Salome

Richard Strauss, Salome

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 19 febbraio 2021

bandiera francese.jpg Ici la version française

(video streaming)

Salome come Amleto: c’è del marcio in Galilea

Opera quanto mai necrofila la Salome di Richard Strauss: il sostantivo Tod (morte) e l’aggettivo tot (morto) ricorrono ben venti volte nel breve libretto che ricalca fedelmente il testo di Oscar Wilde.

Prima ancora che Salome baci la bocca del cadavere del Battista, sentiamo di una Luna che «sembra una donna morta», c’è chi scivola sul sangue di un cadavere, di morti risuscitati… e l’ultima battuta è nientemeno che «Man töte dieses Weib!» (ammazzate ‘sta donna!). E non dimentichiamo il richiamo agli angeli della morte, puntualmente portati in scena con le loro ali nere da Damiano Michieletto sul palcoscenico del Teatro alla Scala dove finalmente si può vedere lo spettacolo annullato un anno fa per le note vicende pandemiche, anche se solo in streaming e a teatro chiuso al pubblico.

La lettura del regista veneziano è quanto mai fedele al testo, che rilegge in chiave simbolica e psicanalitica (sono gli anni di Sigmund Freud quelli in cui Strauss compone l’opera) la vicenda biblica dei figli di Erode il Grande, ossia Erode Antipa (tetrarca della Galilea tra il 4 a.C. e il 39 d.C.) ed Erode Filippo (tetrarca di Iturea, Traconite e Golan tra il 4 a.C. e il 34 d.C.). Alla morte di quest’ultimo – la storia si situa dunque tra il 34 e il 39 d.C. – Erode Antipa ne aveva sposato la moglie che aveva dato precedentemente alla luce una figlia, Salome, la quale è quindi figliastra dello zio. Esattamente come Amleto. E anche qui ci sono sospetti che il primo marito sia stato fatto fuori dal secondo, sembra suggerire Michieletto, che per prima cosa ci mostra l’albero genealogico della famiglia affinché sia chiaro che è sui rapporti famigliari che si basa la sua lettura: Salome rivede sé stessa bambina con il padre che le regala una bambola prima di metterla a letto, e la figura della bambina ritornerà a più riprese nel corso dello spettacolo. Questa è una chiave di lettura certo non inedita, ma cara al regista che l’ha applicata ad altri suoi spettacoli quali Guillaume Tell e Macbeth.

L’allestimento si basa sui colori menzionati nel testo: il bianco, il nero e il rosso. Il primo è il colore della reggia di Erode, un ambiente di un candore abbagliante nella tersa scenografia di Paolo Fantin, incorniciato da fredde luci al neon; il nero è quello della terra della prigione di Jochanaan e della Luna che scende dall’alto; il rosso ovviamente è quello del sangue di Narraboth e della testa del Battista che cola nel bacile d’argento. Il fondo della scena si apre per i ricordi d’infanzia ridestati dalla voce del Profeta o per il banchetto di Erode e non manca la cisterna circolare tagliata nel pavimento da cui emerge Jochanaan. Durante la “danza dei sette veli” la protagonista rivive il suo rapporto col padre e contemporaneamente quello probabilmente incestuoso col patrigno, impersonato da figure maschili con maschera che alla fine la vestono con un abito bianco da cui pendono lunghi fili rossi, abito che ascende al cielo. Con la morte di Jochanaan il sacrificio sarà compiuto. L’agnello sgozzato, il sangue versato dal calice, tutto rimanda alla figura del Battista. Un altro forte rimando figurativo è quello della sua testa aureolata e raggiata come nel quadro di Gustave Moreau L’apparition (1877). Ancora una volta la magia del collaudato team di Michieletto – Paolo Fantin scenografo, Alessandro Carletti luci, Carla Teti costumi – rende questo uno spettacolo visivamente coerente e intrigante.

Sul piano musicale c’è da segnalare la grande prova di Riccardo Chailly che arrivato a sostituire Zubin Mehta aggiunge Strauss alla sua lettura delle opere di fine ‘800 e inizio ‘900 (Verdi, Puccini, Giordano) con questo lavoro che ha già in sé tutta la modernità a venire, dal taglio della vicenda, alla strumentazione, alla densità sonora che passa da momenti di magniloquente turgidità ad altri di estrema rarefazione, da quelli di una morbosa sensualità ad altri secchi e quasi rumoristici. Il tutto è magnificamente realizzato grazie a un’orchestra in grande spolvero che occupa la platea in tutta la sua estensione con prevedibili problemi di distanza che qui però sono magistralmente risolti.

Degli interpreti previsti l’anno scorso non c’è ovviamente traccia: debutta alla Scala il soprano russo Elena Stikhina, voce non enorme ma più che sufficiente ad affrontare la temibile tessitura della protagonista che delinea con espressività e felice presenza scenica, ma la sua performance non riesce a far dimenticare quella a Salisburgo di Asmik Grigorian. Nello Jochanaan di Wolfgang Koch è difficile trovare la diafana magrezza – «Com’è consunto! È come una statua d’avorio» – che fa innamorare la fanciulla, ma sembra non sia un requisito facile da reperire in un cantante che deve avere un volume sonoro consistente per la parte, come è il caso del basso-baritono tedesco che ritorna nel ruolo dopo Monaco. Meno petulante di come viene spesso presentato è l’Herodes di Gerhard Siegel ascoltato a Torino due anni fa e meno megera e sfiatata del solito la Herodias di Linda Watson, entrambi perfetti scenicamente. La parte lirica dello sventurato Narraboth è efficacemente interpretata da Attilio Glaser mentre Lioba Braun presta il suo caldo timbro mezzosopranile al Paggio, qui la governante di Salome, inerme testimone delle nefandezze di questa famiglia quanto mai disfunzionale.