Chiara e Serafina

   

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Chiara e Serafina

Bergamo, Teatro Sociale, 19 novembre 2022

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Non è una «decisissima rivincita», ma Chiara e Serafina merita comunque di essere conosciuta

Talvolta scavando nel repertorio operistico passato escono fuori dei tesori, talaltra viene confermato il fatto che se un’opera è scomparsa dai cartelloni una ragione c’era, ed è proprio questo il caso della donizettiana Chiara e Serafina, ossia Il pirata, non perché la musica non sia bella, ma perché si tratta di un lavoro sconclusionato, dalla vicenda confusa e con personaggi uno più inconsistente dell’altro. Già dalla trama si capisce chiaramente come i due atti siano per di più squilibrati, con un primo atto lungo quasi il doppio del secondo e con un aggrovigliarsi di vicende tale da rendere arduo intenderne il senso.

Atto I. Don Alvaro, padre di Chiara e Serafina, è un capitano di vascello, catturato dai pirati mentre navigava da Cadice a Maiorca assieme alla figlia maggiore Chiara, e da dieci anni ridotto in schiavitù. Alla corte di Don Fernando, uomo molto potente, segretamente suo nemico, la sua sparizione è stata fatta apparire come un tradimento, ottenendo un pretesto per condannarlo in contumacia e facendo sì che Don Fernando fosse nominato tutore della giovane Serafina che, nel frattempo, è cresciuta in età e bellezza, e ora Don Fernando progetta di sposarla per mettere le mani sulla sua fortuna. Ma Serafina ama Don Ramiro, figlio del podestà di Minorca. Quest’ultimo la chiede in sposa a Don Fernando che, non sapendo cosa addurre per opporsi al matrimonio, deve mettere in atto uno stratagemma. Questo antefatto è raccontato da Agnese, custode del castello. Don Meschino, ricco villano, è innamorato di Lisetta, figlia di Agnese, e la chiede in sposa. La giovane rifiuta, e in quel mentre si scatena una tempesta. Don Alvaro e Chiara arrivano all’improvviso, preoccupati per la sorte di Serafina. Chiedono aiuto a Lisetta e ad Agnese, ma senza rivelare le loro identità. Nottetempo, sbarca il pirata Picaro, antico servitore di Don Fernando, alla ricerca di lavoro sulla terraferma. Don Fernando gli offre una ricompensa se riuscirà a impedire il matrimonio di Serafina e Don Ramiro. Picaro si traveste da Don Alvaro e si presenta ai due innamorati nel giardino del castello: Serafina crede di aver ritrovato il padre disperso e si lascia convincere a rimandare le nozze. Arriva Chiara, travestita da mendicante: Serafina non la riconosce. Chiara e il vero Don Alvaro confondono Picaro, che si pente e promette di accompagnarli da Serafina, ma poi fugge.
Atto II. I pirati, alla ricerca del loro capo, penetrano nel castello e catturano Don Meschino, Chiara e Lisetta, ma arriva Picaro che, tolto il travestimento, libera i prigionieri. Le due sorelle si riabbracciano, Don Ramiro giura amore eterno a Serafina. Tutti credono che Chiara sia fuggita con i pirati, ma ella torna alla fine assieme a Picaro.

In breve, si tratta della storia di Don Alvaro e della figlia Chiara naufraghi su una spiaggia di Maiorca ma finalmente liberi dopo dieci anni di prigionia in seguito alla cattura dei pirati. I due sono soccorsi e  ospitati nel castello abbandonato di Belmonte. Sulla spiaggia sbarcano poi alcuni pirati, tra cui Picaro, servo di Don Fernando che è nemico di Don Alvaro e lo ha fatto condannare in contumacia con false accuse. Picaro si accorda con quest’ultimo per impedire il matrimonio di Serafina, l’altra figlia di Don Alvaro che Don Fernando vuole sposare «per mangiar l’eredità». Alla fine di varie vicissitudini la verità verrà a galla e tutto si appianerà.

Andato in scena alla Scala il 26 ottobre 1822, il lavoro del venticinquenne compositore bergamasco fu un fiasco: non cadde subito, tenne la scena ancora per dieci repliche, ma poi scomparve per due secoli. La colpa fu principalmente del libretto di Felice Romani che aveva tratto la vicenda da La citerne, un mélodrame di René-Charles Guilbert de Pixérécourt del 1800. Un esemplare di quel teatro dei boulevards destinato a un pubblico socialmente diversificato, leggi incolto, interessato al registro patetico e all’epilogo moraleggiante che soddisfaceva il bisogno di giustizia degli spettatori, quello appunto delle pièces à sauvetage come è Chiara e Serafina che la stampa milanese dell’epoca prese di mira: «il nuovo spartito di Donizetti […] avrebbe potuto forse discretamente reggersi, se colle dette lungaggini e ripetizioni, il poeta e il maestro non si fossero mostrati di troppo allo scoperto». Ma è la scelta della fonte il maggior elemento di critica: «i melodrammi francesi non son d’indole da raffazzonare per la scena italiana» a causa delle «lungaggini nojose e le goffe ripetizioni».

Come portare dunque in scena, duecento anni dopo, questo pastrocchio drammaturgico? La strada scelta dal regista, scenografo e costumista Gianluca Falaschi e dal suo team – Andrea Pizzalis per i movimenti coreografici, Emanule Agliati per le luci e Mattia Palma per la drammaturgia – è quella di trattare il titolo donizettiano come se fosse una Savoy Opera, come The Pirates of Penzance di Gilbert & Sullivan, adottando il kitsch visivo delle vecchie produzioni della D’Oyly Carte Opera Company con i suoi colorati scenari di cartapesta, costumi sgargianti e coristi e figuranti che rubano la scena, o come il nostrano teatro di varietà degli anni ’40, con la differenza che il finale “felici-bum-tà!” qui è l’interminabile rondò di Chiara.

Tra i personaggi improbabili e caricaturizzati di questa commedia di genere semiserio, il lestofante Picaro è figlio del Figaro di Beaumarchais/Mozart ma soprattutto di Sterbini/Rossini, corsaro per necessità che sogna «un mestier… d’impunità» come quello dell’usuraio, del giocatore, dello speziale che «nell’acqua fresca | trova doppie e perle pesca» e per il quale «i sartori, i calzolari | van del paro coi corsari». Da opera buffa anche nel nome, quasi maschera da commedia dell’arte, è poi Don Meschino. Ma ci sono anche l’ambiziosa e fatua Lisetta, l’intrigante Agnese e lo stucchevole Don Ramiro. Tutti questi personaggi hanno i lineamenti deformati, naso e mento aguzzi, e un trucco marcato mentre i pirati portano una maschera; gli unici che si presentano col loro viso al naturale sono Chiara e il padre Don Ramiro, i personaggi seri. Ma il momento della verità arriva per tutti: quando sono prigionieri della cisterna, di fronte a una triste fine, essi si tolgono la parrucca e mostrano la loro umanità, ma anche la finzione del teatro. Fa parte di questo gioco di finzioni il fatto che i vecchi Don Alvaro e Don Fernando qui siano interpretati dallo stesso cantante.

Si diceva all’inizio che la musica di Chiara e Serafina non è brutta, tutt’altro, è bellissima, ma è quais troppa… Dopo la sinfonia i tredici numeri musicali sono zeppi di cavatine, duetti, concertati e cori dalla ricca scrittura: è un Donizetti generoso e bulimico che inonda la scena di temi e spunti melodici in quantità, arie piene di agilità, finali frenetici. Il tutto frutto di un’attività condensata nei dodici giorni che andarono dal momento in cui ricevette il libretto, il 3 ottobre, alla consegna della partitura, il 15 ottobre. E con appena undici giorni di prove! La qualità della musica è dimostrata dal fatto che il compositore ne utilizzò alcune pagine nel Don Pasquale (la cabaletta della cavatina di Chiara), nell’Anna Bolena (il finale primo) e ne L’elisir d’amore (l’introduzione). Evidenti sono poi i riferimenti, Rossini e Mercadante soprattutto, in una scrittura che alterna comico e patetico talora in modo spiazzante. Di tutto ciò è ben consapevole il Maestro Sesto Quatrini che si è fatto carico della concertazione musicale di questo lavoro del tutto inedito con una direzione serratissima ma precisa. L’orchestra Gli Originali e il coro dell’Accademia della Scala hanno accolto con entusiasmo la proposta ma hanno dimostrato a momenti una certa inesperienza, che nel caso della compagine strumentale si è rivelata in piccole imprecisioni e precarie intonazioni, soprattutto per i fiati, probabilmente dovute all’utilizzo di strumenti d’epoca. In generale comunque la tenuta orchestrale c’è stata, l’equilibrio tra buca e cantanti si è salvato, la concertazione dei giovani cantanti non ha registrato problemi e si è svolta con fluidità.

Per un’indisposizione è venuto a mancare l’unico interprete blasonato della distribuzione vocale e Pietro Spagnoli (Don Meschino) è stato sostituito, comunque in modo soddisfacente, da un solista dell’Accademia di perfezionamento per cantanti lirici del Teatro alla Scala da cui provengono anche tutti gli altri interpreti. Alla recita del 19 novembre hanno dunque partecipato: Giuseppe de Luca (Don Meschino, basso), Matias Moncada (Don Alvaro/Don Fernando, basso), Fan Zhou (Serafina, soprano), Greta Doveri (Chiara, soprano), Hyun-Seo Davide Park (Picaro, baritono), Valentina Pluzhnikova (Lisetta, contralto), Mara Gaudenzi (Agnese, mezzosoprano), Andrea Tanzillo (Spalatro, tenore), Luca Romano (Gennaro, basso). Senza raggiungere punte di particolare eccellenza tutti i giovani hanno dimostrato una spiccata personalità vocale e vivace presenza scenica abilmente coordinata dal regista. Sono da ricordare almeno le due interpreti del titolo: Greta Doveri (Chiara), soprano dal bel timbro, che nella scena terza del primo atto esordisce con giusto accento nella cavatina «Queste romite sponde» e poi conclude l’opera nell’interminabile rondò finale «Prendi, o padre; il tuo gran nome» di cui Falaschi costruisce un’esilarante parodia e Fan Zhou (Serafina), voce sottile ma ferma, che nella sua aria del secondo atto «Fra quest’ombre, in questo orrore» esibisce una sicurezza stupefacente nelle impervie agilità scritte da Donizetti sulle parole «Ah! che spezzarmi | io sento il cor».

Difficilmente rivedremo rappresentata a teatro quest’opera in futuro, ma siamo grati al Festival Donizetti di averci fatto conoscere un lavoro acerbo ma pieno di musica bellissima, la stessa delle opere della maturità, quando però sarà inserita in contesti drammaturgici più maturi. E saranno allora i capolavori che conosciamo.