giudice del processo del figlio, ma Mandane dubita della sua imparzialità. Arbace è portato al cospetto del tribunale e afferma nuovamente la sua innocenza, continuando a tacere però la verità: Artabano lo dichiara colpevole, lasciandolo inorridito. Mandane è scossa dalla crudeltà di Artabano e Semira dal comportamento tirannico di Artaserse. Sia Artabano che Artaserse ribattono di essere addolorati dalle proprie decisioni. Tutti lasciano la scena e Artabano rimane solo; sconvolto dalle azioni che ha compiuto, spera che il figlio non pensi che Artabano lo abbia sacrificato per la propria salvezza.
Atto III. In prigione, Arbace lamenta il suo destino. Artaserse, che dubita della sua colpevolezza, entra segretamente nelle prigioni per liberarlo; Arbace lo ringrazia e gli augura il meglio. Artaserse è convinto di star agendo giustamente. Artabano, Megabise e gli altri cospiratori arrivano alla prigione per cercare Arbace, che è già fuggito. Artabano pensa che il figlio sia già stato giustiziato, e Megabise promette di aiutarlo a vendicarsi avvelenando la «sacra tazza» da cui Artaserse berrà all’incoronazione. Artabano è devastato dalla morte del figlio e accetta di vendicarlo. Nel frattempo, Mandane è ancora indecisa circa i suoi sentimenti per Arbace; Semira le porta notizie dell’esecuzione apparente di Arbace e accusa Mandane di essere stata troppo crudele, ma quest’ultima le rinfaccia di non comprendere il suo dolore. Semira comprende che insultare Mandane non la farà sentire meglio. Intando Arbace entra di nascosto nel palazzo e trova Mandane, felice di vederlo vivo ma non ancora pronta a perdonarlo. All’incoronazione, Artabano porge ad Artaserse la coppa avvelenata. Il principe, circondato dai nobili, giura di mantenere i diritti, le leggi e le usanze dei suoi sudditi e fa per bere. Entrano in quel momento Semira e Mandane; quest’ultima porta notizie dall’entrata del palazzo: Arbace ha ucciso Megabise e i suoi uomini prima che questi potessero attentare alla vita del principe. Artaserse chiede ad Arbace di confermare la sua innocenza bevendo dalla coppa sacra. Artabano deve ora scegliere se vedere suo figlio morire o confessare i propri crimini; egli confessa e fa per attaccare Artaserse con la propria spada, ma Arbace minaccia di suicidarsi con il veleno se il padre proseguirà nel suo piano. Artabano getta la sua spada ed è trattenuto dalle guardie. Inizialmente Artaserse vorrebbe giustiziare Artabano per tradimento, ma Arbace lo prega di essere clemente: Artaserse, per amore dell’amico e di Semira, decide di commutare la pena in esilio. L’innocenza di Arbace è confermata oltre ogni dubbio e l’intero cast (compreso Megabise, che sarebbe morto) si riunisce sul palco a celebrare il regno del nuovo re Artaserse, giusto e misericordioso

Presentato la prima volta al Teatro delle Dame di Roma durante il carnevale del 1730, poiché per divieto papale alle donne era vietato calcare le scene, i personaggi dell’azione furono sostenuti da uomini, un tenore e cinque castrati, che si dovettero cimentare con le floride colorature e l’impervia tessitura scelta dal musicista il cui stile ricorda il coevo Vivaldi, rivale del compositore napoletano nei teatri italiani dell’epoca.

Il revival moderno di Artaserse si deve all’Opéra National de Lorraine con questa produzione del 2012 registrata nel teatro di Nancy. Pescando a piene mani nell’ormai folto vivaio di contraltisti e controtenori, in scena ne abbiamo una folta delegazione proveniente da vari paesi: Philippe Jaroussky (Artaserse) viene dalla Francia, Franco Fagioli (Arbace) dall’Argentina, Max Emanuel Cenčić (Mandane) dalla Croazia, Valer Barna-Sabadus (Semira) dalla Germania (anche se è di origini rumene) e Yuriy Mynenko (Megabise) dall’Ucraina.

La regia del rumeno Silviu Purcărete parte dal rispetto filologico per la presenza dei castrati alla prima rappresentazione per cogliere con eleganza l’ambiguità di genere e il travestitismo che stanno alla base del fenomeno della fascinazione per le voci acute nell’estetica barocca. La scenografia punta su un palcoscenico vuoto con attorno i camerini aperti dei cantanti. Una piattaforma rotante e quinte scorrevoli sono i pochi efficacissimi elementi scenici.

Durante la bella sinfonia d’apertura in tre tempi gli interpreti sono ancora in una fase non completa di trucco e vestizione. Venendo alla ribalta così manifestano chiaramente l’intento di trasformazione che i costumi avrebbero loro apportato, un travestitismo aggressivo, ma non caricaturale, capace di trasformare la realtà in un mondo irreale e lontano dal contingente. Una sorta di metateatro in cui l’artificio che c’è dietro ogni operazione teatrale viene a farsi teatro esso stesso. E così l’interprete di Mandane, Max Emanuel Cenčić, ancora in accappatoio, indossa sotto i nostri occhi il suo rutilante costume, si fissa in capo l’alata acconciatura da uccello del paradiso ed entra in azione. Il pubblico si aspetta uno show di drag queen e invece, dopo otto minuti di recitativo arriva la prima aria, «Conservati fedele» (sul cui testo Mozart nel 1765 scriverà l’aria da concerto per soprano K23). A questa seguiranno altri 30 numeri in cui il canto, virtuoso fino agli estremi delle possibilità, declina tutta la gamma degli affetti del teatro musicale barocco.

I cinque controtenori sembrano messi lì apposta per dimostrare le potenzialità della loro particolare tecnica vocale e tutti e cinque eccellono e si distinguono per le diverse doti di cui sanno disporre: dal timbro etereo e cristallino di Jaroussky ai colori cangianti della voce di Cenčić, dal timbro suadente di Barna-Sabadus a quello bronzeo e altero di Mynenko. E infine Fagioli. Voce stupefacente, tessitura incredibile, estensione smisurata, fiati interminabili e ornamentazione fantasmagorica nelle cadenze. Nel ruolo del personaggio più complesso e con le arie più belle è il vero trionfatore della serata. L’aria che conclude il primo atto, la già citata  «Vo solcando un mar crudele», manda in delirio il pubblico del teatro, ci fa fare un vero salto nel tempo ed è una lezione di modello di canto da far studiare in tutti i conservatori. Chi pensa che la quadruplice ripetizione della prima strofa nell’aria barocca sia noiosa ha modo qui di ricredersi totalmente.

La parte del cattivo (Artabano) è sostenuta dal tenore spagnolo Juan Sancho che però prende troppo sul serio il suo ruolo di vilain ed esagera negli effetti sgradevoli e nell’uso del parlato. Precarie agilità e acuti gridati non rendono poi stilisticamente convincente la sua esibizione. Sembra incredibile, ma la sua sembra la vocalità più artificiale di tutti!

Il costumista Jerry Skelton ha sulla coscienza la strage di uccelli da cui provengono le piume che adornano costumi e acconciature, perfetti per rappresentare il gusto settecentesco per l’esotismo (qui una Persia di fantasia) e l’immagine da pennuto impazzito dei castrati cantori. Nel corso della rappresentazione i fantasiosi costumi “orientali” cedono il passo ad altrettanto fantasiosi costumi settecenteschi per sottolineare che la vicenda storica è solo un pretesto per l’esibizione delle qualità vocali dei castrati cantori, salvo poi ritornare all’oriente alla fine per la conclusione del dramma.

Diego Fasolis affronta con grande verve e competenza la partitura ed è seguito con slancio dalla splendida orchestra di strumenti d’epoca del Concerto Köln.

La regia video indugia talora troppo dietro le quinte, ma rende comunque godibile questo allestimento che in Francia, da Nancy a Versailles, ha fatto furore tra il pubblico ed è stato osannato dalla critica. Non c’è comunque pericolo che arrivi in Italia.

Confezione indegna dell’avvenimento: non uno straccio di opuscolo né extra nei due dischi della Erato. A una mia mail che lamentava l’inconveniente non è mai stata data risposta.