foto © Andrea Macchia – Teatro Regio Torino
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Fromental Halévy, La Juive
Torino, Teatro Regio, 21 settembre 2023
Apertura di stagione con il grand opéra a Torino
Con tredici titoli, di cui ben sette pucciniani, la stagione del Regio, intitolata “Amour toujours”, inizia con un’opera in cui di amore ce n’è ben poco, solo odio e desiderio di vendetta. Lavoro molto popolare nel passato – è con La Juive (L’ebrea) che Enrico Caruso terminò la sua carriera al Metropolitan di New York nel 1920, otto mesi prima di morire, e fu proprio l’aria dal IV atto «Rachel quand du Seigneur» la sua ultima registrazione discografica – da qualche anno La Juive sta risalendo la china dall’oblio in cui era scivolata ed è tornata in auge grazie a diverse pregevoli produzioni come quella che aveva inaugurato l’anno scorso la stagione del Grand Théâtre di Ginevra o quella del 2019 diretta da Antonino Fogliani e allestita da Peter Konwitschny ad Anversa.
Salvo errore, in Italia l’ultima volta La Juive è stata data nel 2005 alla Fenice. A Torino mancava dal 1885!
Daniel Oren ha dichiarato di essere un grande estimatore dell’opera, che ha già diretto due volte. Essendo israeliano poi si capisce come sia sensibile all’argomento del lavoro di Halévy che infatti affronta con solennità liturgica, soprattutto nella scena prima dell’atto secondo, quella della Pesach. Ma anche negli altri momenti Oren adotta tempi estremamente dilatati che, nonostante i numerosi tagli, hanno portato l’esecuzione a superare le quattro ore. La grandiosità e la tensione del lavoro si sono così persi in una lettura analitica che ha sfiorato la decostruzione della partitura e il grand opéra è diventato un rito di estenuata lentezza dove ogni battuta viene centellinata, ogni intervento solistico strumentale assaporato, i recitativi si perdono nella lunghezza, pause eterne sfilacciano il discorso musicale fino allo stremo e per i cantanti è come se dovessero cantare due volte visto che ogni nota viene allungata del doppio. Ma per fortuna che in scena ci sono interpreti come Gregory Kunde, debuttante nella parte, che opera il miracolo con uno strumento vocale che non conosce usura e viene piegato con estrema intelligenza per delineare quell’immenso e tragico personaggio che è Éléazar. L’atteso momento dell’aria «Rachel quand du Seigneur la grâce tutélaire» (che nella lettura di Oren supera i sette minuti contro i cinque-sei di molte esecuzioni) e della successiva cabaletta – cantata “avec exaltation” prescrive il libretto – «Dieu m’éclaire» sono risolte con un’eleganza, un’espressività e un controllo dei fiati e una facilità degli acuti stupefacenti e se si pensa che questo avviene a mezzanotte passata, dopo quattro ore estenuanti, si rimane senza parole per la resistenza e l’inossidabilità di una voce non più verdissima. Eppure, è proprio il confronto con l’altro tenore, il giovane rumeno Ioan Hotea già sentito come Léopold a Ginevra, a esaltare la qualità della performance del quasi settantenne cantante dell’Illinois che riprende la parte che fu scritta per Adolphe Nourrit, forse il più grande tenore dell’Ottocento.
Per un’altra star di quel secolo, Marie-Cornélie Falcon, fu invece creata la parte di Rachel, qui affidata a Mariangela Sicilia giunta a un punto luminoso della sua fulgente carriera. Con sicurezza e grande sensibilità il soprano calabrese dà il meglio di sé oltre che nei tanti ensemble nel momento solistico della trepidante romanza «Il va venir» del secondo atto con bellissimi pianissimi e smorzandi.
Il secondo soprano, che alla Salle Le Peletier il 23 febbraio 1835 fu Julie-Aimée-Josèphe Dorus-Gras, qui è Martina Russomanno, cantante la cui biografia precisa che ha iniziato la carriera artistica come cantante pop a 11 anni e sarà per questo che esibisce una sicura presenza scenica e doti vocali che le permettono di eccellere nella virtuosistica parte della principessa Eudoxie. Assieme le due cantanti evidenziano al meglio le differenti personalità e i caratteri decisamente differenziati dei due ruoli: in Rachel il registro grave (che da allora viene definito proprio come “Falcon”), in Eudoxie la brillantezza del registro acuto e le agilità belcantistiche.
Due tenori, due soprani, due baritoni e un basso: la figura del cardinale Brogni è interpretata senza particolare rilevanza da Riccardo Zanellato le cui note gravi sono talora troppo piene d’aria e poco sonore, Gordon Bintner e Daniele Terenzi invece si suddividono le parti di Ruggiero, il gran prevosto della città di Costanza, e Albert, il sergente d’armi. Il coro del teatro è alle prese con la lingua francese, stavolta resa meglio del solito – grazie forse alla nazionalità del sovrintendente… – e con un ruolo decisivo in quest’opera, ora come insieme di fedeli, ora come folla festante, ora cortigiani, ora popolani. È lo stesso coro che, sotto la guida del Maestro Ulisse Trabacchin, neanche due settimane fa si era esibito swingando nel musical di Leonard Bernstein eseguito per MITO Settembre Musica. Ma è un peccato che qui con i tagli venga a mancare il coro iniziale del quinto atto dove si possono ascoltare gli ineffabili versi della versione italiana: «O che gioia, o che piacer, | gl’infedeli, i traditor | dalle fiamme arsi veder! […] Oh, davvero spettacol piacente | fra non molto da noi si vedrà! | A morire nell’acqua bollente | ogni ebreo condannato sarà»…
L’allestimento è affidato a quell’artista visivo che è Stefano Poda, personaggio tuttofare che non si deve confrontare con altri: un regista normalmente deve discutere con scenografo, costumista, coreografo, esperto luci e quant’altri fanno nascere uno spettacolo. Quelli di Poda sono invece parti in solitaria, che portano la firma riconoscibilissima del loro creatore unico, rivelano un’indubbia coerenza visiva, ma proprio in questo hanno la loro debolezza: si capisce che non sono il risultato di un confronto di idee, discussioni: sono installazioni, più o meno riuscite, che hanno alla base un’idea, anche geniale, perché no, che però non è passata attraverso l’elaborazione che comunemente subisce nella creazione di uno spettacolo teatrale che vive di interventi diversi. Da qui anche la ripetitività degli spettacoli di Poda, che ricrea il suo mondo in un linguaggio fatto di stilemi riproposti ogni volta. E può essere divertente scoprire gli scampoli delle sue produzioni del passato: la croce tagliata nel fondale (La forza del destino, Parma 2012), i gessi delle figure umane (Thaïs, Torino 2008; Eduardo e Cristina, Pesaro 2023), le sfilate al rallentatore con lunghe palandrane (Thaïs), i mimi/danzatori che formano un grappolo umano attorno ai personaggi (Aida, Verona 2023; Eduardo e Cristina) e così via. Questa volta Poda ci risparmia i baluginii e gli specchietti della sua Turandot (Torino 2018) e della Aida, essendo qui luccicanti solo il Grande Prevosto e la collana di Costantino.
L’idea di base della sua lettura è l’oppressione e intolleranza della chiesa, ma soprattutto la religione che ha potuto portare a tante scelleratezze: “Tantum religio potuit suadere malorum” è infatti la frase che campeggia sulla struttura predisposta da Stefano Poda. È il verso del primo libro del De rerum natura con cui Lucrezio conclude l’episodio di Ifigenia sacrificata dal padre Agamennone: “hostia concideret mactatu maesta parentis” (perché dolente vittima cadesse d’un sacrificio paterno). Un evidente parallelo con la figura di Rachel sacrificata dal “padre” Éléazar. Poda guarda dunque al passato, al mito greco, piuttosto che al grand opéra, ma il suo allestimento ha comunque una evidente grandiosità nella scelta di utilizzare il palcoscenico del Regio in tutta la sua profondità e con tutti i suoi marchingegni tecnologici: ponti mobili che si spostano avanti e indietro, si alzano, spariscono in basso, piattaforme rotanti. Assieme alla iperattività dei suoi danzatori costituiscono gli unici elementi in movimento di una mise en espace che ha la staticità di una esecuzione oratoriale, con i cantanti schierati in proscenio rivolti al pubblico e il coro sullo sfondo. Lo horror vacui visivo di Poda si esprime in innumerevoli simboli e scene multiple dove alla cena pasquale degli ebrei corrisponde in alto il tableau vivant dell’Ultima Cena, o il lento procedere di una figura che rappresenta il Cristo, o dell’iterazione della salita al calvario e altre pantomime cristologiche. Inspiegabili sono invece alcune cadute di gusto come il principe Léopold che si nasconde sotto il tavolo all’arrivo della Principessa, o l’outfit della Principessa stessa che sembra pronta per una scena di bondage sex. I bozzetti originali facevano prevedere una scenografia più ricca di quella effettivamente realizzata, ma anche così la presenza di una struttura metallica a forma di astrolabio che scende dal soffitto e poi risale rimane inconcludente e misteriosa. Privo di tensione è il finale, il vero climax di questo grand opéra, quando Rachel sale al patibolo ed Éléazar svela a Brogni la tremenda verità, ossia che quella appena sacrificata è sua figlia. Qui Mariangela Sicilia si avvicina verso il fondo del palcoscenico e poi si gira verso il pubblico: che sia il coup de théâtre definitivo ce lo dice solo la musica, non quello che vediamo.
Lo spettacolo finisce ben dopo la mezzanotte e questo in una città dove i trasporti pubblici, già poco efficienti di giorno, si diradano ancora di più la sera. Invece di iniziare alle 20 non si poteva iniziare prima? A Ginevra il Don Carlos di Verdi, altrettanto lungo, era alle 18 e a Venezia si entra alle 19 alla Fenice. Dopo l’intervallo ci sono infatti alcune defezioni, ma il pubblico rimasto tributa caldi applausi agli artefici dello spettacolo con vere e proprie ovazioni per i due interpreti principali. Chiari invece sono alcuni segni di dissenso nei confronti del regista.
⸪
