Mese: giugno 2024

TEATRO ARIOSTO

Teatro Ariosto

Reggio Emilia (1878)

575 posti

Secondo per importanza dopo il Municipale Valli, il teatro Ariosto è il risultato di una storia ugualmente complessa e appassionante. A determinare le circostanze che conducono alla costruzione dei due principali edifici del sistema teatrale reggiano è un unico evento: l’incendio del teatro di Cittadella, nella notte tra il 21 e il 22 aprile 1851, che distrugge buona parte della vetusta costruzione ideata da Antonio Cugini nel 1740-1741 e modificata da Pietro Marchelli nel 1839. Il fuoco risparmia soltanto i vestiboli, la scala maggiore con il salone e le corrispondenti sale superiori, pochi locali di servizio e il portico ad arcate sul fianco sud dell’edificio.

Tracce dello stabile settecentesco sono ancora visibili lungo il colonnato che delimita la parete sud del teatro, affacciata su Corso Cairoli. Il progetto di ricostruzione, realizzato dall’architetto Achille Grimaldi, fu finanziato da Ulderico Levi, esponente di una delle più importanti famiglie ebraiche della città. Secondo la moda di fine XIX secolo e su richiesta della cittadinanza, l’Ariosto fu progettato come spazio teatrale a destinazione plurima, adatto sia alle rappresentazioni di prosa sia alle esibizioni delle compagnie equestri. L’impianto architettonico seguì il modello dei politeama inglesi e francesi: la cavea prese forma semicircolare e la struttura a palchi, mantenuta per il secondo ordine, fu sostituita al primo ed al terzo da gallerie uniche.

Nel 1927 il Comune pose mano ad una profonda revisione: venne aggiunto il golfo mistico per l’orchestra, furono eliminate le strutture necessarie agli spettacoli equestri ed esterno ed interno furono decorati ex novo da Anselmo Govi con motivi tardo-liberty; notevole il grande affresco della cupola, raffigurante episodi dell’Orlando furioso e cinto alla base da una fascia in cui sono riportati i versi di apertura del poema. L’ultimo grande intervento di restauro del teatro avvenne nel 1981 dovuto all’architetto Ivan Sacchetti, responsabile anche della conversione della Cavallerizza in edificio per spettacoli.

La campagna di lavori, durante la quale l’edificio rimane sempre aperto, comporta la demolizione e ricostruzione delle pericolanti gradinate della galleria superiore, l’abbassamento e sostituzione del piano della platea, il rifacimento delle graticce, del piano del palcoscenico, del quale viene aumentata la dimensione, e degli impianti elettrici. Le decorazioni sono pulite e reintegrate delle parti mancanti, i colori originali recuperati, allo stesso modo dell’apparato decorativo degli atrii, mentre l’affresco della cupola è consolidato. Un nuovo sipario correda la sala, mentre quello storico, di Govi, è sottoposto a restauro. Questa prima fase del recupero termina nel 1984.

Nel 2004 la facciata principale è interessata da uno scrupoloso restauro delle superfici, con il ripristino di alcuni elementi decorativi originari, cui segue l’installazione di un nuovo sistema d’illuminazione. Il teatro Ariosto è oggetto, dal gennaio 2015, di una nuova serie di operazioni di manutenzione e di aggiornamento riguardanti l’adeguamento alle norme antisismiche, a seguito delle scosse di terremoto del 2012, con rifacimento dell’impianto di riscaldamento, sistemazione integrale dell’illuminazione, miglioramento della capacità acustica e miglioramento delle misure di sicurezza in tutti gli ordini di palchi.
Viene rifatta integralmente la prima balconata e la platea, con un pavimento rivestito di legno di abete della Val di Fiemme, con sostituzione integrale delle poltrone, ed eliminazione dei posti che non garantivano una buona visibilità del palcoscenico. La capienza ora è di circa 575 posti.

Die Meistersinger von Nürnberg

La locandina dello spettacolo

Richard Wagner, Die Meistersinger von Nürnberg

Madrid, Teatro Real, 18 maggio 2024

★★★★★

(live streaming)

A Madrid la ‘commedia’ di Wagner incanta il pubblico del Real

«Mein Kind: | von Tristan und Isolde | kenn’ ich ein traurig Stück» (Bimba mia: di Tristano e Isotta conosco una triste storia) dice Hans Sachs a Eva – e nella musica Wagner ci fa ascoltare una citazione del tema del Tristan. Siamo al terzo atto e Hans ha la definitiva conferma che l’amore per la ragazza non avrà lo sbocco sperato: Eva ha trovato il giovane cavaliere Walter von Stolzing e se n’è perdutamente innamorata, ricambiata. Come il Falstaff di Verdi, Die Meistersinger von Nürnberg (I maestri cantori di Norimberga) sono una commedia dominata dalla nostalgia del passato, della giovinezza che non c’è più. È questo il tema principale di quest’unica opera comica del canone wagneriano che – a parte il giovanile Das Liebesverbot, che tra l’altro è andato in scena qui al Real pochi anni fa – è la più leggera e gioiosa a dispetto della complessità e lunghezza. Una commedia dove sono i caratteri umani i protagonisti, non le idee o i simboli. Wagner la scrisse negli anni 1845-1867 e andò in scena la prima volta nel 1868, tra il Tristan e il Rheingold quindi.

A una delle figure più amate della cultura nazionale tedesca, il ciabattino poeta innamorato che cede il passo al giovane che ha aiutato a diventare Meistersinger per sposare l’amata, era stata dedicata l’omonima opera di Lortzing (Hans Sachs, 1840) ma è nell’opera di Wagner che ne viene celebrata pienamente la figura. Per interpretarlo si sono succeduti i maggiori bassi-baritoni tedeschi dei loro tempi: Hans Hotter, Josef Greindl, Dietrich Fischer-Dieskau, Theo Adam, ma anche Donald McIntyre, José van Dam, Giuseppe Taddei, e più recentemente Franz Hawlata e Michael Volle.

Dalla sua rivelazione nel 2011 a Glyndebourne, Gerald Finley ha rivoluzionato l’interpretazione del personaggio con una tecnica vocale e un approccio attoriale senza eguali in cui apporta la sua enorme sensibilità, eleganza di fraseggio e il «ventaglio di chiaroscuri, sottigliezze, allusioni tutte sciolte nel canto. […] Quando lo si plasma così, il declamato wagneriano lo si scopre per quello che davvero sarebbe: mai pesante e soprattutto mai fatto scadere nel parlato, bensì perfetto equivalente, nel teatro musicale, della parola in quello di prosa. […] Una recitazione tutta in sottrazione, basata su cenni lievi, rapide occhiate, ombre di sorrisi, l’impercettibile oscillare del capo. Il John Gielgud della lirica, però più commovente», aveva scritto Elvio Giudici a proposito di Gerald Finley in quella produzione.

Tredici anni dopo a Madrid si ha la conferma della grandezza di questo artista pur nella diversa situazione registica, là David McVicar, qui Laurent Pelly. Il regista francese neppure con Wagner rinuncia alla sua vena stilistica, fatta di ironia ed estrema fedeltà alla musica e allo spirito del testo. La sua lettura è inconfondibile per leggerezza e umorismo, attenzione alla recitazione e alla definizione di «squarci precisi di quotidiana psicologia personale», direbbe ancora il Giudici, come la pedanteria dei maestri cantori, ognuno singolarmente connotato.

La scenografia di Caroline Ginet ricrea una Norimberga fatta di piani sghembi e case di cartone, precarie e appena abbozzate, mentre i costumi anni ’50 goffi e polverosi di Jean-Jacques Delmotte e dello stesso Pelly aggiungono una nota di tristezza e povertà, come se fossimo nella Germania del dopoguerra. Le casette di cartone ammucchiate da un lato nel terzo atto non possono fare a meno di ricordare le rovine dei bombardamenti aerei che le luci di Urs Schönebaum rendono ancora più drammatiche. L’unica immagine idillica del paesaggio delle Alpi bavaresi sullo sfondo scompare dietro nubi nere quando Sachs esalta l’arte tedesca nell’inquietante finale.

Le quasi sei ore di spettacolo passano rapidamente nella felice narrazione di Pelly e nella concertazione di Pablo Heras-Casado, che offre una lettura “mediterranea” della smisurata partitura sottolinenando la trasparenza e leggerezza dell’orchestrazione con un tono antiretorico e pieno di garbo. Lo si capisce subito dalla ouverture che fa dimenticare come fosse stata spesso utilizzata quale sfondo musicale delle adunate oceaniche del III Reich, o dal meraviglioso preludio al terzo atto con quella dolce morbidezza dei violoncelli e dei corni. Il direttore andaluso esalta il tono cameristico di certe pagine o la precisa ma non ingessata trama contrappuntistica dei concertati e accompagna magistralmente i cantanti in un efficace equilibrio dove non viene mai meno la cantabilità. Senza la minima smagliatura si dimostra l’orchestra del teatro ed esaltante la performance del coro del teatro istruito da José Luis Basso nei suoi interventi apprezzabilissimi anche dal punto di vista recitativo.

Al livello stratosferico di Gerald Finley non possono arrivare gli altri cantanti, è ovvio. Eva ha in Nicole Chevalier un’interprete attenta ed espressiva ma manca di quella freschezza che richiederebbe la parte e la voce ha asprezze che inficiano il colore e la linea del canto. Tomislav Mužek è un Walther von Stolzing convincente, dal timbro luminoso e dalla ottima tenuta vocale in una parte estenuante. Altrettanto instancabile è il Sixtus Beckmesser di Leigh Melrose, che il cantante delinea in tutta la sua grottesca e meschina figura grazie alle sue ottime doti attoriali oltre che vocali. Spesso forzata nell’acuto è la Magdalene di Anna Lapkovskaja e un eccellente David è Sebastian Kohlhepp. Nobile e solido è il Veit Pogner di Jongmin Park mentre una menzione per l’efficace presenza scenica va agli altri comprimari: Paul Schweinester, Barnaby Rea, José Antonio López, Albert Casals, Kyle van Schoonhoven, Jorge Rodríguez-Norton, Bjørn Waag, Valeriano Lanchas e Frederic Jost. Cameo di lusso quello di Alexander Tsymbalyuk come guardiano notturno. La registrazione video è disponibile su ArteTv.