Mese: giugno 2023

Henry VIII

Camille Saint-Saëns, Henry VIII

Bruxelles, Théâtre Royal de la Monnaie, 16 maggio 2023

★★★★☆

(video streaming)

Tanto simile al Don Carlos, eppure tanto diverso

Ancora le vicende di casa Tudor sulle scene della Monnaie, un dei teatri più interessanti nel panorama lirico mondiale. Dopo Bastarda, l’originale pastiche/puzzle con musiche di Donizetti, è l’ora di Henry VIII, la quinta delle opere di Camille Saint-Saëns, compositore di teatro di cui conosciamo solo Samson et Dalila.

A Parigi nel 1867 Verdi aveva portato sulle scene del Théâtre de l’Académie Impériale de Musique il Don Carlos, il suo maggior contributo al genere grand-opéra. Sedici anni dopo sulle scene dell’Opéra Garnier si poteva assistere a un lavoro in cui «un monarca canta i tormenti del potere e dell’amore in un assolo introdotto dal violoncello; una regina solitaria (soprano), sperduta in una corte straniera, canta la nostalgia della sua patria e si ritrova detronizzata nel cuore del marito da una rivale dalla bellezza sgargiante (mezzosoprano); c’è una scena in cui la rivale implora il perdono della regina; vediamo la forte opposizione tra il re e la Chiesa che culmina in un duetto tra il monarca e un cardinale (due voci basse: un baritono e un basso); un’impressionante scena di folla in cui compaiono il re, sua moglie e i rappresentanti della Chiesa e del popolo, durante la quale un personaggio osa pubblicamente opporsi al re…». Così Stéphane Lelièvre su premièreloge-opera elenca le similitudini tra il lavoro di Verdi e quello di Saint-Saëns. Eppure, malgrado forti influenze, la musica dell’Henry VIII possiede una propria identità che lo contraddistingue e lo rende assolutamente diverso da quello di Verdi. I passaggi più densamente armonici evidenziano poiuttosto l’influenza di Wagner, morto tre settimane prima del debutto dell’opera a Parigi il 5 marzo 1883. Il libretto di Léonce Détroyat e Armand Silvestre aveva tratto aspirazione da La Cisma de Inglaterra (1627) di Pedro Calderón de la Barca più che dai lavori di Shakespeare.

Henry VIII è un bell’esempio di grand-opéra con precisi riferimenti storici, quattro atti, un balletto e i suoi prestiti tematici, a partire dal preludio, di pagine ispirate al repertorio musicale del Rinascimento inglese – un brano di William Byrd nel quarto atto accompagna i divertimenti organizzati negli appartamenti di Anna Bolena.

Atto I. Londra, 1533. Dietro le quinte del palazzo di re Enrico VIII, si moltiplicano intrighi, sospetti e accuse. Alcuni sono caduti, come il conte di Buckingham, appena condannato a morte, mentre altri sono stati eletti, come Don Gomez, che sta festeggiando la sua ascesa alla carica di ambasciatore di Spagna, un onore che deve alla sua amata Anna Bolena. Il re intende sposarla e la nomina dama di compagnia della regina Caterina d’Aragona, che vorrebbe ripudiare. Ma il matrimonio è sacro e per annullarlo è necessario il consenso della Chiesa. Caterina d’Aragona cerca invano di ottenere il perdono di Buckingham, mentre Don Gomez si preoccupa della passione del Re per Anna Bolena.
Atto II. Più tardi, nei giardini di Richmond, Anna Bolena è venuta da sola con il Re per una festa in suo onore, mentre la Regina rimane a Londra. Don Gomez, preoccupato e febbricitante, rimprovera ad Anna di aver trascurato la loro relazione. Anna cerca di contraddirlo, ma Enrico ascolta la loro conversazione. Rimasto solo con la donna che ama, il Re cerca di sedurla, ma lei rifiuta. Promette allora di rompere il suo matrimonio con Caterina, il che induce Anna Bolena ad accettare l’unione. La regina si rallegra di questa fortuna, ma Caterina arriva da Londra e la rimprovera apertamente per la sua ambizione. Enrico chiarì alla regina che il loro matrimonio era finito. Anche il legato del Papa è presente alla festa, dove Anna trionfa. Iniziano i festeggiamenti. Ballo.
Atto III. Primo quadro. Enrico è furioso con le autorità papali che continuano a rifiutare il divorzio. Egli ribadisce la sua passione per Anna, mentre lei lo prega di rinunciare alla loro unione nonostante l’amore reciproco. Enrico sospetta che la donna non sia sincera e finalmente riceve il legato papale che aspettava da tempo. L’incontro è burrascoso: Enrico rimprovera l’inviato da Roma di non aver obbedito ai suoi ordini e quest’ultimo proclama la sua fede e l’impossibilità di accettare il divorzio. Nonostante il rischio di uno scisma con la Chiesa, Enrico persiste e annuncia che lascerà la decisione al suo popolo, suscitando la preoccupazione del legato. Secondo quadro. Re Enrico chiede ufficialmente al Parlamento di annullare il suo matrimonio con Caterina. Don Gomez si schiera dalla parte della regina, che implora il re di non tradire la loro unione. Il giovane ambasciatore teme che la decisione del Re provochi una guerra, ma il Re riesce a ottenere l’assenso dell’assemblea parlamentare. Le minacce del legato di annullare qualsiasi decisione che mettesse in discussione il matrimonio del re, inducono il sovrano ad appellarsi apertamente al popolo, che appoggia senza esitazione il sovrano. Il Re annuncia il suo matrimonio con Anna Bolena e viene immediatamente scomunicato.
Atto IV. Prima scena. Anna ed Enrico sono sposati da tempo, ma Anna è preoccupata per l’umore del marito quando arriva Don Gomez, l’ambasciatore spagnolo, con un messaggio della regina ripudiata. Anna teme che egli la tradisca rivelando al re la loro precedente relazione, ma lui le giura di aver bruciato tutte le loro lettere. Il re, che ascolta il loro incontro, vede in Don Gomez un possibile rivale per il cuore della moglie, ma Don Gomez trasmette il messaggio disperato di Caterina e il re decide di andare a trovarla con l’ambasciatore. Secondo quadro. Morendo, Caterina consegna a Don Gomez il suo libro di preghiere, che contiene la lettera inviata da Anna Bolena per chiedere alla Regina di concederle gli onori di questa carica. Caterina rimprovera ad Anna di non aver mai amato Don Gomez, mentre Anna si vendica raccontandole della famosa lettera, che rivuole indietro. Caterina minaccia di consegnarla al Re, proprio mentre arriva Enrico convinto di avere le prove dell’infedeltà di Anna, ma Caterina getta la lettera incriminata nel fuoco e muore. Il Re è furioso e minaccia coloro che lo hanno tradito.

Opera di buon successo ai suoi tempi, Henry VIII divenne poi meno popolare. Un’altra versione in tre atti fu rappresentata successivamente nel 1889 con un balletto coreografato da Joseph Hansen. Nel giugno 1909, Paul Stuart riprese l’originale in quattro atti e mise in scena una nuova produzione con la coreografia di Leo Staats. Henry VIII rimase nel repertorio dell’Opéra di Parigi fino al 1919 per poi scomparire. Tra le riprese recenti ricordiamo quella del 1991 al Théâtre Impérial de Compiègne in una produzione di Pierre Jourdan ripresa al Liceu di Barcellona nel 2002, con Montserrat Caballé nel ruolo di Caterina.

Prevista nel 2021, centenario della morte del compositore francese, solo ora, dopo la pandemia, il teatro di Bruxelles riesce a mettere in scena la produzione di Olivier Py per la parte visiva e Alain Altinoglu per quella musicale. Occorreva poi un grande interprete per l’impegnativa parte del titolo ed è stato trovato nel baritono Lionel Lhote. Sono questi tre gli elementi che fanno di questa proposta l’evento della stagione.

La direzione di Altinoglu si destreggia magistralmente con l’imponente flusso musicale senza trascurare i momenti più intimi e riesce a dare unità a una partitura che privilegia la sapienza di orchestrazione e il respiro sinfonico al dinamismo teatrale e alla coerenza drammaturgica. L’orchestra del teatro risponde magnificamente e la potenza delle scene d’insieme non perde mai di precisione. Puntuale l’accompagnamento delle voci e convincente la performance del coro istruito da Stefano Visconti. La mancanza di spessore psicologico dei personaggi è compensata dalla personalità degli interpreti. Lionel Lhote, re volubile e ossessionato dal potere, possiede un timbro sontuoso, grande eleganza e una presenza vocale scolpita. Gomez trova nel tenore Ed Lyon chiarezza e luminosità d’accenti; Werner Van Mechelen è un incisivo Norfolk mentre Vincent Le Texier presta la sua voce ricca di armonici e potente nel registro grave (quasi l’Inquisitore verdiano) alla figura del legato papale colmo di zelo religioso ma anche pietoso e paterno verso la misera Catherine. La sfortunata prima sposa del re inglese ha la presenza vocale di Marie-Adeline Henry, soprano di bella e luminosa voce che però tende a sforzare negli acuti, ma il temperamento – notevole il momento in cui mette in guardia la rivale: «Gardez le temps! J’aurai l’éternité!» – delinea una Catherine a tutto tondo. Nora Gubisch (Anna Bolena) rivela un mezzo vocale a tratti consunto e una recitazione eccessivamente espressiva, ma anche lei è a suo modo convincente nonostante l’età e l’aspetto non la favoriscano. Ottimi si dimostrano i tanti comprimari.

L’aspetto visivo dello spettacolo rivela da subito la mano del regista Olivier Py e del suo scenografo di fiducia Pierre-André Weitz come l’ambiente nero lucido, il praticabile in alto, i precisi inserti iconografici – La crocefissione del Tintoretto della Scuola di san Rocco; il suo Giudizio finale della Madonna dell’Orto; la Madonna col bambino del Bellini di San Zaccaria – la presenza di danzatori che formano tableaux vivant o intervengono a sottolineare, talora troppo, momenti salienti della vicenda. Questo è un ricco spettacolo teatrale che reinterpreta la sontuosa forma del grand-opéra dell’epoca di Saint-Saens. Le idee di Py sulla religione, il potere, il giudizio e la violenza qui illuminano e si fondono coerentemente intorno ai temi della narrazione stessa. I personaggi a torso nudo, o del tutto nudi, per le sequenze coreografiche (in particolare per la tortura di Buckingham e poi per una danza delle creature infernali) evocano una fusione freudiana di erotismo e morte. Il balletto manca nello spettacolo in sala perché nell’intervallo la musica del balletto appositamente composta da Saint-Saëns viene eseguita da altoparlanti nella piazza antistante il teatro dell’opera dove i ballerini riprendono la narrazione. Tutto ciò non è ovviamente presente nella ripresa video che fa fatica a registrare l’infinità di spunti visivi della messa in scena di Py. L’ambientazione è del tempo di Saint-Saëns nelle architetture – a un certo punto entra in scena anche una locomotiva – e nei costumi di Bertrand Killy. Catherine è l’unica a vestire un costume d’epoca, Enrico lo fa solo per posare per le fotografie.

Le lungaggini di quest’opera di tre ore sono fugate da questa produzione intensa e stimolante, che mostra come il grand-opéra possa ancora emozionare e intrigare gli spettatori di oggi.

Lo spettacolo è al momento disponibile su youtube.

Kamuyot

Ohad Naharin, Kamuyot

Moncalvo, Orsolina28, 3 giugno 2023

Quando la danza diventa un’esperienza condivisa

A Orsolina28 sono ritornati Ohad Naharin e i suoi danzatori. L’anno scorso avevano presentato 2019, quest’anno era previsto il loro storico Deca Dance ma le avverse condizioni meteorologiche ne hanno impedito la messa in scena nel grande teatro all’aperto. Nessun problema: la efficientissima organizzazione di Orsolina28 attua il suo piano B e al riparo dagli scrosci d’acqua, all’interno di quel magico spazio immerso tra i ciliegi che è The Eye, il folto pubblico, scaglionato in due tranche, può assistere a Kamuyot (Quantità) spettacolo creato nel 2003 e passato anche a Torino danza nel 2019. La performance di poco meno di un’ora viene ripetuta poi per l’altra metà di spettatori entusiasti. Chi volesse può ritornare stasera domenica 4 maggio e con lo stesso biglietto vedere il previsto Deca Dance, Giove Pluvio permettendo.

Concepito per spazi non teatrali, Kamuyot è una performance che si nutre della vicinanza con il pubblico, rompe le tradizionali barriere e fa di danzatori e spettatori un solo respiro, un’esperienza condivisa, una colorata festa della danza attraverso tutti gli stili musicali. Al centro dello spettacolo c’è un semplice invito: ballare. Un’esperienza che con la sua energia esuberante e profondità emotiva permette al pubblico di “essere con” la danza e non solo di guardarla.

I venti danzatori sono mescolati tra gli spettatori seduti in prima fila di un ellisse che si chiude su uno spazio che non ha l’artificio dell’illuminazione teatrale. Le luci sono a giorno, non ci sono scenografie. A turno – singoli, a gruppi o tutti insieme – i danzatori lasciano il loro posto e su una colonna sonora eclettica che spazia dall’elettronica al rock giapponese al reggae esprimono con il loro corpo un’energia fisica travolgente. I momenti coordinati si alternano ad “assoli” che sembrano improvvisati, ma che sono invece il frutto di uno studio meticoloso pur nella libertà del linguaggio Gaga ideato da Naharin.

Un momento di particolare emozione è quello in cui i giovani danzatori prendono la mano di uno spettatore e c’è un intenso scambio di sguardi. Ma il coinvolgimento del pubblico si fa ancora più diretto: prima timido, poi più disinvolto, gli spettatori partecipano con entusiasmo all’invito dei danzatori a ballare tutti quanti insieme. È toccato anche a me. Ora posso dire di aver danzato con i Batsheva…

Aida

foto © W. Hösl

Giuseppe Verdi, Aida

Monaco di Baviera, Nationaltheater, 1 giugno 2023

★★★★☆

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Aida e Radames, moderni Giulietta e Romeo di paesi in guerra fra loro

La terz’ultima opera di Giuseppe Verdi fu commissionata dal khedivè del Cairo Isma’il Pascià, lo stesso che nel 1861 aveva domato un’insurrezione in Sudan. Con quest’opera richiesta al maggior operista dell’epoca – in caso di suo rifiuto si sarebbero fatti i nomi di Massenet e Wagner! – Isma’il intendeva celebrare l’imperialismo del suo paese, quel colonialismo interno al continente africano che prendeva a modello quello delle grandi potenze europee. Nel suo paese, l’Egitto, Aida era dunque l’illustrazione del pericolo che un paese a sud, l’Etiopia, poteva costituire per il suo «sacro suolo». L’inaugurazione del canale di Suez e del teatro khedivale dell’opera del Cairo (novembre 1869) erano dunque un pretesto per l’ufficializzazione di un progetto politico ben preciso. Nello stesso tempo però il libretto di Ghislanzoni sembrava voler mettere in guardia l’Egitto contro pretese territoriali nel corno d’Africa su cui l’Italia avrebbero avuto le mire espansionistiche che si realizzarono poco dopo.

Per il pubblico italiano della prima europea alla Scala di Milano l’otto febbraio 1872, Aida rievocava invece i sentimenti patriottici del Risorgimento, ancora una volta sentimenti nazionalistici, comunque. Insomma, l’opera di Verdi era una vera “opera politica”.

E per noi, oggi nel 2023, centocinquanta anni dopo, che cosa rappresenta Aida? Certo non le mire espansionistiche del khedivè d’Egitto o i sentimenti risorgimentali della Milano post-risorgimentale, ma non è neppure un esemplare di quel gusto dell’esotico tanto caro alla borghesia che affollava i teatri d’opera nella seconda metà dell’Ottocento. Questa domanda se la sono già posta molti di quelli che l’hanno messa in scena in questi ultimi anni, dando riposte diverse e più o meno convincenti. L’iraniana Shirin Neshat a Salisburgo nel 2017 aveva messo in luce le condizioni sociali della donna nell’attuale mondo islamico: in quanto esiliata dal suo paese era la persona giusta per leggere la vicenda di una figlia di re diventata schiava e della guerra tra due etnie nemiche. Qui sia Aida che Amonasro avevano la pelle chiara e non avevano sollevato quindi problemi di black face. Lo stesso era avvenuto a Parigi nel 2021 con l’Aida messa in scena da Lotte de Beer con burattini e un’ambientazione ottocentesca – e dove la pelle nera qui l’aveva l’interprete del Faraone!

Mentre in questi stessi giorni si può vedere alla Deutsche Oper di Berlino un’Aida in una messa in scena molto particolare di Benedikt von Peter, alla Bayerische Staatsoper di Monaco Damiano Michieletto fornisce la sua lettura. La vicenda di Aida si svolge durante una guerra, e una guerra di oggi è quello che vediamo in scena: in una palestra scolastica dal soffitto perforato dalle bombe vi sono degli sfollati che hanno ottenuto rifugio qui dalle loro case bombardate, da una città distrutta. Si vedono anche i prigionieri nemici ed è magra consolazione scoprire che sono in condizioni appena più misere degli stessi rifugiati “locali”. Il Messaggero arriva in scena col cadavere di un bambino e il suo breve intervento assume così un rilievo assai più tragico. Il ritorno trionfale dei vincitori è una triste parata di mutilati o di soggetti mentalmente disturbati che ricevono in stato catatonico le loro medaglie al valore. Anche Radames è ritornato segnato dalla guerra mentre immagini proiettate sullo sfondo ci mostrano feriti e volti stravolti. Dai palchi di proscenio le “tube egizie” aggiungono un tono crudelmente beffardo. Diavolo d’un Michieletto: è riuscito a commuovere anche con la “marcia trionfale”!

Prima Aida aveva cantato «Ritorna vincitor!… E dal mio labbro | uscì l’empia parola!» con una madre china sulla piccola bara bianca del figlioletto ucciso. «È una guerra civile. La gente non è preparata alla violenza. La morte ha un effetto così devastante perché irrompe nella vita quotidiana, nelle famiglie, non risparmia i bambini. Non voglio proporre questo racconto come una vicenda di militari, ma di civili» dice il regista e non si può non pensare all’insensato conflitto in corso ai confini dell’Europa.

Più che alla patria, Aida pensa alla sua famiglia, lei che è orfana di madre ed è stato strappata al padre. Vediamo infatti il suo doppio di bambina felice, come felici e incoscienti sono i bambini che giocano tra le macerie. Questi momenti onirici non mancheranno nello spettacolo e ad essi è affidato il finale: i due giovani non muoiono, ma finalmente si uniscono per l’eternità accompagnati da un corteo felliniano che si muove sulle parole di «A noi si schiude il ciel».

Un intervallo divide in due parti i quattro atti. Nella seconda parte la scenografia, come sempre sorprendente, di Paolo Fantin riempie il grande ambiente di una cenere nera che abbiamo visto cadere prima dagli squarci nel soffitto. La riva del Nilo è un ripido pendio che, senza pareti, diventa la tomba dei due giovani. Il sapiente gioco di luci radenti di Alessandro Carletti dà profondità alla scena e traghetta lo spettatore dalle scene più crude a quelle oniriche. Appropriati come sempre sono i costumi di Carla Teti che non connotano un paese in particolare, mentre hanno la loro forza ed efficacia i video della Rocafilm. La drammaturgia porta le firme di Katharina Ortmann e di Mattia Palma, il quale per il programma di sala analizza la storia delle rappresentazioni di Aida chiedendosi se sia un’opera «monumentale, grandiosa, spettacolare» o piuttosto un’opera “da camera”. Sì, c’è un po’ di grand-opéra in Aida, ma i vuoti prevalgono sui pieni: l’opera inizia in pianissimo (pp) con il motivo ondulante dei violini con sordina e termina ancora più piano (ppp) con il “morendo” degli stessi violini. Questa insolita trasparenza è ben evidente nella magnifica interpretazione di Daniele Rustioni che ottiene dall’orchestra del teatro, più avvezza in realtà a Richard Strauss, tempi sempre precisi, suoni di grande morbidezza e colori tenui, ma anche volumi sonori adeguati nei momenti più intensi. Per di più, pur salvaguardando la cantabilità “italiana”, Rustioni mette in luce gli aspetti più moderni della partitura, uno per tutti l’effetto dell’appena udibile rullo della gran cassa che segue al silenzio di Radames alle accuse di tradimento di cui non si discolpa. Perfetto risulta l’equilibrio sonoro tra buca e scena, con l’orchestra che non copre le voci. Voci che comunque hanno una loro imponente presenza.

Il soprano russo Elena Stikhina è un’Aida di bel timbro, delicate mezze voci, lunghi filati, elegante fraseggio e acuti luminosi. Anche con abiti dimessi rivela un’efficace presenza scenica e la sua sensibile interpretazione ha conquistato senza riserve il pubblico. In sostituzione di Anita Rachvelishvili, indisposta, il mezzosoprano Clémentine Margaine, a parte qualche momento di perfettibile intonazione, ha dimostrato un bel temperamento. La voce non è sempre omogenea nei passaggi di registro, con alcune note gridate, ma nel complesso ha delineato una figura tormentata e umana che è stata molto apprezzata dagli spettatori. Amneris è qui concupita da Ramfis, non un sacerdote ma un arrampicatore sociale che dopo aver eliminato Radames si capisce che arriverà al potere tramite la figlia del faraone. Il personaggio trova una forte caratterizzazione nel basso rumeno-ungherese Alexander Köpeczi dal possente registro grave e dalla eccezionale proiezione vocale. Un altro basso, questa volta greco, è il giovane Alexandros Stavrakakis, un Re vocalmente autorevole. Finalmente un Amonasro non trucido, ma amorevole padre, è quello di George Petean, il baritono rumeno che conferma la personalità interpretativa che già conoscevamo. 

Brian Jagde, giovane ma affermato tenore americano, ci porta indietro nei tempi: il suo Radames è vocalmente molto generoso ed estroverso, anche troppo, le mezze voci sono trascurate, l’emissione è sempre forte. Da anni ormai si sente il finale di «Celeste Aida» con il si♭prescritto in partitura pianissimo – pp, ma due battute prima Verdi arriva addirittura a pppp! – Jagde invece lo spara a tutti decibel senza neppure tentare di smorzarlo. Nel finale recupera un po’ di espressività, ma nel complesso la sua performance delude. Non quella del coro, che fornisce invece un’ottima prova sotto la guida di Johannes Knecht.

Il pubblico di Monaco di Baviera non sembra sia rimasto deluso dalla assenza di sfingi e piramidi in scena e ha tributato agli artefici dello spettacolo grandiose e insistenti ovazioni.